mercoledì 23 gennaio 2019

La Stampa 23.1.19
Così Cuarón sposta i confini del Messico
di Piero Negri


Al primo strato, «Roma» di Alfonso Cuarón, il film messicano che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia e ha appena ricevuto dieci nomination agli Oscar, è un’opera sulla memoria. Cuarón dice che al 70% è fatto di ricordi, la casa in cui è cresciuto è stata ricostruita sul set esattamente com’era, dettaglio per dettaglio, mobile per mobile. Colpo di genio: il personaggio più autobiografico, secondo di quattro fratelli bambini e adolescenti, non ha alcuna centralità nella storia. Al secondo strato, «Roma» è un film su una famiglia borghese nella Città del Messico degli Anni 70, sui complessi rapporti che si instaurano tra una donna abbandonata dal marito, i suoi figli e le due donne di servizio conviventi che vengono dalla campagna.
Un film sui sensi di colpa del piccolo Cuarón nei confronti della governante che l’ha cresciuto? Forse più sulla gratitudine: quella donna esiste ancora, si chiama Liboria Rodríguez, il regista ha raccontato che l’ha sempre chiamata «Mamá». Al terzo strato, «Roma» è un film sulla storia del Paese centramericano, sulla repressione che seguì il locale Sessantotto, sul Massacro del Corpus Christi (1971) in cui 120 giovani, perlopiù studenti, morirono per mano di forze paramilitari addestrate anche negli Usa (e per quanto Cuarón questo aspetto non lo approfondisca, a nessuno sfugge che le dieci nomination, nei giorni in cui il Muro al confine col Messico divide gli americani, hanno un significato politico preciso).
Si potrebbe andare avanti con gli strati di significato, ma non sarebbe giusto: il vero miracolo di «Roma» sta nel modo in cui racconta ciò che racconta. Non solo per il bianco e nero, frutto degli ultimi sviluppi del digitale, eppure post-prodotto da Cuarón in modo da ricordare le fotografie novecentesche di Ansel Adams. Non solo per il ritmo, né lento né veloce, che si fissa nella prima scena - uno sciabordio di acqua e detersivo sul selciato che rimanda al momento cruciale, a bordo mare, di due ore dopo - e che è, appunto, il ritmo dei ricordi. Non solo per i movimenti di macchina insoliti e insistiti, un’ampia panoramica orizzontale che mima - si direbbe - lo sguardo di un ragazzino sul mondo, la scoperta di sé attraverso le storie e le persone che incrociano la sua prospettiva.
Insomma, «Roma» è uno di quei film per cui dire mi piace/non mi piace non ha troppo senso. È un film che sposta in avanti molti limiti, di linguaggio e non solo, che va visto, e basta. Che merita le nomination e gli Oscar che probabilmente avrà. Si può perfino dimenticare che sia stato distribuito da Netflix e che anche per questo segni un punto di non ritorno: mai un film della piattaforma online aveva avuto tanti riconoscimenti (e tra questi, il successo in sala: in Italia lo proiettano ancora una decina di cinema, 900 nel mondo). Si dice che la campagna per l’Oscar messa in campo da Netflix sia una delle più costose di sempre (20 milioni di dollari), ma questo attiene al business, e per una volta possiamo dimenticarcene. Perché «Roma» riconcilia e modernizza l’idea di cinema d’autore: Cuarón è candidato all’Oscar come produttore, come regista, per la fotografia e la sceneggiatura. Rappresenta il ritorno a casa di un uomo che ha fatto fortuna a Hollywood e che con «Gravity» (2013) ha vinto sette Oscar. «Non è cinema, si tratta di vita», ha detto lui e per una volta è possibile crederci.