il manifesto 23.1.19
L’Academy promuove Netflix, tappeti rossi per lo streaming
Oscar
2019. Dieci nomination a «Roma» di Cuarón e alla «Favorita» di
Lanthimos. In corsa anche «Black Panther» e «Cold War». Una candidatura
ai fratelli Coen con «La Ballata di Buster Scruggs»
di Cristina Piccino
Alla
fine Netflix ce l’ha fatta nonostante le critiche, i malumori, gli
sbarramenti è riuscita a imporsi trionfalmente a Hollywood conquistando
dieci nomination per Roma, e anche la nomination per la migliore
sceneggiatura non originale a The Ballad of Buster Scruggs di Ethan e
Joel Coen. Sembra quasi un paradosso, specie visto da qui, il tappeto
rosso steso dall’Academy al colosso dello streaming che del «cinema»,
inteso come sala, è uno dei «nemici» maggiori. Certo i tempi sono
cambiati e così la fruizione dei film, tablet, pc, smartphone e
quant’altro, la «filosofia» Netflix appunto, ma al di là delle possibili
riflessioni estetico-filosofiche sulla visione oltre la sala delle
immagini in movimento – peraltro già da tempo e prima dei colossi dello
streaming al centro di pratiche artistiche e critiche – e delle
annotazioni sulla convivenza «felice» tra sala e piattaforma (di cui
però non si ha riscontro perché Netflix in tutto il mondo ha chiesto
agli esercenti di non rendere pubblici gli incassi di Roma), questa
decisione è il segnale che qualcosa sta forse cambiando nel sistema
dell’industria americana: un riposizionamento obbligato in vista
dell’immediato futuro? Una scelta di mercato?
DI CERTO la sorpresa
di questa 91a edizione la cui cerimonia sarà il prossimo 24 febbraio
per ora senza un presentatore e senza alcuna regista nominata, l’anno
dopo il #MeToo quando però era stata ignorata Kathryn Bigelow con
Detroit, probabilmente troppo disturbante. Insieme alla nomination
(finalmente) a miglior regista e film – tra le altre – per Spike Lee,
col magnifico BlacKkKlansman, amoroso omaggio all’irriverenza della
blaxploitation che unisce l’America razzista e separatista degli anni
’70 a quella trumpista di oggi. Per il resto tutto previsto – Bohemian
Rhapsody; Green Book; A Star Is Born; Vice – compresa la nomination a
Black Panther a miglior film per il quale era stata istituita (e poi
cancellata) la categoria del film popolare.
Roma del già premio
Oscar Alfonso Cuaròn per Gravity, Leone d’oro all’ultima Mostra del
cinema di Venezia, si afferma in tutte le categorie principali – oltre
al miglior film straniero che era persino scontato: miglior film, regia,
attrice protagonista per Yalitza Aparicio, attrice non protagonista
Marina de Tavira, fotografia lo stesso Cuaròn, sceneggiatura originale. E
al di là dell’affaire Netflix non è poi così sorprendente: la vita di
Cleo, la donna di servizio di casa Cuaròn, in cui si rispecchia quella
della famiglia del regista, e del Messico negli anni Settanta raccontato
su quella linea netta, anche quando non palesemente dichiarata che
divide la borghesia benestante del quartiere di Città del Messico che dà
il titolo, e il sottoproletariato indio a cui Cleo appartiene, è uno di
quei film perfettamente riusciti per essere amato: alta qualità e
emozione, scelte non scontate – girare in mixteco, la lingua di Cleo, e
in spagnolo e in bianco e nero – una temperatura emozionale che tocca
ogni sfumatura con equilibrio, grazia, dolcezza e che sa spostare lo
sguardo.
NON COME il suo più diretto rivale La favorita (targato
Fox Searchlight, lo studio che sta per essere assorbito dalla Walt
Disney Company)del regista greco ora hollywoodiano Yorgos Lanthimos, in
sala domani – anche questo visto a Venezia, e per il festival diretto da
Alberto Barbera è di nuovo una importante affermazione – gelida e
compiaciutissima variazione sul potere, e sulle sue diverse applicazioni
pensata invece «per piacere» nelle superfici- cast, costumi,
virtuosismi di luci di candela e grandangoli. Proprio come l’altro
nominato a sorpresa nella categoria del miglior regista – oltre che per
il film straniero – Cold War di Pawel Pawlikowski, in un bianco e nero
d’epoca « abbagliante» – nel senso peggiore – del film di confezione,
che dichiara a ogni fotogramma la sua importanza da «capolavoro» –
caratteristica questa che deve convincere molto l’Academy.
E
INFATTI uno dei film più intensi della stagione, cioè First Man non c’è,
se non in qualche premio tecnico, eppure del superoscarizzato Chazelle è
il film più bello, ma a differenza di La La Land è pieno di spigoli, e
di malinconia, non progettuale né programmatico, entra intimamente,
quasi come un film familiare, nella dimensione pubblica e nascosta del
suo celebratissimo «eroe», il primo uomo a mettere piede sulla luna…Così
come è stato ignorato Suspiria di Luca Guadagnino – nemmeno la musica
magnifica di Thom Yorke – altro film che chiede un riposizionamento, che
tradisce ogni genere, che gioca tra gli specchi, e i riflessi
invisibili, della storia e del cinema.
NETFLIX non ha scommesso
per caso su Cuaròn e su questo film, chiudendo un budget per un progetto
su cui nessuno era disposto a investire – come spesso il regista
messicano ha spiegato – e ha saputo utilizzare e gli entusiasmi dalla
prima proiezione consapevole di avere la chiave d’accesso giusta per un
salto di livello. Così ha permesso l’uscita in sala prima dello
streaming – cosa mai accaduta – seppure per una decina di giorni, e
soprattutto ha giocato la partita nella campagna di promozione con un
investimento di 25 milioni di dollari e la strategia affidata a Lisa
Taback artefice delle campagne per Chicago e The Artist. E comunque vada
la notte delle statuette ha già vinto.