La Stampa 22.1.19
Brexit, May presenta il suo piano B
Corbyn: “Non è cambiato nulla”
La premier a Westminster: il no deal è sul tavolo. Via la tassa per il permesso di residenza
di Alberto Simoni
Theresa
May torna a Westminster e presenta ai deputati il suo piano B per
portare il Regno Unito fuori dall’Unione europea entro i tempi fissati,
ovvero il 29 marzo del 2019. Un passaggio obbligato quello della premier
Tory dopo la rovinosa sconfitta patita ai Comuni martedì scorso con
l’affossamento del piano originario di uscita dalla Ue.
Il piano B
somiglia però tanto a quello bocciato sette giorni fa, le rinfacciano
dai banchi dell’opposizione. Ma pure qualche conservatore, come Anna
Soubry tuona: «Non è cambiato nulla». Più mugugni che consensi che
anticipano una settimana di dibattiti ed emendamenti al nuovo piano in
vista del voto - il 29 gennaio - che però Downing Street si affretta a
dire non essere «vincolante» ma solo un passaggio. Se ci sarà un «yes» o
«no» definitivo arriverà non prima di febbraio e non prima che May avrà
esplorato ogni soluzione con i deputati e con Bruxelles.
May era
arrivata a Westminster nel primo pomeriggio decisa nel presentare i
cambiamenti al suo piano, tre essenzialmente: coinvolgere il Parlamento
nella stesura dell’accordo per rafforzare la posizione britannica nei
negoziati (nuovi auspica la premier) con Bruxelles; tutelare diritti di
cittadini e l’ambiente. E infine lavorare a un’intesa che garantisca che
la frontiera fra Eire e Ulster non venga mai costruita. «Esploriamo
diverse opzioni» dice appoggiando l’ipotesi che viene da Varsavia di
mettere un tetto, 5 anni, per la decadenza del backstop. Le sue parole
piacciono agli unionisti del Dup, decisivi per la tenuta dell’esecutivo.
May
incassa l’unico plauso bipartisan quando annuncia che le 65 sterline
che i cittadini europei devono pagare per registrarsi sul nuovo portale
del governo per ottenere lo status di residenti.
La premier
conservatrice non indietreggia su nessun punto chiave. Dice che è
contraria a un secondo referendum sottolineando che «questo Parlamento
non ha i numeri per proporlo». E rifiuta l’idea di estendere l’Articolo
50 oltre la data del 29 marzo. «Senza un accordo non può esserci
un’estensione» spiega la premier, che poi chiaramente dice di non poter
togliere il «no deal dalle opzioni». Non è l’approdo che cerca, anzi, ma
non intende escludere che dinanzi ai veti incrociati sul suo piano lo
stallo possa essere tale da traghettare Londra sino alla fatidica data
del «non ritorno». E su questo Amber Rudd, ministra europeista e da
sempre alleata di May, la avverte: «Se la premier non consentirà a
Westminster di votare una mozione che escluda il no deal, rischia di
subire un’ondata di dimissioni dal suo esecutivo».
Il primo test
insomma della tenuta del piano, o meglio della strategia di May, sarà
proprio quando in aula approderà l’emendamento che boccia il no deal.
Il
leader laburista Jeremy Corbyn ha ribadito la linea del partito: unione
doganale e solo in ultima istanza il secondo referendum. Più che altro
ha detto a May che il suo piano sembra ricalcare il giorno della
marmotta, un eterno ritorno alla base. «E’ impresentabile e non è
cambiato nulla». La Camera dei Lord vuole invece più potere e conoscere i
dettagli degli accordi commerciali britannici una volta partita la
Brexit. Così ha votato una norma (non vincolante) che blocca la legge
sul commercio.
La strategia della premier sembra chiara: riportare
alla base i 117 voti dei ribelli Tory più che appoggiarsi a maggioranza
bipartisan, deleteria per la forza del governo. La determinazione sul
backstop potrebbe aver fatto breccia su Jacob Rees-Mogg, leader dei
brexiteers più radicali. «Gran parte dell’opposizione al piano May
svanirebbe se il backstop fosse tolto dal tavolo».