La Stampa 17.1.19
Cinque anni senza Claudio Abbado
Tanta nostalgia per il Maestro antidivo e commemorazioni sobrie com’era lui
di Alberto Mattioli
Già
cinque anni. Claudio Abbado morì il 20 gennaio 2014, nella sua casa di
Bologna. L’abbiamo amato in tanti, molti di più di quanti si potrebbe
immaginare per un personaggio così schivo, divo antidivo, quasi un
retore dell’antiretorica. Lo testimoniò, nei giorni seguenti, la
sorpresa per le lunghe file davanti alla chiesa dove l’avevano esposto,
ministri e gente comune, i fedelissimi e i curiosi, i musicisti delle
sue orchestre e gli «abbadiani itineranti» arrivati alla fine del
viaggio. E la folla composta e commossa davanti alla Scala, tutta la
piazza piena e silenziosa mentre dentro, nella sala vuota, Daniel
Barenboim dirigeva la Marcia funebre dell’Eroica, l’ultimo omaggio che
il teatro tributa ai direttori.
Vuoto incolmabile
Retorico
sarebbe anche dire che Abbado ci manca. Però è vero. Anzi, è uno dei
rari casi in cui il vuoto è davvero incolmabile, il rimpianto sempre
vivo, la commozione ancora palpabile. Le commemorazioni saranno sobrie
com’era lui. Aprono due mostre, una alla Filarmonica di Berlino e
l’altra al Comunale di Ferrara, oggi Teatro Abbado, con le foto del
Viaggio a Reims, uno dei suoi spettacoli mitici, l’opera di Rossini
perduta e ritrovata e ripresa infinite volte a Pesaro, alla Scala, a
Vienna, a Tokyo, a Ferrara, a Berlino, a casa di Dio, ogni volta
scintillante e spiazzante, come se Rossini avesse appena finito di
scriverla, e per noi. Il concerto ufficiale si terrà il 20 a Bologna,
per raccogliere fondi per l’associazione Mozart14 che porta avanti i
suoi progetti «sociali», la musicoterapia nei reparti pediatrici e il
coro dei carcerati, dirige Ezio Bosso.
Ma in realtà non c’è
bisogno dell’anniversario per provare nostalgia per Abbado. In questi
cinque anni sono state trafitture improvvise, flash della memoria,
madeleine sonore. Capita di accendere Rai 5 e di vederlo proprio a
Ferrara mentre dirige il Finale primo del Così fan tutte, illuminandosi
in un sorriso bellissimo mentre Daniela Mazzucato fa Despina travestita
da Dottore: era l’unico, dei direttori di mia conoscenza, in grado di
dare un attacco con un sorriso, come si vede nel video dell’ultima
incredibile Eroica di Lucerna.
I ricordi ti aggrediscono a
tradimento. Per esempio, l’ultima volta che lo si è visto, 14 aprile
2014 alla Salle Pleyel di Parigi con Martha Argerich. Nel Largo nel
Primo concerto di Beethoven mi capitò d’incrociare lo sguardo con lo
sconosciuto vicino di posto e di scoprire che non ero l’unico a
piangere. All’ultimo accordo del Rondò, Martha si alzò di scatto e andò
dritta ad abbracciare Claudio sbalordito sul podio, e la sala esplose.
Le Monde, il giorno dopo: «Miracolosa, una di quelle serate di cui ci si
ricorda a lungo», infatti.
Beethoven il più eseguito
Ma se
Abbado oggi ci manca più che mai è per la sua curiosità. Per la musica
nuova, certo, che ha sempre difeso. Ma anche per quella vecchia, perché
ogni volta che Abbado dirigeva una partitura, nuova lo diventava. Helmut
Failoni ha calcolato la hit parade dei più eseguiti: 712 volte
Beethoven, 623 Mozart, 449 Mahler, 398 Brahms, 309 Schubert, 223 Verdi e
così via. Bene: per Abbado, il settecentododicesimo Beethoven era come
il primo. Per lui fare musica non era ribadire certezze, ma esplorare,
ripensare, inventare, il gioco perenne della fantasia e del rigore. Non
si sentiva il depositario della verità, ma di una verità, una delle
tante possibili, contingente come il Tempo e la Storia, cangiante ogni
volta che Abbado si chiedeva e ci insegnava cosa volessero dire
Beethoven o Rossini o Mahler per noi, qui, oggi, adesso.
L’eccitazione
che avvolgeva la musica quando dirigeva lui non aveva niente a che
vedere con il mito stantio del maestro demiurgo. Era l’eccitazione che
dà il salto senza rete, il brivido e lo sgomento della scoperta. La
lezione di Abbado non è stata solo estetica, ma anche etica. Perché per
lui, e quando la faceva lui anche per noi, la musica era libertà.