La Stampa 15.1.19
Praga ’69, il grido di fuoco
Il rogo di Jan Palach per protesta contro l’invasione dei tank russi
di Cesare Martinetti
Non
sopportava le ingiustizie, nemmeno la più piccola. Poco prima
dell’invasione sovietica di Praga (21 agosto 1968), Jan aveva passato un
mese in un campo di lavoro vicino a Leningrado. Era una consuetudine,
tra «partiti fratelli». E là con calore e passione aveva sostenuto le
buone ragioni della «Primavera» che declinava inesorabilmente sotto le
pressioni di Mosca. «C’erano studenti cechi e russi - ha raccontato suo
fratello Jiri -, il capo era naturalmente un russo e diceva loro quando
si doveva giocare a carte e quando lavorare. Ogni giorno mangiavamo
minestra, una volta d’avena, un’altra di semolino. Era terribile e Jan
organizzò la protesta: “Vogliamo della carne!”. I cechi erano d’accordo,
i russi avevano paura, l’unico che si unì alla protesta fu minacciato.
Jan prese le sue difese dicendo che se gli fosse successo qualcosa,
l’avrebbe fatto sapere a tutto il mondo…».
Il numero 1
Neanche
sei mesi dopo, il 16 gennaio ’69, Jan Palach ha davvero fatto sapere
qualcosa a tutto il mondo immolandosi nel cuore di Praga, in piazza San
Venceslao. Era la «torcia numero 1» di un gruppo di ragazzi che avevamo
deciso di fare come i bonzi a Saigon in un gesto - come scrisse Arthur
Miller - di «affermazione e disperazione». Non amava «l’acquetta tiepida
della convenienza», avrebbe detto più tardi il grande ceco Bohumil
Hrabal. Accanto al suo corpo, rannicchiato come un mucchietto di carbone
ancora fumante, un breve scritto, subito chiamato «il testamento» di
Jan Palach.
Ecco il testo: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo
della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la
nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo
è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Dato
che ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la
prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi vogliamo
l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy [il notiziario
delle forze d’occupazione sovietiche, ndr]. Se le nostre richieste non
saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un
sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e
illimitato, il 21 gennaio una nuova torcia s’infiammerà».
Jan
Palach aveva compiuto vent’anni l’11 agosto 1968, era al secondo anno di
Storia ed Economia politica della Facoltà di Filosofia. Il professor
Kasik ha ricordato di quando tentò di raggiungere il Castello (la sede
del potere che domina la capitale) per protesta contro l’invasione e fu
duramente fermato dai sovietici. Un’esperienza che ebbe forti
ripercussioni emotive su di lui, definito da Kasik, fino ad allora, «un
tipo tranquillo e razionale».
Le altre torce umane
L’agonia
di Jan Palach è durata tre giorni. Il suo gesto, così estremo, sembrò a
molti sconcertante. Lui e il suo gruppo di «torce» avevano preso
ispirazione dai bonzi che in Vietnam si davamo fuoco contro la guerra
americana. Il primo era stato Thích Quang Ðuc, l’11 giugno 1963, a
Saigon. Nella lettera che scrisse al capo dell’assemblea degli studenti
di Lettere Lubomir Holecek qualche giorno prima di immolarsi, Jan
proponeva un’azione di massa: che «occupiamo la radio di Stato e
chiamiamo a raccolta tutti», evocando in questo modo il ’68 parigino. La
censura sovietica era la sua vera ossessione. Per questo
l’auto-immolazione era gesto disperato che appariva individuale,
sopportabile da un animo temprato da una forte fede religiosa: e Jan -
sappiamo dal fratello Jiri - aveva studiato la Bibbia e ogni sera
recitava una preghiera.
Nei tre giorni di agonia, prima del
collasso in quel corpo quasi interamente combusto, come accade talvolta
ai grandi ustionati, Jan Palach è rimasto lucido. «Ero in servizio
quando venne portato in ospedale e sottoposto al primo intervento
chirurgico. Sapeva che stava per morire e tutto ciò che voleva era che
la gente capisse il suo gesto. Credeva nella Primavera di Dubcek e quel
che ha fatto lo aveva fatto perché nel periodo della demoralizzazione,
paradossalmente definito della “normalizzazione”, non vi era nessun modo
per rendere pubblico il proprio pensiero e il proprio punto di vista». È
la testimonianza di Jaroslava Moserova, medico di guardia all’ospedale,
raccolta come quella di Jiri nel volume Dubcek-Palach edito da
Rubbettino.
Il 25 gennaio, ai funerali solenni, parteciparono 600
mila persone: «Il suono delle sirene a mezzogiorno e il rintocco delle
campane - scrisse Enzo Bettiza - trasformarono l’intera città in un
paesaggio pietrificato dove tutti rimasero fermi e silenziosi per cinque
minuti». Almeno altre tre «torce» si accesero e vennero subito spente
nei giorni seguenti, nel silenzio imposto dalla censura del regime.
Scriviamo a memoria i nomi dei martiri: Josef Hlavaty, 26 anni, operaio;
Jan Zajic, 19 anni, studente; Evcen Plocek, 39 anni, operaio.
Il
25 ottobre 1978, dieci anni dopo, le autorità hanno convocato la
famiglia e rimosso la tomba di Jan Palach dal cimitero perché «la gente
portava troppi fiori che marcivano presto e questo non rispondeva alle
norme igieniche» della città. L’inverno di Praga era ancora lungo.