lunedì 14 gennaio 2019

La Stampa 14.1.19
Nel Donbass che resiste ai russi fra partigiani e bandiere europee
di Roberto Travan


La guerra del Donbass è laggiù, oltre le ciminiere che ammorbano l’aria di Mariupol, mezzo milione di abitanti, un tutt’uno con la città incolore e il cielo plumbeo. I filorussi sono a una ventina di chilometri. È qui, sul fronte Sud che l’Ucraina attende la loro prossima avanzata.
Infatti, le autoproclamate Repubbliche di Lugansk e Donetsk potrebbero presto tentare di occupare Mariupol per unirsi alla Crimea, anch’essa caduta in mano ai separatisti. Quasi tredicimila morti e oltre due milioni di sfollati in cinque anni, molti di più se partirà la nuova offensiva.
La Russia, dopo aver sostenuto l’occupazione del bacino minerario del Donbass, ora mira alle immense acciaierie della città. E al suo porto sul Mar d’Azov da cui salpa metà delle esportazioni ucraine. Mosca ha già preso il controllo dello Stretto di Kerch, l’unico sbocco sul Mar Nero: la costa ucraina è di fatto isolata.
I primi segni della guerra sono ai «blokpost», gli sbarramenti che filtrano tutti gli accessi a Mariupol. Le perquisizioni sono meticolose, i separatisti potrebbero far entrare armi. O più semplicemente vodka di contrabbando distillata nei territori occupati. Qua e là cartelloni patriottici e gigantografie del presidente Petro Porošenko in mimetica. Inutile cercare le bandiere ucraine giallo-blu appese alle finestre, perché gli abitanti temono l’arrivo dei filorussi e l’inevitabile resa dei conti già avvenuta in altre città. Perfino il caffè Veterano - la catena di locali ritrovo dei patrioti ucraini - nasconde le insegne dei battaglioni al fronte.
Squarci di normalità
La gente schiva il conflitto, evita di parlarne. Ne ebbe però il terribile assaggio nel 2015 quando una pioggia di razzi Grad dei separatisti seminò morte in un mercato di periferia. Fu una strage, l’ennesima e non l’ultima: trenta civili rimasero sull’asfalto, novanta i feriti. Si trova uno squarcio di normalità nei pub e ristoranti del centro affollati da giovani studenti. Ai tavoli anche soldati che si godono i pochi spiccioli in birre e amori veloci a buon mercato. Qualcuno si promette amore eterno. Come Anton e Juliya, ventiquattro ore di licenza per sposarsi in divisa, brindare sulle rive ghiacciate del Mar d’Azov, godersi la Luna di miele allo Spartak Hotel e tornare l’indomani in prima linea.
La guerra sta velocemente spazzando i legami con la Russia. Molte città del Donbass hanno cambiato il nome per tagliare i ponti con il passato: Dnipropetrovsk, Artemisk, Krasnoarmiysk sono state ribattezzate Dnipro, Bahmut, Pokrovsk. E nelle biblioteche migliaia di libri sono finiti al macero, sostituiti dai testi in ucraino donati dalla moglie del presidente Porošenko. Resiste qualche vecchio tassista che non ti porta a destinazione se gli parli in ucraino.
Non resta più nulla
II segni del conflitto sono evidenti fuori dalla città, più a Nord. Sugli arenili del Mar d’Azov - un tempo la spiaggia a buon mercato di chi non poteva permettersi la Crimea o il Mar Nero - barriere interminabili di filo spinato separano il mare dalla terraferma. Il nemico è appostato poco lontano, a Shirokine, dove si continua a combattere tra le case in rovina. Sul tetto di un palazzo diroccato militari ucraini issano una bandiera europea, sfidando il tiro dei cecchini e il vento freddo che soffia dalla Russia.
Poco lontano i resti di un piccolo villaggio di cui non resta più nulla. La furia dei filorussi non ha risparmiato neanche la cappella ortodossa costruita ai piedi di una collina. Sul muro una scritta rabbiosa: «L’unica luce di Dio è quella di una chiesa che brucia». Perché la guerra del Donbass ha colpito mortalmente anche la fede, separando, dopo tre secoli, la Chiesa Ucraina dal patriarcato Russo.
I soprannomi dei combattenti
La strada piega a Nord, verso Pavlopil, dove incuneato tra i campi minati passa uno dei corridoi che collega i due lati del fronte. Decine di sgangherate Zhiguli attendono impazienti il cenno dei militari per entrare nella parte governativa. Torneranno con i bauli stracolmi di generi di prima necessità, merci che scarseggiano nei territori occupati: medicinali, vestiti. Anche cibo. «Il nemico è a un paio di chilometri» indica «John Bogun», giovane comandante di un plotone di paracadutisti. Tutti i combattenti hanno un soprannome, ma non è un semplice vezzo. Lo usano per proteggere i parenti rimasti oltre le linee nemiche. La guerra ha sparpagliato tutti, e forse per sempre.
A Volnovakha l’occhio si perde in una distesa infinita di campi brulli, chiazzati dalla neve. È su questi pianori privi di ostacoli che i separatisti potrebbero tentare l’avanzata. Nelle retrovie svernano i carristi ucraini. Ingrassano cingoli, scaldano motori intasati dal gelo. Nonostante il freddo e l’attesa sfiancante, il morale è buono: sono ben equipaggiati, meglio addestrati, sufficientemente riforniti, nulla a che vedere con i volontari che nel 2014 fermarono l’invasione armati spesso solo con mezzi di fortuna e coraggio.
Anche il sacrificio dei civili è stato fondamentale per reggere l’urto iniziale della guerra. Li chiamano «partizan», continuano instancabilmente a portare aiuti nelle zone dei combattimenti. Natali è una di loro - una partigiana - e da cinque anni fa la spola tra Kiev e il Donbass. Oltre duemila chilometri a bordo di un vecchio furgone di terza mano, malconcio quanto le strade su cui sfreccia a tutta velocità. Si ferma a Opytne, a una manciata di chilometri dall’aeroporto di Donetsk. Il rumore dell’artiglieria filorussa è netto, vicino. La volontaria ha portato cibo e coperte a Baba Raja, un’anziana che non vuole saperne di andarsene. La sua casa - rattoppata con lamiere e teli di plastica, la facciata sfregiata dalle schegge dei mortai - è una delle poche rimaste in piedi. Il termometro supera i meno dieci, mancano luce, gas, acqua. Manca anche Vyacheslav, il marito, trovato due mesi fa morto nei cespugli. La donna si dispera: «Siamo arrivati nel ’45, qui non c’era nulla». Forse ignora, o preferisce non pensare, che attorno a sé c’è nuovamente il vuoto. Perché di quel villaggio non restano che macerie, dolore e speranze: il Donbass.