lunedì 14 gennaio 2019

La Stampa 14.1.19
Pisa
Gettano la candeggina in faccia a un senegalese
di Pietro Barghigiani


Lui in bicicletta stava tornando a casa. Loro, sullo scooter, protetti dai caschi, lo hanno visto in lontananza. Hanno rallentato al momento di incrociare quella bici trasformata in bersaglio mobile nel vicolo in centro. Un attimo dopo il passeggero gli ha lanciato addosso un sacchetto con la candeggina che ha raggiunto al volto l’immigrato. È un senegalese di 34 anni, inseguito da un decreto di espulsione perché non in regola con il permesso di soggiorno. Era circa mezzanotte e rientrava nel suo appartamento in periferia dopo una giornata di lavoro come venditore abusivo. Si è fatto medicare al pronto soccorso, ma non è andato a denunciare l’aggressione. Gli sono bastate le cure dei medici e un collirio.
L’agguato
«Non mi hanno detto niente né prima, né dopo il lancio – racconta il senegalese, intervistato dal “Tirreno” -. Di sicuro mi hanno aspettato. Sinceramente in bici a quell’ora non avevo fatto caso allo scooter. Il conducente ha rallentato e quello dietro mi ha lanciato quel liquido in faccia. Ho provato a inseguirli, ma gli occhi mi bruciavano troppo. Quello che era alla guida ha detto all’amico “Andiamo, andiamo”. Sono spariti così, in pochi secondi. Sono entrato in un pub che conosco e lì mi hanno aiutato. Poi sempre in bici sono andato al pronto soccorso».
L’episodio, di cui ha dato conto su Facebook uno dei soccorritori della vittima dell’assalto, ha avuto un effetto politico in una città che da giugno è guidata da una solida maggioranza leghista dopo decenni di governi di centrosinistra. Ordinanze contro i bivacchi in centro, annunci di sgomberi di campi rom e un pugno di ferro sulla “malamovida” sono i segni particolari di un’amministrazione che per l’opposizione, dentro e fuori il consiglio, si muove con il piglio dello sceriffo. E alimenta, secondo i critici, un terreno fertile per gesti come quello contro il senegalese.
Qualche ora prima in una via a ridosso del centro, con ogni probabilità gli stessi autori avevano centrato un pedone, un giovane italiano. Balordi, per chi indaga, senza un orientamento xenofobo. Prima dell’avvento della giunta leghista di episodi simili ce ne erano stati due. Quelli, in primavera, ai danni di due ragazze, sui lungarni. Solo gavettoni d’acqua. Il sindaco Michele Conti spegne i primi focolai sul caso dell’immigrato: «Sono gesti criminali che sembrano escludere il movente razzista. Evitiamo strumentalizzazioni».

Il Fatto 14.1.19
La Chiesa “salviniana” non si ferma e torna a minacciare lo scisma
Cattolici sempre più spaccati: da un lato la misericordia di Bergoglio, dall’altro i fedeli di rito sovranista
di Fabrizio d’Esposito


Continua ad allargarsi sempre di più la frattura tra la Chiesa di papa Francesco, quella ispirata dall’amore evangelico e dalla misericordia, e la destra clericale e sovranista che tenta di mettere insieme Salvini e la fede in Cristo. Al punto che si torna a minacciare lo scisma.
Ormai la canea del network antibergogliano (quotidiani e siti tradizionalisti) procede di pari passo con la campagna elettorale per le Europee della Lega salviniana. Due i pilastri del sovranismo cattolico. Il primo è l’odio per “questa Chiesa a trazione demagogico-ambiental-migrazionista”: la definizione è da Stilum Curiae, il blog di Marco Tosatti, megafono delle accuse a scoppio ritardato contro Francesco di monsignor Carlo Maria Viganò sulla pedofilia. Il secondo pilastro è invece l’odio per gli omosessuali, amplificato dall’immagine di Bergoglio descritto come un Anticristo gay-friendly.
Secondo i clericali farisei, sarebbe stata proprio la linea morbida del Vaticano a favorire l’innalzamento della “sodomia a bene giuridico”. Di qui lo spauracchio dello scisma, che fa capolino più volte nel lungo appello di Roberto de Mattei, ex finiano oggi a capo di Corrispondenza Romana e Fondazione Lepanto: “Uno dopo l’altro, i principali Stati europei, compresi quelli di più antica tradizione cattolica, hanno elevato la sodomia a bene giuridico, riconoscendo, sotto diverse forme, il cosiddetto matrimonio omosessuale e introducendo il reato di omofobia”.
Il tutto favorito dal silenzio della Chiesa, ma questa “strada porterà danno al Papato e affretterà lo scisma nella Chiesa”. Il dogma della famiglia naturale, in chiave populista e salviniana, è stato declinato ieri pure dalla Verità di Belpietro, in difesa del Congresso mondiale delle famiglie che si terrà a Verona alla fine di marzo.
Gli ospiti d’onore sono tutti integralisti: il ministro omofobo Lorenzo Fontana (lo stesso che per conto di Salvini ha incontrato gruppi europei dichiaratamente nazisti), il governatore del Veneto Luca Zaia, la fasciosovranista Giorgia Meloni, il leader del Family Day Massimo Gandolfini. Contro di loro è già scesa in campo quella che La Nuova Bussola Quotidiana chiama Gay-stapo.

Il Fatto 14.1.19
La politica fabbrica l’odio, oggi come durante il nazismo
Niente è cambiato: si fa credere di essere minacciati da un’altra “razza”
La politica fabbrica l’odio, oggi come durante il nazismo
di Furio Colombo


Valentina Pisanty, docente e semiologa, ha scelto in questo suo ultimo libro (Educare all’Odio, La difesa della razza 1938-1943, La Biblioteca di Repubblica – L’Espresso) di fare tesoro dell’insegnamento di Umberto Eco, suo maestro. Nel suo Fascismo Eterno (Nave di Teseo), Eco aveva offerto la versione più chiara e più drammatica del come nasce il comportamento persecutorio detto “fascismo”. È un lavoro lungo e paziente in cui diligentemente si accumulano tutte le perversioni di persona contro persona, gruppo contro gruppo, forte contro debole, inventando, elaborando e accreditando l’idea che esista una razza pura e che la tua sia la tua, contro cui grava una minaccia.
Valentina Pisanty ha dimostrato subito, con il suo primo testo importante, La fastidiosa questione delle camere a gas, il senso del discorso di Eco: l’odio si fabbrica. La realtà c’entra poco e anzi disturba. Non è certo dalla realtà che gli attuali predicatori di odio (mi riferisco non al nazismo, ma alla sua nuova incarnazione, il sovranismo) traggono la sequenza secondo cui i migranti vengono forzati ad abbandonare comodi villaggi, ad affollare i barconi e a fingersi profughi di guerre che non ci sono per vivere poi a carico di bravi popoli che lavorano. Se sfogliate lo studio della Pisanty sulla difesa della razza, vi accorgete che non c’è differenza fra la qualità dell’imbroglio e la totale falsità degli argomenti di allora (gli ebrei) e di adesso (i profughi).
Allora c’era un complotto ebreo contro le razze pure per dominare il mondo. Adesso un immenso business trasporta i “negri” a cura di personaggi come il miliardario ebreo Soros, creando un portentoso giro d’affari e facendoci invadere da una razza estranea e inferiore (“oranghi”, dice un capo leghista) che sradica i nostri valori e, a seconda delle leggende, sarà la nuova razza padrona o la merce schiava che estirpa il sano e copioso lavoro italiano E tutto ciò, naturalmente, per dominare il mondo.
Leggete il lavoro accurato ma anche in molte parti incredibile della Pisanty e capite perchè Fontana, ministro della Famiglia (Lega) vuole abolire la Legge Mancino che vieta manifestazioni di razzismo. E il ministro dell’Interno non vuole che si interrompa il bello di una partita solo perchè i giocatori “negri” sono insultati per tutto il tempo da cori di odio. La scuola dell’odio ha ripreso a dare i suoi frutti. Prima lezione: buttar via le coperte di un senza casa che muore di freddo. Quanto ai “negri”, cosa importa se restano a lungo nel mare d’inverno. Valentina Pisanty parla del 1939. Ma spiega perchè.

Il Fatto 14.1.19
Gli ebrei e i massoni: “Complotto inventato dalla Civiltà Cattolica”
Leggenda nera
Storica visita l’8 gennaio a Casa Nathan, a Roma: il rabbino Riccardo Di Segni, capo della comunità israelitica nella Capitale, entra nel tempio del Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza di “fratelli” del Paese. Le “affinità” tra ebraismo e libera muratoria, a partire dalla Bibbia
di fd’e


  1. – Kippah e grembiule – L’ingresso di Bisi e Di Segni a Casa Nathan. Ha rivelato il rabbino capo di Roma: “Sospettavo di un’affiliazione di mio padre”
    2. – L’ossessione sovranista – Per la destra clericale e sovranista (a eccezione di Bannon), il connubio tra ebrei e “muratori” evoca ancora la leggenda del complotto giudaico-massonico, in auge nel fascismo
    3. – Tutta colpa dei gesuiti – In realtà, ha spiegato Di Segni, “l’idea del complotto ripresa dal fascismo fu stabilita alla fine del ’700 dalla Civiltà Cattolica, il giornale dei gesuiti che rappresentava il pensiero ufficiale del Papa”
    4. – Contro i razzismi – L’incontro è stato dedicato a due sopravvissuti della Shoah: Nedo Fiano, Gran Maestro onorario del Goi, e Liliana Segre, senatrice a vita
    5. – Il tempio di Salomone – I tre gradi della massoneria sono ispirati dal mito di Hiram, l’architetto capo del tempio di Salomone e personaggio biblico
    6. – Fratellanza ideale – Carlo Ricotti, presidente del Collegio del Lazio del Goi, ha ricostruito la storia dei rapporti tra ebrei e massoni in Italia: “Il vincolo di fratellanza ideale nacque agli albori del Risorgimento nella lotta comune per la libertà politica”
    7. – Teschio e cazzuola – Nella simbologia massonica, il teschio è la caducità della vita ma anche la vittoria dello spirito sul corpo. Sulla pietra grezza, ancora da levigare, ci sono il maglietto (la forza di volontà), lo scalpello (il discernimento) e la cazzuola (l’amore fraterno)
    8. – “Estrema vigilanza” – Ebrei e massoni, ha concluso Di Segni, vengono “associati nuovamente alla finanza e strumentalizzati dai populisti”
    1. – Kippah e grembiule – L’ingresso di Bisi e Di Segni a Casa Nathan. Ha rivelato il rabbino capo di Roma: “Sospettavo di un’affiliazione di mio padre”
    2. – L’ossessione sovranista – Per la destra clericale e sovranista (a eccezione di Bannon), il connubio tra ebrei e “muratori” evoca ancora la leggenda del complotto giudaico-massonico, in auge nel fascismo
    3. – Tutta colpa dei gesuiti – In realtà, ha spiegato Di Segni, “l’idea del complotto ripresa dal fascismo fu stabilita alla fine del ’700 dalla Civiltà Cattolica, il giornale dei gesuiti che rappresentava il pensiero ufficiale del Papa”
    4. – Contro i razzismi – L’incontro è stato dedicato a due sopravvissuti della Shoah: Nedo Fiano, Gran Maestro onorario del Goi, e Liliana Segre, senatrice a vita
    5. – Il tempio di Salomone – I tre gradi della massoneria sono ispirati dal mito di Hiram, l’architetto capo del tempio di Salomone e personaggio biblico
    6. – Fratellanza ideale – Carlo Ricotti, presidente del Collegio del Lazio del Goi, ha ricostruito la storia dei rapporti tra ebrei e massoni in Italia: “Il vincolo di fratellanza ideale nacque agli albori del Risorgimento nella lotta comune per la libertà politica”
    7. – Teschio e cazzuola – Nella simbologia massonica, il teschio è la caducità della vita ma anche la vittoria dello spirito sul corpo. Sulla pietra grezza, ancora da levigare, ci sono il maglietto (la forza di volontà), lo scalpello (il discernimento) e la cazzuola (l’amore fraterno)
    8. – “Estrema vigilanza” – Ebrei e massoni, ha concluso Di Segni, vengono “associati nuovamente alla finanza e strumentalizzati dai populisti”
    1. – Kippah e grembiule – L’ingresso di Bisi e Di Segni a Casa Nathan. Ha rivelato il rabbino capo di Roma: “Sospettavo di un’affiliazione di mio padre”
    2. – L’ossessione sovranista – Per la destra clericale e sovranista (a eccezione di Bannon), il connubio tra ebrei e “muratori” evoca ancora la leggenda del complotto giudaico-massonico, in auge nel fascismo
    3. – Tutta colpa dei gesuiti – In realtà, ha spiegato Di Segni, “l’idea del complotto ripresa dal fascismo fu stabilita alla fine del ’700 dalla Civiltà Cattolica, il giornale dei gesuiti che rappresentava il pensiero ufficiale del Papa”
    4. – Contro i razzismi – L’incontro è stato dedicato a due sopravvissuti della Shoah: Nedo Fiano, Gran Maestro onorario del Goi, e Liliana Segre, senatrice a vita
    5. – Il tempio di Salomone – I tre gradi della massoneria sono ispirati dal mito di Hiram, l’architetto capo del tempio di Salomone e personaggio biblico
    6. – Fratellanza ideale – Carlo Ricotti, presidente del Collegio del Lazio del Goi, ha ricostruito la storia dei rapporti tra ebrei e massoni in Italia: “Il vincolo di fratellanza ideale nacque agli albori del Risorgimento nella lotta comune per la libertà politica”
    7. – Teschio e cazzuola – Nella simbologia massonica, il teschio è la caducità della vita ma anche la vittoria dello spirito sul corpo. Sulla pietra grezza, ancora da levigare, ci sono il maglietto (la forza di volontà), lo scalpello (il discernimento) e la cazzuola (l’amore fraterno)
    8. – “Estrema vigilanza” – Ebrei e massoni, ha concluso Di Segni, vengono “associati nuovamente alla finanza e strumentalizzati dai populisti”

Il Fatto 14.1.19
L’Italia di Turone: P2, servizi e golpisti
Partì dalla Pastrengo, nel 1973, “l’ignobile crimine dello stupro dell’attrice Franca Rame, ideato e commissionato dalla mente perversa del generale Palumbo”
di Corrado Stajano

Una storia nera. Una storia purtroppo vera questa di Giuliano Turone, Italia occulta, dove tutto è minuziosamente documentato da atti di giustizia, sentenze, ordinanze, confessioni, interrogatori, testimonianze, perizie balistiche, verbali magari a suo tempo sottovalutati o non compresi, qui invece analizzati con la furia certosina dello scrittore che spesso, come magistrato, è stato al centro di quel che racconta.
Non è un’autobiografia. Se non si conoscono i fatti ci si può render conto della presenza e della funzione dell’autore solo da una minuscola nota a piè di pagina, l’opposto dell’esibizione. Protagonista delle vicende narrate è un paese malato, spesso moribondo, una palude non prosciugata dove negli anni Settanta-Ottanta del Novecento, dall’indomani di piazza Fontana all’uccisione di Moro al massacro della stazione di Bologna, è accaduta l’iradiddio, stragi, assassinii, complotti, tentati colpi di Stato. (…)
“Quante storie. La P2 non fu nient’altro che un club di gentiluomini” disse più volte l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (tessera 1816 della Loggia). E Gelli, anni dopo, nel 2008, ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, ricambiò il favore e rivendicò con orgoglio alla Loggia P2 la paternità del Piano di rinascita democratica con queste parole: “Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti, tutti ne hanno preso spunto: l’unico che può portarlo avanti è l’attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi”.
Gli allora giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo, responsabili dell’inchiesta sulla P2, erano arrivati a Gelli dopo l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. Su un’agendina sequestrata nel 1979 a Sindona, negli Stati Uniti, trasmessa poi in Italia, erano annotati tutti gli indirizzi di Licio Gelli, uomo d’affari di Arezzo non ignoto alla polizia. Fra gli altri il recapito sconosciuto di una ditta di abbigliamento maschile, la Giole, del gruppo Lebole, di Castiglion Fibocchi, nell’aretino, dove il 17 marzo 1981 avvenne la famosa perquisizione del Nucleo regionale di polizia tributaria della guardia di finanza. A insospettire, mesi prima, era stata anche la clamorosa intervista di Maurizio Costanzo (tessera 1819 della Loggia) pubblicata dal Corriere della Sera il 5 ottobre 1980. Titolo: Parla, per la prima volta, il “Signor P2”. Un manifesto pubblicitario. Una presa di possesso zeppa di messaggi in codice. Un avvertimento minaccioso. Nel suo libro Turone è attento anche ai particolari più minuti, utili per far capire il clima del tempo. Come il verbale della perquisizione alla Giole scritto dal maresciallo Francesco Carluccio: la segretaria di Gelli, la signora Carla Venturi, che cercò di far sparire la chiave della cassaforte, lo stupore del sottufficiale quando l’aprì e trovò registri, documenti, carte e, in una valigia, le cartellette con nomi inimmaginabili, ministri, generali e ammiragli, capi dei Servizi segreti, prefetti, parlamentari, editori, direttori di grandi giornali e di telegiornali affiliati alla Loggia segreta con un giuramento. Che avevano già fatto, in molti, ma alla Repubblica.
La colonna di auto che riporta a Milano i materiali sequestrati, con le liste dei 963 nomi di uomini di cui molti ai vertici della Repubblica, sembra un’azione di guerra. La Fiat Ritmo, con i documenti, marcia in mezzo a due Alfetta fatte venire dal comando: a bordo di ciascuna, quattro soldati armati di mitra. Non molti sanno, anche se la notizia comincia a trapelare. (…)
La P2 è “la metastasi delle istituzioni”, il cuore, la matrigna maligna, portatrice di quasi tutte le nequizie di quegli anni. (…) Colpiscono certi fatti che possono sembrare minori. Gelli che convoca nella sua Villa Wanda un alto magistrato, Carmelo Spagnuolo, procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, il generale Giovanbattista Palumbo, comandante della divisione carabinieri Pastrengo di Milano, il generale Franco Picchiotti, comandante della divisione carabinieri di Roma, il generale Luigi Bittoni comandante della brigata carabinieri di Firenze, due colonnelli. Il venerabile ha fretta e gli uomini della Repubblica accorrono proni ad ascoltare l’oracolo. Siamo nel 1973 – scrive la Relazione Anselmi – il pericolo è l’avanzata del Pci dopo le elezioni del 1976, i referendum, il divorzio, l’aborto. Si ventila allora l’ipotesi di un governo presieduto da Carmelo Spagnuolo. Gelli sembra un capo di stato maggior generale che dà gli ordini ai sottoposti pregandoli di trasmetterli a loro volta ai minori di grado.
I loro nomi sono tutti nelle liste della P2 e tornano in molte occasioni. Quello del generale Giovanbattista Palumbo fa usare a Giuliano Turone, sempre misurato, attento ai significati del linguaggio, gli aggettivi “temibile e francamente malvagio”. (Partì dalla Pastrengo, nel 1973, “l’ignobile crimine dello stupro dell’attrice Franca Rame, ideato e commissionato dalla mente perversa del generale Palumbo”).
La sua biografia è un sordido archetipo italico. Fascista convinto, ammiratore del nazismo, cavaliere dell’Ordine dell’Aquila tedesca senza spade, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica di Salò e raccomanda ai suoi uomini di fare altrettanto. Poi, quando il vento cambia, si costruisce un inesistente passato partigiano, diventa persino Governatore militare alleato della provincia di Cremona. Il suo nome, nei quadri di avanzamento, galoppa. Nel 1964, per non smentire troppo il suo vero passato, è al fianco del generale De Lorenzo nell’organizzazione del piano Solo.
Il comando della divisione Pastrengo, in via Marcora, a Milano, nei dintorni di piazza della Repubblica, è in quegli anni un luogo sinistro. Tutti gli uomini dello stato maggiore del generale sono iscritti alla P2. Un vero e proprio gruppo di un potere malsano, riferisce il colonnello Nicolò Bozzo, una persona retta, fedele alla Repubblica.
Il generale Palumbo è un appassionato cacciatore di adesioni alla Loggia, gli piace assistere alle iniziazioni dei nuovi fratelli all’Hotel Excelsior, a Roma. È in stretto contatto, scrive la Relazione Anselmi, con il generale Musumeci, segretario generale del Sismi, il servizio segreto militare. È anche un acerrimo nemico del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Probabilmente geloso, lo teme e lo danneggia come può.
(…) Sono gli anni del terrorismo, Dalla Chiesa è designato dal ministro Taviani a costituire uno speciale reparto di polizia giudiziaria antiterrorismo. Nel 1974, un gran colpo: arresta Renato Curcio e Alberto Franceschini, capi storici delle Brigate rosse.
Nonostante i successi ottenuti, forse per questi, viene messo in disparte. Palumbo è diventato vicecomandante dell’Arma dei carabinieri e – il legame è evidente – il reparto antiterrorismo di Dalla Chiesa viene sciolto. I piduisti della divisione Pastrengo hanno vinto la partita. Povera Italia.

Repubblica 14.1.19
L’intervento
Adultescenti al governo rischi e pericoli
Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile e psicoanalista, è professore onorario dell’Università La Sapienza di Roma. Tra i suoi libri più recenti, "Adolescenti senza tempo", (Editore Cortina, 2018)
di Massimo Ammaniti


Nel mio lavoro psicoanalitico con gli adolescenti, realizzo ogni volta che i particolari e le irrilevanze dei comportamenti giornalieri e anche dei messaggi online sono molto più rivelatori del loro carattere rispetto ai discorsi più costruiti ed elaborati, perché mettono in luce il modo implicito di pensare e di porsi verso gli altri. Mi è capitato di pensare che, ugualmente, il messaggio di Salvini comparso sui social, in cui cita una breve frase della canzone Il Pescatore di Fabrizio De André, sveli il suo atteggiamento e soprattutto l’omissione del significato compassionevole della canzone, per cui la stessa compagna del cantautore è intervenuta invitandolo ad ascoltarla meglio.
È diventata ormai un’abitudine diffusa dei politici utilizzare la Rete per trasmettere parole, giudizi e immagini che tradiscono sensazioni ed emozioni immediate, che saltano la corteccia cerebrale secondo l’insegnamento del famoso neurobiologo LeDoux che lavora negli Stati Uniti. E sono proprio queste comunicazioni più viscerali a suscitare il contagio virale nella Rete, provocando risonanze, corti circuiti emotivi, adesioni o rifiuti che si muovono nella sequenza stimolo-risposta che non prevede un vero processing razionale.
Questo modo di procedere ricorda inevitabilmente le impulsività e le sventatezze tipiche degli adolescenti che si fanno influenzare dal cervello emotivo attivato dagli ormoni della pubertà.
Nello scenario sociale attuale sta prendendo corpo la figura dell’adultescente, un neologismo che secondo l’Oxford Dictionary designa «una persona di mezza età, i cui vestiti, interessi ed attività sono tipicamente associati alla cultura giovanile». Ma cerchiamo di descrivere la figura e la mentalità degli adultescenti. Sono persone condizionate dall’apparire piuttosto che assumere responsabilità personali, alla ricerca continua di approvazioni e di like da parte degli altri che servono ad alimentare il senso grandioso di sé, che copre un’identità immatura. Ciò che contraddistingue i loro comportamenti quotidiani è il velleitarismo che li spinge a fare dichiarazioni avventate o ad intraprendere azioni e progetti che non hanno le gambe per realizzarsi, perché non sono il frutto di studi e di approfondite analisi per valutare i pro e/o i contro e soprattutto le conseguenze e i possibili esiti delle proprie decisioni. E fino a che questi atteggiamenti adolescenti rimangono all’interno della famiglia, i danni sono relativamente limitati, quantunque siano i figli a dover pagare le maggiori conseguenze di avere genitori che inseguono il mito del giovanilismo. Ma se poi riguardano politici e uomini che hanno responsabilità pubbliche, l’adultescenza diventa un pericolo per la stessa sopravvivenza della comunità sociale, perché crea pericolose illusioni e contagia gli stessi cittadini.
È l’onnipotenza al potere, di cui abbiamo avuto tragiche conferme nella storia umana. In Cambogia i Khmer rossi volevano riportare gli abitanti nelle campagne perché le città erano il centro della corruzione e giustiziavano quanti portavano gli occhiali perché erano gli intellettuali legati a vecchie concezioni.
Per fortuna siamo molto lontani da allora, ma rimane lo stesso pericolo, gli occhiali non si possono abolire, servono a vedere non solo la propria realtà ma soprattutto quella sociale dei cittadini, se si hanno responsabilità di governo.

Repubblica 14.1.19
Le idee
Chi manipola la collettività è la vera élite
L’autrice
Mariana Mazzucato
Nata a Roma, è professoressa di Economia alla University College London. Il suo nuovo libro è Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale (Laterza)
di Mariana Mazzucato


Ma davvero è tutta colpa dell’Unione Europea e dei "poteri forti"?
Capire realmente i meccanismi di Bruxelles e attivarci per modificarne i difetti potrebbe farci riscoprire cittadini consapevoli. E al riparo dalle semplificazioni
Nel suo articolo dell’11 gennaio Alessandro Baricco riassume un dibattito largamente diffuso e trattato in diversi ottimi recenti libri come Strangers in their own land di Arlie Hochschild. Secondo Baricco, la crisi che stiamo attraversando è innanzitutto una crisi di fiducia delle masse nei confronti delle élite. Mi pare una lettura semplificante. Se non comprendiamo chi sono e come funzionano le élite, rischiamo di consolidarne le posizioni e il potere. Quindi, raccogliendo la sua sfida a "non farci fottere dalla apparente semplicità delle cose", proviamo a guardare meglio dentro la sua analisi.
Baricco afferma che la democrazia funziona quando le élite, pur proteggendo e incrementando i loro privilegi, riescono magnanimamente a dispensare una forma di convivenza accettabile per le masse. Non credo sia così. La democrazia ha creato società meno inique quando gli "esclusi" hanno saputo rappresentarsi e strappare alle élite concessioni che hanno reso meno penosa e più piena la vita di tutti (spesso anche delle élite stesse). Ma qui non c’è niente di deterministico. Ci sono voluti sindacati, movimenti ecologisti, movimenti femministi. Le otto ore di lavoro, condizioni decenti in fabbrica, il sistema sanitario nazionale, il voto alle donne, anche qui si potrebbe andare avanti per pagine... non sono stati graziosamente concessi dalle élite.
Anzi, in quasi tutti questi casi, le élite hanno pervicacemente tentato di negare questi diritti.
Sono state conquiste costate carissime ai milioni che hanno saputo organizzarsi, rappresentarsi, creando piattaforme comuni e forme di dibattito, ma anche di lotta. Certo, è vero che queste conquiste si sono consolidate quando una parte delle classi agiate le ha riconosciute come giuste e non più rimandabili.
Ma c’è voluto il sangue. E, ancora più importante, dopo aver ottenuto il minimo dei diritti necessari, queste "non élite" hanno anche saputo tenerli in vita e innovarli, riempirli di senso. Prendiamo la scuola per tutti o il sistema sanitario nazionale. Milioni di donne e uomini, che non sono élite e a cui non interessa essere élite, hanno lavorato e continuano a lavorare giorno dopo giorno nelle scuole e negli ospedali, combattendo con mezzi limitati contro le inerzie sfinenti dell’ignoranza e della malattia, contro l’ignavia dei colleghi scansafatiche e le furberie degli amorali, per far sì che quelle istituzioni collettive fossero bene comune e dispensassero il meglio per tutti. Dove sono questi milioni nell’equazione di Baricco?
È ristretta la veduta di chi considera solo le élite che incontra ogni giorno, in quel recinto protetto che Baricco pennella così bene, e l’oklos, la massa che sbraita in tv con i gilerini gialli. Guardando così, sembra che tutto stia avvenendo irrevocabilmente, come per influsso astrale. Nel mio libro Il valore di tutto parlo del bisogno di riscoprire il valore collettivo, proprio per lottare contro la logica delle disuguaglianze che hanno creato rabbia nella "gente".
L’odio per le élite, l’averne abbastanza, hanno ragioni profonde, inclusa la sequenza dei trattati comunitari, fatti trangugiare come oche da ingrasso ai cittadini europei.
Ma questo odio è stato attizzato, rinfocolato e indirizzato da chi scientemente ha costruito una narrazione semplificatoria, ma articolata, e ha capito prima di tutti che la diffusione planetaria del web avrebbe permesso di registrare ed elaborare miliardi di frammenti, componendoli in tanti ritratti individuali. Così da poter inoculare quella narrazione nei soggetti predisposti, con gli ingredienti giusti e il dosaggio necessario ad indirizzare l’odio e quindi usarlo. Il problema non è che un italiano su due stia su Facebook: ma che cosa c’è dentro Facebook e come lo usa chi lo controlla. E non succede tutto a Cupertino. Il Movimento 5 Stelle, che continuiamo ad analizzare come movimento ultramoderno e populista, è controllato da una piattaforma digitale posseduta in termini pressoché feudali da una famiglia, i Casaleggio, che secondo lo statuto del movimento può farne ciò che vuole.
Prendiamo l’Europa. L’omeopatia dell’odio che passa attraverso Facebook eviterà sempre di raccontare come l’Unione Europea sia anche una forza collettiva che ha migliorato le condizioni di lavoro, imposto regole severe contro lo strapotere delle multinazionali, cercato di limitare la devastazione dell’ambiente, investito largamente nella costruzione di una cultura comune, speso miliardi per la ricerca scientifica collaborativa e collettiva laddove nessun soldo privato si arrischierebbe, laddove però si trovano i risultati più inattesi e dirompenti per curare.
E, soprattutto, nasconderà che questi progressi ottenuti non sono stati una gentile concessione delle élite, ma sono frutto della pressione continua di cittadini, movimenti, gruppi ecologisti, avvocati dei diritti umani. Solo alla fine di un processo, fatto di lotte, sconfitte e vittorie, queste proposte diventano leggi e regolamenti. Intendiamoci: la Ue ha fatto molti errori – fra cui l’ossessione di ridurre il deficit – non è riuscita a farsi sentire vicina alla vita quotidiana.
Chi ha creato gli strumenti di manipolazione collettiva non l’ha fatto per il piacere di veder ballare i burattini. L’ha fatto perché è pagato da persone che hanno interessi economici precisi. Da persone che vedono nell’Unione Europea uno dei pochi ostacoli all’espansione planetaria del capitalismo senza regole. Infangare la Ue rende soldi perché un’istituzione pubblica indebolita e insicura di sé sarà più prona ai desiderata della grande industria, come pare già stia succedendo nell’agricoltura.
E di che cosa parliamo quando parliamo di "usare i dati"? I dati possono essere usati per controllare e manipolare, ma possono essere anche adoperati per diffondere il bene comune. Prendiamo l’esempio di Barcellona, dove la sindaca Ada Colau con il progetto Decode sta provando a usare i dati sugli spostamenti dei cittadini generati da app come Citymapper per informare e disegnare un sistema di trasporto pubblico migliore per tutti. O i movimenti che, in molti paesi, vogliono che i dati sulla salute personale vengano usati non per arricchire le case farmaceutiche, ma per migliorare il servizio sanitario. Tutte queste nuove soluzioni arrivano alla Commissione europea e vengono poi discusse dalla DG-Connect, che elabora le politiche in materie di digitale e innovazione. Ma non sono le élite che le hanno proposte. Sono i movimenti, grazie a questa nuova ed evoluta forma di interazione tra élite e cittadini.
La soluzione di Baricco è "lasciare il telefono a casa, camminare, e affidarsi alle intelligenze del Game". No. Bisogna guardare queste nuove forme di relazione, capirle e moltiplicarle. Smettere di usare parole come "gente" e pensarci invece tutti come "cittadini". Smettere di descrivere l’Unione Europea come un pachiderma sonnacchioso, irrazionale e imperscrutabile, e provare veramente a capire come funziona, denunciare le sue sclerosi e proporre soluzioni diverse.
E lottare, con o senza telefonino, per questo.

La Stampa 14.1.19
Nel Donbass che resiste ai russi fra partigiani e bandiere europee
di Roberto Travan


La guerra del Donbass è laggiù, oltre le ciminiere che ammorbano l’aria di Mariupol, mezzo milione di abitanti, un tutt’uno con la città incolore e il cielo plumbeo. I filorussi sono a una ventina di chilometri. È qui, sul fronte Sud che l’Ucraina attende la loro prossima avanzata.
Infatti, le autoproclamate Repubbliche di Lugansk e Donetsk potrebbero presto tentare di occupare Mariupol per unirsi alla Crimea, anch’essa caduta in mano ai separatisti. Quasi tredicimila morti e oltre due milioni di sfollati in cinque anni, molti di più se partirà la nuova offensiva.
La Russia, dopo aver sostenuto l’occupazione del bacino minerario del Donbass, ora mira alle immense acciaierie della città. E al suo porto sul Mar d’Azov da cui salpa metà delle esportazioni ucraine. Mosca ha già preso il controllo dello Stretto di Kerch, l’unico sbocco sul Mar Nero: la costa ucraina è di fatto isolata.
I primi segni della guerra sono ai «blokpost», gli sbarramenti che filtrano tutti gli accessi a Mariupol. Le perquisizioni sono meticolose, i separatisti potrebbero far entrare armi. O più semplicemente vodka di contrabbando distillata nei territori occupati. Qua e là cartelloni patriottici e gigantografie del presidente Petro Porošenko in mimetica. Inutile cercare le bandiere ucraine giallo-blu appese alle finestre, perché gli abitanti temono l’arrivo dei filorussi e l’inevitabile resa dei conti già avvenuta in altre città. Perfino il caffè Veterano - la catena di locali ritrovo dei patrioti ucraini - nasconde le insegne dei battaglioni al fronte.
Squarci di normalità
La gente schiva il conflitto, evita di parlarne. Ne ebbe però il terribile assaggio nel 2015 quando una pioggia di razzi Grad dei separatisti seminò morte in un mercato di periferia. Fu una strage, l’ennesima e non l’ultima: trenta civili rimasero sull’asfalto, novanta i feriti. Si trova uno squarcio di normalità nei pub e ristoranti del centro affollati da giovani studenti. Ai tavoli anche soldati che si godono i pochi spiccioli in birre e amori veloci a buon mercato. Qualcuno si promette amore eterno. Come Anton e Juliya, ventiquattro ore di licenza per sposarsi in divisa, brindare sulle rive ghiacciate del Mar d’Azov, godersi la Luna di miele allo Spartak Hotel e tornare l’indomani in prima linea.
La guerra sta velocemente spazzando i legami con la Russia. Molte città del Donbass hanno cambiato il nome per tagliare i ponti con il passato: Dnipropetrovsk, Artemisk, Krasnoarmiysk sono state ribattezzate Dnipro, Bahmut, Pokrovsk. E nelle biblioteche migliaia di libri sono finiti al macero, sostituiti dai testi in ucraino donati dalla moglie del presidente Porošenko. Resiste qualche vecchio tassista che non ti porta a destinazione se gli parli in ucraino.
Non resta più nulla
II segni del conflitto sono evidenti fuori dalla città, più a Nord. Sugli arenili del Mar d’Azov - un tempo la spiaggia a buon mercato di chi non poteva permettersi la Crimea o il Mar Nero - barriere interminabili di filo spinato separano il mare dalla terraferma. Il nemico è appostato poco lontano, a Shirokine, dove si continua a combattere tra le case in rovina. Sul tetto di un palazzo diroccato militari ucraini issano una bandiera europea, sfidando il tiro dei cecchini e il vento freddo che soffia dalla Russia.
Poco lontano i resti di un piccolo villaggio di cui non resta più nulla. La furia dei filorussi non ha risparmiato neanche la cappella ortodossa costruita ai piedi di una collina. Sul muro una scritta rabbiosa: «L’unica luce di Dio è quella di una chiesa che brucia». Perché la guerra del Donbass ha colpito mortalmente anche la fede, separando, dopo tre secoli, la Chiesa Ucraina dal patriarcato Russo.
I soprannomi dei combattenti
La strada piega a Nord, verso Pavlopil, dove incuneato tra i campi minati passa uno dei corridoi che collega i due lati del fronte. Decine di sgangherate Zhiguli attendono impazienti il cenno dei militari per entrare nella parte governativa. Torneranno con i bauli stracolmi di generi di prima necessità, merci che scarseggiano nei territori occupati: medicinali, vestiti. Anche cibo. «Il nemico è a un paio di chilometri» indica «John Bogun», giovane comandante di un plotone di paracadutisti. Tutti i combattenti hanno un soprannome, ma non è un semplice vezzo. Lo usano per proteggere i parenti rimasti oltre le linee nemiche. La guerra ha sparpagliato tutti, e forse per sempre.
A Volnovakha l’occhio si perde in una distesa infinita di campi brulli, chiazzati dalla neve. È su questi pianori privi di ostacoli che i separatisti potrebbero tentare l’avanzata. Nelle retrovie svernano i carristi ucraini. Ingrassano cingoli, scaldano motori intasati dal gelo. Nonostante il freddo e l’attesa sfiancante, il morale è buono: sono ben equipaggiati, meglio addestrati, sufficientemente riforniti, nulla a che vedere con i volontari che nel 2014 fermarono l’invasione armati spesso solo con mezzi di fortuna e coraggio.
Anche il sacrificio dei civili è stato fondamentale per reggere l’urto iniziale della guerra. Li chiamano «partizan», continuano instancabilmente a portare aiuti nelle zone dei combattimenti. Natali è una di loro - una partigiana - e da cinque anni fa la spola tra Kiev e il Donbass. Oltre duemila chilometri a bordo di un vecchio furgone di terza mano, malconcio quanto le strade su cui sfreccia a tutta velocità. Si ferma a Opytne, a una manciata di chilometri dall’aeroporto di Donetsk. Il rumore dell’artiglieria filorussa è netto, vicino. La volontaria ha portato cibo e coperte a Baba Raja, un’anziana che non vuole saperne di andarsene. La sua casa - rattoppata con lamiere e teli di plastica, la facciata sfregiata dalle schegge dei mortai - è una delle poche rimaste in piedi. Il termometro supera i meno dieci, mancano luce, gas, acqua. Manca anche Vyacheslav, il marito, trovato due mesi fa morto nei cespugli. La donna si dispera: «Siamo arrivati nel ’45, qui non c’era nulla». Forse ignora, o preferisce non pensare, che attorno a sé c’è nuovamente il vuoto. Perché di quel villaggio non restano che macerie, dolore e speranze: il Donbass.

Corriere 14.1.19
Perché Jan Palach non va dimenticato
di Pierluigi Battista


La «meglio gioventù»: così ama definirsi la generosa, idealistica generazione che fece il 68. Ma con Jan Palach, lo studente cecoslovacco che 50 anni fa, il 19 gennaio del 1969, si diede fuoco nella Piazza San Venceslao di Praga per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici, la meglio gioventù diede il peggio di sé, fu cinica, indifferente, ottusa e, ciò che è più grave, non si è mai davvero vergognata per non aver saputo onorare il gesto di un coetaneo schiacciato da un’oppressione enormemente più feroce di quella patita nel libero Occidente. Non fu versata una lacrima per Jan Palach, se si eccettua una canzone meravigliosa di Francesco Guccini, come ha ricordato Federico Argentieri sulla Lettura. Una generazione che si dice combattesse contro l’autoritarismo non sapeva dire nulla contro un sistema in cui l’autoritarismo raggiungeva vertici inauditi di pervasività asfissiante. Gridava contro la guerra in Vietnam ma non fu minimamente scossa dalla vista dei carri armati del socialismo reale. Agitare il nome di Jan Palach era da «fascisti», questo ho sentito in quei giorni nella mia scuola romana, il Mamiani, cuore della contestazione studentesca. Un ragazzo che si bruciava in piazza non meritava solidarietà. La meglio gioventù dimostrava sin da allora il suo volto ideologizzato, mosso da un’indignazione selettiva che chiudeva un occhio sulla repressione che angariava i Paesi finiti sotto il tallone sovietico. A sinistra si diceva che l’alternativa al comunismo moscovita fosse il radicalismo forsennato di Mao, o l’esotismo rivoluzionario di Fidel Castro, giammai Alexander Dubcek, rappresentante di un «revisionismo» che si accontentava di ripristinare le condizioni di una democrazia «borghese», dunque «di destra». Non proprio tutti, nell’estrema sinistra, furono così cinici. La rivista Il Manifesto, alla vigilia della radiazione dei suoi esponenti dal Pci, uscì con questo titolo: «Praga è sola». Il Manifesto fu solo, Praga restò sola, il ricordo di Jan Palach si spense, nessun poster, nessuno striscione, nessun cartello ne fece un’icona di libertà, di coraggio, di protesta. Chissà se, a 50 anni di distanza, qualche resipiscenza si farà sentire. Ma forse no, la meglio gioventù non può permettersi di intaccare il monumento che ha voluto fare di sé stessa, lasciando sola la tomba di Jan Palach.

Repubblica 14.1.19
Grecia
Si dimette ministro anti-Macedonia Tsipras in bilico


Il premier greco, Alexis Tspiras, ha chiesto al Parlamento un "immediato" voto di fiducia sul governo dopo le dimissioni del ministro della Difesa, Panos Kammenos, in vista del voto parlamentare sull’accordo per la modifica del nome della Macedonia. «Procederemo immediatamente al rinnovo della fiducia nel nostro governo in Parlamento per risolvere le principali questioni del Paese», ha dichiarato il premier dopo aver accettato le dimissioni di Kammenos. L’11 gennaio scorso il Parlamento macedone aveva dato il via libera all’intesa per la dizione "Repubblica della Macedonia del Nord", mettendo fine alla disputa con la Grecia e aprendo la strada per l’adesione di Skopje a Nato e Ue. Spetta al Parlamento ellenico ratificare l’accordo per renderlo operativo.
Dalla fine dell’ex-Jugoslavia nel 1991 la Grecia blocca l’accesso di Skopje all’Ue a causa della querelle sul nome.

Il Fatto 14.1.19
La Cina batte gli Usa e conquista la luna. Il resto del mondo fa finta di non vedere
Se fossero stati gli americani a lanciare la missione Chang’e 4, ci sarebbero già film, speciali tv e omaggi pubblici
di Pietrangelo Buttafuoco


La Cina è sull’altra faccia della Luna, quella che nessuno vedrà mai. Per la prima volta nella storia, la ricerca astronomica dell’uomo – più specificatamente l’Agenzia spaziale cinese – arriva laddove fino a oggi solo Cyrano de Bergerac, Astolfo e Giacomo Leopardi erano riusciti, far propria la luna.
I primi due – entrambi uomini d’arme – arrivano lì, sopra la nostra testa, con i loro viaggi. Per incantarsi d’amore, vi vola, il nasuto spadaccino; per recuperare il senno d’Orlando paladino – in groppa all’Ippogrifo – vi galoppa il secondo. E tutti e due sostano, il tempo che ci vuole, nella parte a tutti noi buia: the dark side of the moon, per come cantano i Pink Floyd.
Il poeta di Recanati, nelle Operette Morali, la fa scivolare lungo la manica della galabia del Profeta (su di Lui la Pace), per così baloccarsi di delicata malia e ruotarne il verso, sia ponente che crescente, affinché ella, la signora luna, segni il tempo delle donne, degli uomini e dei popoli tutti, accostandosi alla punta dei minareti.
La Cina, dunque, riesce a far allunare il lander Chang’e 4 nell’emisfero nascosto di Selene.
La terra della Muraglia – l’unica opera dell’uomo visibile a occhio nudo dalla luna, come leggenda vuole – fa quindi un passo in più rispetto ai russi che nel 1959, con la sonda Luna3, scattarono le prime immagini. Da quel marchingegno volante, dopo l’assestamento, oggi ne sta venendo fuori un rover, ossia un robot, per perlustrare l’ambiente circostante e seminarvi patate, cavoli e, perfino, collocarvi uova di baco da seta eppure – come fosse una quisquilia buona al più per allunati – di questa impresa immane non se ne parla.
Fosse un fumetto – già solo l’idea di piantarvi tuberi e broccoli, ararla come terra fertile, – sarebbe già faccenda di Archimede Pitagorico, invece è scienza vera. E siccome è una realtà fatta di ricerca, analisi, tecnica e ingegno se ne parla poco in Occidente, anzi, niente, perché prevale – ahinoi – la necessità di minimizzare la portata epocale dell’impresa giusto per non mancare di rispetto al riflesso condizionato. Va da sé che se fosse stata la Nasa, ossia gli Usa – presso l’informazione più autorevole e pregiata – non ci sarebbe stata altra narrazione che l’epica, con relativo omaggio al genio a stelle e strisce, magari già con un trattamento hollywoodiano e con speciali tivù, anzi, con serie televisive fichissime per fare di ogni facente parte della missione, fosse pure lo stagista addetto alle fotocopie, come minimo un Argonauta. Il riflesso condizionato che ci fa volgere all’omertà del sorvolare sull’avventuroso cammino del lander Chang’e-4 è quello di un nostro disagio mentale. È la difficoltà di accettare che una civiltà di cui a malapena riusciamo a comprendere gli involtini primavera primeggi, oggi, nella gara di conquista delle stelle. E non se ne parla, appunto. Col risultato che un miliardo e mezzo di cinesi sanno di essere nella parte nascosta della luna, dove la Cina vola. La restante parte di mondo – la minoranza – sul fatto in sé, restando indietro, sorvola.

Il Fatto 14.1.19
L’ansia degli Usa per la Cina: la guerra fredda tecnologica
Dietro lo scontro commerciale sui dazi c’è il timore di Washington per il sorpasso di Pechino sul fronte più delicato, quello della gestione dei dati. L’arresto della figlia del fondatore del gruppo tech è solo l’inizio
di Marco Berlinguer*


Il primo dicembre Cina e Stati Uniti hanno sancito una tregua nella guerra commerciale e si sono dati 90 giorni per negoziare. Lo stesso giorno Meng Wanzhou, responsabile finanziaria di Huawei e figlia del fondatore, veniva arrestata in Canada su richiesta degli Stati Uniti, con l’accusa di aver violato le sanzioni contro l’esportazione di tecnologie americane in Iran. Pochi credono che si tratti solo di una vicenda giudiziaria. E i cinesi meno di tutti.
L’arresto di Meng Wanzhou ha rivelato la preoccupazione principale degli Usa: il primato hi-tech e l’ambizioso piano pluriennale – Made in China 2025 – approvato dal governo cinese. Il piano – con un mix di Stato e mercato – vuole spostare l’industria cinese nelle parti più alte delle catene di produzione globali e di accrescerne l’indipendenza tecnologica. Nel 2018 il think tank statunitense Council on Foreign Relations lo ha definito una “minaccia esistenziale per la leadership tecnologica statunitense”. Huawei, che nega tutte le accuse, è oggi il più grande produttore mondiale di apparecchiature per le telecomunicazioni, e nel 2018 ha superato Apple come secondo produttore di smartphone. É soprattutto l’impresa cinese di punta nel 5G, la prossima generazione di comunicazioni wireless. Un’infrastruttura critica. Su questa rete si appoggeranno banda larga mobile e internet delle cose; correranno nel futuro i dati globali; e si svilupperá la nuova ondata di innovazioni digitali. La sua sperimentazione commerciale comincerá quest’anno. E per la prima volta in una corsa tecnologica, la Cina si presenta in pole position. Dispone di tecnologie analoghe o piú avanzate di Stati Uniti e Europa. E piú economiche.
Anche nell’intelligenza artificiale la Cina ha mostrato di essere in grado di puntare alla leadership dell’innovazione, specie dove l’interesse del governo coincide con quello delle imprese. Molti cominciano a temere che nelle tecnologie basate sull’uso dei dati, come l’intelligenza artificiale, la Cina disponga di un doppio vantaggio: i numeri e la libertá di usare i dati. Tanto per la Cina come per gli Usa, la questione é gestire l’inevitabile ascesa cinese. Il governo cinese ha appena festeggiato 40 anni di marcia trionfale di sviluppo. Si puó fermare questa ascesa? O almeno ritardarla? Se non si puó con la forza del mercato, é possibile appellarsi a una questione di sicurezza.
L’arresto di Meng non é un’occorrenza individuale. I servizi segreti dei Paesi anglosassoni – i Five Eyes: l’alleanza di intelligence che comprende Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti – si sono riuniti nel 2018 e si sono fatti una domanda: affidereste infrastrutture e dati a un’impresa cinese? E hanno stabilito che c’é un rischio di spionaggio. Il congresso Usa, in ottobre, ha impartito ad amministrazioni e imprese la raccomandazione di evitare due compagnie, Huawei e Zte, accusate di avere forti legami con governo ed esercito. Il fondatore di Huawei é un ex-ingegniere dell’esercito. E tutti sanno che nessuna societá cinese puó scappare dall’accusa di collaborare col governo.
Altri governi si stanno allineando. Australia, Nuova Zelanda, hanno emanato norme. Il Giappone é in procinto di farlo. Diverse compagnie private vogliono rivedere i loro accordi con Huawei, anche in Europa. La Germania, tuttavia, per il momento, non si é allineata. I servizi segreti tedeschi hanno concluso uno studio sulle apparecchiature Huawei, e hanno dichiarato che non hanno trovato evidenze di rischi di spionaggio.
Il timore dei cinesi é che gli Usa puntino a una strategia di parziale “disaccoppiamento”. Se una scissione integrale dalla Cina é impossibile, si puó erigere una nuova cortina di ferro, limitata alle tecnologie critiche. Non é facile immaginarsi le implicazioni. L’interdipendenza é oggi elevata. Metá della produzione Apple é assemblata in Cina, che é anche il suo secondo mercato.
Soprattutto, se si andasse verso doppi standards tecnologici, verso la creazione sfere d’influenza (tecnologiche, ma anche economiche, politiche), come si allineeranno i paesi terzi? I costi sarebbero elevati per tutti ed é facile immaginarsi le resistenze del il governo Usa: dentro gli stessi Stati Uniti, in Occidente, e ancor di piú nel resto del mondo. Una rottura di questa portata, con le nubi che si addensano sull’economia mondiale, fa paura a tutti.
La Cina é comunque molto vulnerabile. La scorsa estate Zte – l’altra azienda cinese di punta nel 5G – sotto accusa come Huawei – é stata messa in ginocchio dal divieto di esportazione di componenti dagli Usa. Costretta a pagare una multa stratosferica, ha dovuto cambiare l’intero staff manageriale.
La Cina ha risposto accelerando i suoi piani di “autosufficienza” tecnologica, investendo in microchip, la sua maggiore vulnerabilitá. Ma cerca l’accordo. Gli Stati Uniti chiedono modifiche al Made in China 2025: l’apertura del mercato cinese, meno discriminazioni per le imprese straniere, riduzione dell’economia statale protetta, un cambio nelle politiche industriali considerate mercantilistiche. La Cina sa che il tempo gioca a suo favore ed é pronta a ridurre piani e ambizioni. Ma quello che la Cina è disposta a concedere potrebbe non bastare. Tanto l’accordo come la rottura sono scenari irrealistici.
*ricercatore presso l’IGOP – UAB Barcellona

Il Fatto 14.1.19
La “catturandi” dei tesori spariti contro Getty&C.
La “missione” di carabinieri, magistrati e avvocati: “Così riportiamo in Italia le opere sottratte da altri stati, dai boss o dai trafficanti”. La “guerra” con gli Usa per l’Atleta di Lisippo
Come in “Monuments Men” di Clooney
Si racconta di come degli storici dell’arte abbiano salvato opere preziose sottranedole alla furia devastatrice di Hitler
di Andrea Giambartolomei


È una “grande caccia”. Da una parte le migliaia di opere d’arte sottratte al nostro Paese: rubate durante le guerre, saccheggiate da criminali, mafiosi e lestofanti, trafficate da mercanti senza scrupoli. Dall’altra chi si è dedicato e si dedica al loro recupero, come fosse una “missione”. “Ci auguriamo che nel corso di quest’anno possa essere finalmente restituito alle Gallerie degli Uffizi di Firenze il celebre Vaso di Fiori del pittore olandese Jan van Huysum, rubato da soldati nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale”, ha detto all’inizio dell’anno il direttore Eric Schmidt rivolgendosi alla Germania. Quella tela è una delle opere sfuggite al lavoro di Rodolfo Siviero e dei suoi collaboratori. Personaggio da film, Siviero: critico d’arte, spia del regime fascista, durante gli anni del conflitto mette dipinti, statue e altri beni culturali italiani al riparo dall’opera di saccheggio condotta da Hermann Göring per conto di Adolf Hitler e poi dall’esercito tedesco. La sua figura è meno nota dei Monuments men statunitensi a cui George Clooney ha dedicato un film.
Le gesta di Siviero, come quelle dei soprintendenti Pasquale Rotondi ed Emilio Lavagnino, sono invece rimaste nell’ombra, conosciute soprattutto da storici e appassionati. Così come restano spesso nell’ombra le azioni degli uomini che oggi sono impegnati in questa battaglia di recupero di opere d’arte trafugate dai nazisti, rubate da ladri (e magari finite in mano ai boss), oppure di reperti archeologici di grande valore, scavati di nascosto dai tombaroli, passati a intermediari e mercanti, finiti ad arricchire le collezioni di musei o di privati. Si tratta di persone come Nicola Candido, tenente colonnello che comanda il reparto operativo del nucleo “Tutela patrimonio culturale” dei carabinieri. Questo nucleo guidato dal generale Fabrizio Parrulli, composto da trecento militari dell’Arma suddivisi in quindici nuclei territoriali, è stato nato il 3 maggio di cinquant’anni fa, pochi mesi prima di un furto d’arte ancora irrisolto, quello della Natività dipinta da Caravaggio ed esposta all’Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Sono specializzati nelle indagini su furti e traffici di opere d’arte e reperti archeologici, ma anche sul mercato dei falsi. Uno degli strumenti del “Tpc” è la banca dati: “Ci risultano 2.434 beni trafugati nel periodo della Seconda guerra mondiale”, spiega il tenente colonnello Candido. Tra quelle c’è la Testa di fauno, un marmo scolpito da Michelangelo, custodito al museo del Bargello e rubata nel 1944. In altri casi, invece, i carabinieri hanno raggiunto un obiettivo: “Nel corso degli ultimi anni abbiamo recuperato 42 opere”. Ad esempio nell’aprile 2016 sono stati sequestrate a due collezionisti milanesi tre tele che i nazisti avevano rubato alla famiglia ebrea Borbone-Parma a Camaiore: una “Madonna con Bambino”, attribuita a Cima da Conegliano, una “Trinità”, attribuita ad Alesso Baldovinetti e una “Circoncisione e presentazione di Gesù al Tempio” di Girolamo Dai Libri. Molte altre vanno ancora ritrovate: “Ne abbiamo localizzate 15. Ora sono in corso indagini”. A occuparsi di queste attività stragiudiziali è il comitato per il recupero e la restituzione dei beni culturali, un organo del ministero della Cultura. Ne fanno parte, oltre al generale Parrulli, anche il capo del gabinetto del ministero, Tiziana Coccoluto, magistrato di Roma, e Lorenzo D’Ascia, avvocato dello Stato e oggi capo ufficio legislativo del Mibac che nel 2014 ha preso il testimone di Maurizio Fiorilli, suo collega che ha seguito molti casi: come il recupero di opere acquistate dal J. Paul Getty Museum, ultimo in ordine di tempo il caso dell’Atleta di Lisippo, una statua ritrovata nel 1964 da alcuni pescatori al largo di Fano, ceduta a dei ricettatori, esportata illecitamente in Germania e poi venduta al collezionista per la sua “Getty Villa” a Malibù.
La Cassazione all’inizio di dicembre ha confermato la confisca stabilita a giugno dal Tribunale di Pesaro. Ora la procura marchigiana sta lavorando alla rogatoria per eseguire la sentenza con l’aiuto delle autorità statunitensi. In parallelo si muoveranno anche i canali diplomatici: “Si lavorerà anche per cercare un accordo”, spiega D’Ascia. A differenza dei casi precedenti, nei quali il Getty ha restituito dei reperti dopo un prestito, questa volta il museo resiste ancora: “Se uno decide di difendersi per le vie giudiziarie poi deve accettare il verdetto. Il Getty ha avuto modo di difendersi e non può dire che non gli basta”, spiega. “Ci aspettiamo che gli Usa rispettino la sentenza”, ha affermato il ministro Alberto Bonisoli dopo la riunione straordinaria del comitato mercoledì scorso. A far ricominciare le indagini sulla statua sono stati due marchigiani, il professore Alberto Berardi e l’avvocato Tullio Tonnini insieme all’associazione “Le cento città”: “Berardi aveva recuperato un frammento dell’incrostazione del reperto e nel 2007 hanno presentato un esposto alla procura di Pesaro – spiega ora il figlio, Tristano Tonnini -. Mio padre è venuto a mancare dopo poco e da allora ho seguito tutta la vicenda”. Ci sono voluti più di dieci anni per arrivare a un risultato: “Ora aspettiamo il rientro. Spero che l’amministrazione di Fano si dia da fare”. Oltre all’Atleta di Lisippo, mercoledì il comitato ministeriale ha trattato anche la vicenda del dipinto reclamato da Schmidt, il cui recupero è più difficile perché “stiamo parlando di un’opera che in questo momento è proprietà di un privato”, ha detto Bonisoli. Sulla vicenda indaga anche la procura di Firenze.
Non è l’unica inchiesta penale finalizzata al recupero di opere sottratte dai nazisti. A Bologna il sostituto procuratore Roberto Ceroni si sta battendo affinché tornino in Italia otto tele di Tintoretto, Tiziano, Carpaccio e altri esportate da Göring e finite al Museo di Belgrado. Il Maresciallo del Reich le aveva comprate a Firenze e il “Kunstschutz”, servizio di “protezione dell’arte”, le aveva portate (come tante altre opere, libri e archivi) in Germania. Al termine del conflitto gli statunitensi si fanno ingannare da Ante Topic Mimara, falsario jugoslavo, che le porta a Belgrado come risarcimento dei danni della guerra. Da lì tornano in Italia nel 2004 per una mostra a Bologna, “Da Carpaccio a Canaletto, tesori d’arte italiana dal Museo nazionale di Belgrado”. Poi, finita l’esposizione, rientrano in Serbia. Solo nel 2014 i carabinieri del Tpc di Firenze, controllando il database delle opere rubate, si rendono conto che quelle tele sparite erano ricomparse in Italia e poi erano state rimandate a Belgrado. A quel punto il sostituto Ceroni avvia un’indagine per il reato di impiego di beni di provenienza illecita e indaga l’ex direttrice della Pinacoteca Jadranka Bentini, l’ex funzionaria dell’ufficio esportazione Armanda Pellicciari e la curatrice della mostra Rosa D’Amico. A fornire prove sulla proprietà italiana delle tele è la dottoressa Maria Liberatrice Vicentini, dagli anni Ottanta e fino al pensionamento anima dell’archivio Siviero, un ufficio del ministero degli Esteri (ora passato al Mibac) che conserva le carte raccolte dallo “007 dell’arte”. Al termine del processo Ceroni chiede l’assoluzione delle tre imputate perché mancava l’intenzione di commettere il fatto, ma vuole che si ordini la confisca dei dipinti. Così è. Il gup Gianluca Petragnani Gelosi accoglie la richiesta e ora ricomincia con una nuova rogatoria l’attività per il recupero (una prima richiesta è stata bocciata dalla magistratura serba), mentre nel frattempo il Mibac coltiva i rapporti coi colleghi di Belgrado e l’aiuto del Ministero degli Affari esteri, tramite l’ambasciata, è impegnata a “convincere” la Serbia.
Un’altra tela è l’oggetto di una recente inchiesta della Dda di Palermo. Per i carabinieri è l’opera “Most wanted” e l’Fbi statunitense l’ha inserita nelle dieci più importanti opere d’arte rubate: è appunto la “Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” di Caravaggio, rubata nel 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo, passata dalle mani dei ladri fino ad arrivare a quelle del boss Tano Badalamenti, come sostiene l’Antimafia. A coordinare l’indagine, cinquant’anni dopo il furto, è un giovane sostituto procuratore in forza alla Distrettuale antimafia palermitana, Roberto Tartaglia e all’opera ci sono i carabinieri del nucleo “Tpc” che sulla tela di Caravaggio non hanno mai smesso di lavorare.

Il Fatto 14.1.19
La rivoluzione mancata dell’altro Bonaparte
Napoleone-Luigi, nipote dell’imperatore francese, volle legare il suo nome all’Italia, dove partecipò ai moti del 1831 insieme ai patrioti: la sua campagna, però, fu un disastro
di Massimo Novelli


Pubblichiamo il prologo di “Vita breve e rivoluzioni perdute di Napoleone-Luigi Bonaparte”, scritto da Massimo Novelli e in uscita questa settimana per Aragno Editore.

In un passo del romanzo Le Rouge et le Noir, Il Rosso e il Nero, una Chronique du XIXe siècle, Stendhal s’interroga sul destino di Julien Sorel, il protagonista del libro, e scrive: “Era stato il destino di Napoleone, sarebbe stato un giorno il suo?”. Il principe Napoléon-Louis Bonaparte, Napoleone-Luigi Bonaparte, figlio di Luigi Bonaparte, uno dei fratelli dell’imperatore esiliato e morto a Sant’Elena, dovette domandarsi a sua volta se la sorte che lo attendeva sarebbe stata simile a quella del grande zio; e alla pari di Sorel che sognava le “belle donne di Parigi”, pensò, come il personaggio di Stendhal, di “essere amato da una di loro, come Bonaparte che, ancora povero, era stato amato dalla brillante Madame de Beauharnais”.
Napoleone-Luigi non soltanto era il nipote dell’imperatore, ma era stato re d’Olanda, un re bambino, sia pure per pochi giorni; sua madre Ortensia era la figlia di madame de Beauharnais. Mademoiselle Valerie Masuyer, dama di compagna di Ortensia, disse di lui “che era perfettamente elegante e grazioso, soprattutto a cavallo. È l’imperatore in gioventù e in bello”.
La cronaca della sua vita narra che volò sulle ali dell’aquila imperiale, verso la gloria, per poi precipitare troppo presto. Il romanzo di Stendhal, che verosimilmente conobbe il principe, venne pubblicato nel 1830 e quindi datato 1831, i due anni cruciali dell’esistenza di Napoleone-Luigi e di suo fratello Luigi Bonaparte, futuro imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III. Quest’ultimo si accingeva a cospirare un po’ grottescamente a Roma con i carbonari poco prima che, nel novembre del 1830, l’editore e libraio parigino Levavasseur desse alle stampe il libro di Stendhal, datandolo però 1831 e con un sottotitolo doppio: la Chronique du XIXe siècle in copertina, e Chronique de 1830 ad aprire il primo capitolo delle due parti del romanzo.
Per Napoleone-Luigi tutto s’infiammò e si spense fra quel 1830, quando a luglio la rivoluzione di Parigi abbatté la monarchia borbonica di Carlo X, e il 1831, l’anno dei moti insurrezionali in Italia, divampati da Modena alla Romagna, dall’Emilia alle altre Legazioni dello Stato Pontificio. Era cresciuto nel culto di Napoleone I quanto i personaggi di Stendhal, come Sorel e il Fabrizio del Dongo de La Chartreuse de Parme, La Certosa di Parma, e nell’amore per l’Italia.
Idealista, “bello come un Apollo” lo definì un vecchio generale napoleonico, e sposato con la cugina Charlotte, figlia di Giuseppe Bonaparte, proprio in Italia il principe inseguì la sua stella. Dapprima la cercò nei libri, nell’arte, nella passione per i palloni aerostatici; in seguito la trovò nella lotta contro il dispotismo e nel desiderio di legare ancora il nome di Bonaparte alla storia d’Italia. Con il fratello incontrò Ciro Menotti, il patriota modenese che sarebbe stato giustiziato per ordine del duca Francesco IV d’Este, e prese parte ai moti del ’31 in Romagna. Ma fu una stella cadente: sparì con la sua prima e ultima rivoluzione, una rivoluzione doppiamente perduta. Il cammino del principe si fece calvario; la rivoluzione italiana fu schiacciata dagli austriaci e dal Papa, nel silenzio della Francia.
Napoleone-Luigi Bonaparte non morì in battaglia, bensì per una comunissima malattia, la rosolia, anche se qualcuno parlò di un avvelenamento. Se ne andò nel marzo del 1831, nella camera di un albergo di Forlì chiamato del Cappello. Poco prima aveva inviato una lettera al Papa, Gregorio XVI, chiedendogli di rinunciare al potere temporale in nome del “libro più liberale che esista, il divino Vangelo” . Il suo ricordo, e la sua lettera clamorosa al Pontefice, sbiadirono nel corso del tempo, offuscati dalla fortuna e dalla fama del fratello, salito sul trono di Francia. La moglie Charlotte, amica di Giacomo Leopardi, pochi anni dopo ebbe in sorte a sua volta una fine drammatica in una locanda della città di Sarzana, uno dei luoghi di origine dei Bonaparte.
Questo è il racconto fatale e stendhaliano, romantico e carbonaro, della sua vita breve e della sua rivoluzione frantumata. Ci sono i sogni e le speranze, le ambizioni, le illusioni e le ingenuità di un giovane, che, come la Mathilde di Il Rosso e il Nero, avrebbe potuto dire: “Senza una grande passione, languivo di noia nel periodo più bello della vita”. (…) Sullo sfondo s’affollano i personaggi e gli interpreti dell’epoca: i patrioti italiani e d’Europa, i tiranni e i re, gli eroi e i vigliacchi, gli esuli e i delatori, le principesse e le popolane, i poeti e i soldati.


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