sabato 12 gennaio 2019

La Stampa 12.1.19
Fallito il ricollocamento “obbligatorio”: metà dei migranti sono rimasti in Italia
di Stefano Galeotti


Il meccanismo di mutuo soccorso dell’Unione Europea sui migranti ha fallito. Suddividersi i richiedenti asilo in fuga da guerre e carestie in giro per il mondo, per ridurre il rischio di vederlo diventare, o rimanere, un problema dei soli paesi di primo arrivo come Grecia e Italia: era questa la linea guida del ricollocamento, stabilito con la decisione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 settembre 2015. Quel documento prevedeva la distribuzione di 120.000 migranti, 28.000 dal nostro Paese: una soluzione arrivata dopo «aver riconosciuto l’eccezionalità dei flussi migratori di quell’anno e la crisi nel Mediterraneo», come si legge nel documento condiviso da 23 Stati dell’Unione: Regno Unito, Irlanda e Danimarca dissero «no grazie». Accettarono tutti gli altri, sottolineando come premessa all’accordo «la necessità di fondare la risposta alle tragedie nel Mediterraneo sul principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità». Frasi sottoscritte anche da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. I quattro stati del blocco di Visegrad, gli stessi con cui flirta da tempo Matteo Salvini, avrebbero dovuto prendersi carico di circa 4mila richiedenti asilo, Polonia in testa con una quota di oltre 2mila migranti: la somma dei quattro, alla fine di tre anni di programma, è di zero richieste accolte. Ma non sono gli unici Stati ad aver fatto quasi nulla rispetto a quanto promesso, e sottoscritto: alla fine del programma, che ha visto gli ultimi processi di ricollocamento terminare a fine 2018, i numeri dicono che solo il 44% dei trasferimenti inizialmente previsti sono effettivamente avvenuti.
Tra chi ha rispettato meno i propri impegni ci sono anche l’Austria, che ha accolto solo 45 migranti sui quasi 900 previsti, e la Bulgaria appena 10 su 300. Percentuali sotto la doppia cifra, come quelle di Romania (4%), Estonia (7%) e Croazia (9%). Poco sopra si trova la Francia, che ha negato il ricollocamento di 5.000 persone, mentre ha decisamente fatto bene la Germania: era lo Stato che più si era impegnato, con una quota di oltre 7mila migranti, e alla fine ne ha accolti 5.446 (74%). Il baluardo della solidarietà è il Nord Europa: Finlandia e Svezia sono andati addirittura oltre le promesse, accogliendo rispettivamente 779 e 1392 richiedenti asilo. E la Norvegia, pur fuori dall’Ue, si è inserita nel meccanismo solidaristico e ha preso in carico 693 richieste; la Svizzera, sempre da esterna, ha accolto 580 persone. Anche Malta, prima di diventare lei stessa un paese di sbarco, si è dimostrata sensibile sulla questione dei ricollocamenti, permettendo l'arrivo di 67 persone contro le 31 previste. Quella procedura di ricollocamento fu decisa con un atto almeno sulla carta vincolante, e non su base volontaria come quelli relativi agli sbarchi dell’ultimo periodo. L’iter da seguire era molto chiaro. Ogni tre mesi gli Stati membri dovevano indicare il numero di migranti che sarebbero stati in grado di ricollocare. Dopo l’arrivo in territorio italiano (o greco), dove il richiedente asilo era identificato e registrato tramite il rilevamento delle impronte digitali, venivano dati due mesi di tempo per completare la procedura: lo Stato in questione diventava così responsabile della richiesta d’asilo, liberando i paesi di arrivo di un ulteriore passaggio burocratico.
Il Consiglio dell’Ue inserì un criterio molto stringente: poteva essere ricollocato solamente il richiedente asilo proveniente da una nazionalità con un alto tasso di accettazione (il 75%) delle richieste di protezione internazionale. Una percentuale che ha portato a distribuire nel Continente soprattutto migranti provenienti da Eritrea e Siria, dove nel 2015 le condizioni di partenza erano tali da rendere quasi certo l’esito positivo del processo. Con gli arrivi dal paese arabo che, verso l’Italia, sono quasi terminati nello stesso anno, questa scelta si è rivelata un boomerang, perché di fatto ha reso applicabile la decisione su una sola nazionalità e non su quelle che in questi anni sono state le più rappresentate a livello di sbarchi. L’Europa si impegnò anche a riconoscere al paese membro di destinazione 6.000 euro per ogni migrante accolto, dedicando potenzialmente a questo programma 700 milioni di euro. Ma questo non è bastato a convincere molti Stati della necessità di impegnarsi nella ricollocazione. E così più della metà delle procedure sono rimaste bloccate alle frontiere che evidentemente ancora dividono l’Europa.