il manifesto 12.1.19
Narrazioni fallaci e dura realtà
Economia.
L’Istituto segnala che il clima di fiducia dei consumatori ha segnato
un ulteriore calo, le aspettative per il futuro hanno registrato una
pesante diminuzione, mentre crescono le preoccupazioni per la
disoccupazione – niente affatto attutite dalle promesse su un sussidio
chiamato reddito di cittadinanza ancora in faticosa gestazione -, mentre
declina persino la fiducia delle imprese. Né si può sperare che la
buona novella giunga dalle esportazioni
di Alfonso Gianni
Mentre
un visionario quanto incauto Di Maio annuncia urbi et orbi che saremmo
alle soglie di un nuovo boom economico della misura di quello degli anni
’60, fioccano implacabili i dati Istat.
Dati che ci inchiodano ad
una ben diversa e sgradita realtà. Conte, in evidente dissintonia con
il ministro dello Sviluppo economico, dichiara che si attendeva un dato
negativo come in Europa, Ma le cose sono andate peggio delle più fosche
previsioni. I più avevano predetto una flessione della produzione
industriale per novembre attorno allo 0,7%. Siamo invece arrivati a un
meno 1,6% rispetto ad ottobre.
Pur introducendo gli effetti del
calendario, ovvero il cosiddetto effetto ponte essendo il primo novembre
caduto di giovedì, questo comporta una caduta del 2,6% nell’arco dei
dodici mesi. Naturalmente il crollo non è omogeneo. È stato
particolarmente pesante nel settore auto con un calo del 19,4% su base
annuale e dell’8,6% su base mensile, cioè tra ottobre e novembre 2018;
ma non stanno granché meglio i settori del legno, della carta, della
stampa ( -10,4%), dell’attività estrattiva (-9,75), degli articoli in
gomma e in plastica (-6,7%). Ma non finisce qui, perché l’Istat ha anche
rivisto il dato relativo all’ottobre 2017: non si è trattato di un +
0,1%, ma di -0,1%. Decimali, si dirà.
Sì, ma ciò che conta è
l’inversione di segno, confermata da quello che viene adesso e che
distrugge d’un botto non solo le dissennate dichiarazioni di un Di Maio,
ma la narrazione che lo stesso Tria ha cercato di spargere in Europa
per cercare di evitare la procedura di infrazione e imporre a colpi di
fiducia al parlamento una legge di bilancio ad esso ignota.
Se i
dati ormai imminenti riguardanti dicembre confermassero per la seconda
volta un trimestre complessivamente negativo, saremmo alla recessione
tecnica certificata. Con sulle spalle una legge di bilancio che
posticipa incrementi dell’Iva alla prossima, una pesante spada di
Damocle che prelude ad una nuova manovra prociclica, ma in condizioni
ancora peggiori e senza più l’ombrello della Bce pienamente aperto, data
la fine del Quantitative Easing.
Impietoso l’Istat afferma che
«l’attuale fase di debolezza del ciclo economico italiano potrebbe
proseguire nei prossimi mesi, alla luce della nuova flessione
dell’indicatore anticipatore».
L’Istituto segnala che il clima di
fiducia dei consumatori ha segnato un ulteriore calo, le aspettative per
il futuro hanno registrato una pesante diminuzione, mentre crescono le
preoccupazioni per la disoccupazione – niente affatto attutite dalle
promesse su un sussidio chiamato reddito di cittadinanza ancora in
faticosa gestazione -, mentre declina persino la fiducia delle imprese.
Né si può sperare che la buona novella giunga dalle esportazioni.
È
vero che continuano ad essere una risorsa per il nostro paese. Ma molto
meno se la congiuntura economica anche dei paesi guida come la Germania
segna indici negativi, per non parlare del clima di guerra commerciale
nel mondo innescata dalla contesa degli Usa con la Cina, il cui stesso
poderoso sviluppo rallenta vistosamente.
È tutta colpa di questo
governo? Non scherziamo. Malgrado che la cattiva politica, unita
all’incompetenza palese abbia aggravato le cose, i mali dell’Italia
vengono da lontano. Sono antecedenti all’ingresso nella moneta unica e
tanto più alla Grande recessione scoppiata nel 2008. Negli ultimi
cinquant’anni spesso i governi si sono alternati, ma con lievi
variazioni di tono tutti hanno pensato che si potesse gestire l’economia
italiana non attraverso uno sviluppo di settori innovativi con
l’intervento pubblico, ma puntando sulle privatizzazioni e su una
competitività di prezzo delle imprese ottenuta attraverso manovre
fiscali e politiche di stampo monetarista e soprattutto comprimendo i
salari.
La moneta unica è stata introdotta certamente in un’area
economica non ottimale, come riconoscono diversi economisti, ma questo
non assolve le specifiche responsabilità delle classi dirigenti
italiane, le quali fino all’ultimo hanno solamente pensato a manovre di
svalutazione della lira, fin quando questo è stato possibile. Ma va
ricordato che quando questo avvenne per l’ultima volta, ovvero nel 1992,
non se ne approfittò per un rilancio e una innovazione della politica
industriale, ma si operò per tagliare e poi liquidare la scala mobile.
I
dati di oggi sono figli di quella sciagurata eredità. Resta da
domandarsi come mai le statistiche basate sui dati economici indicano
l’aumento della sfiducia praticamente in tutti i settori sociali, mentre
quelli legati al gradimento politico del governo gli sono ancora
ampiamente favorevoli. La risposta non sta solo nella discrasia
temporale tra andamento dell’economia e percezione della medesima, ma
nell’assenza di un’opposizione politica che è la vera forza di Salvini e
compagnia.