sabato 12 gennaio 2019

La Stampa 12.1.18
Al Tesoro le stime peggiorano
La crescita è sotto l’1 per cento
di Alessandro Barbera


Come nei ruggenti Sessanta. Gli anni dello Stato imprenditore, dell’Alemagna e dell’Autostrada del Sole. «Ci potrebbe essere un nuovo boom economico», dice sicuro Luigi Di Maio. Quando la platea dei consulenti del lavoro ascolta le parole del vicepremier, nel Palazzo dei Congressi di Roma scende il gelo. Gli ultimi dati sulla produzione industriale - in Italia e non solo - confermano purtroppo l’esatto contrario, ovvero quel che le inascoltate Cassandre andavano ripetendo da mesi: il mondo rischia una nuova recessione, e l’Italia, con le sue debolezze, rischia più di altri. Dopo aver ridimensionato la prima stima a +1,5 per cento ora al Tesoro si dà per scontato che nel 2019 il Belpaese non crescerà nemmeno di un punto come ipotizzato negli ultimi documenti ufficiali. C’è chi teme addirittura che la crescita si fermi ben al di sotto di quanto realizzato nell’anno appena trascorso. La causa scatenante non sono le scelte del governo: come dieci anni fa l’onda arriva dagli Stati Uniti. Secondo un sondaggio di Bloomberg fra gli analisti, il rischio di recessione è dato con una probabilità di uno a quattro, il livello più alto da sei anni. Ma oggi il timore è che si fermi anche il gigante cinese, e la scarsa trasparenza delle autorità di Pechino nell’ammetterlo (stimano ancora un +6,5 per cento) potrebbe far più danni di una cruda ammissione della realtà.
Giovanni Tria ne è consapevole, e non solo perché chi elabora i dati lo ha informato. Poco prima di Natale per parlare di tutto ciò è atterrato a Roma il numero uno della Bundesbank Jens Weidmann. Una cena che avrebbe dovuto rimanere riservata ma che Tria - nel tentativo di rilegittimarsi presso le cancellerie - ha voluto rendere nota. In Germania - dove il peso del settore dell’auto è più forte che altrove - i segnali di rallentamento sono arrivati prima e in modo più brusco di quanto non sia accaduto in Italia.
Il bollettino di dicembre della Banca centrale europea era stato chiaro, spiegando le ragioni per cui la politica economica del governo giallo-verde sia inadeguata allo scenario che ci attende. Non per una contrarietà ideologica ad una manovra espansiva, semmai per la mancata occasione di fare scelte che avrebbero potuto dare una spinta alla domanda interna in una fase in cui quella internazionale scenderà. Chi parla in questi giorni con il ministro del Tesoro lo trova pessimista: il suo piano di sostegno agli investimenti degli enti locali è stato azzoppato. Da lunedì per lui inizia un tour in giro per il mondo: prima a Mosca, poi a Bruxelles, Davos e infine negli Stati Uniti. Sarà l’occasione - per ribadire la sua ricetta keynesiana, ma purtroppo con alle spalle mesi di inutili scaramucce verbali con l’Europa che la rendono poco credibile: invece di mettere in discussione la linea della Commissione con l’aiuto dei partner, il governo si è infilato in una lotta solitaria che lo ha costretto a ridurre il deficit programmato a danno degli investimenti. Eppure Francia e Spagna sono sulla linea italiana, e il nuovo ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz è lontanissimo dal rigorismo ortodosso di Wolfgang Schaeuble. La guerra fra Lega e Cinque Stelle sul destino della Tav e il no alle trivellazioni nello Ionio stanno facendo il resto: per Matteo Salvini, i cui voti sono concentrati nella parte più ricca e produttiva del Paese, si avvicina il momento della verità. La maggioranza è paralizzata dal desiderio di rispettare gli impegni elettorali e dall’ansia di riempire le urne alle europee. Nonostante il tentativo di modificare la manovra spingendo su alcune misure pro-impresa, la parte più rilevante della spesa sarà usata per abbassare l’età pensionabile e aumentare i sussidi di chi non lavora.
L’unica speranza ai cui si attaccano al Tesoro è il solito Mario Draghi: pur essendo finita l’era degli acquisti di titoli che negli ultimi tre anni hanno dato ossigeno all’economia, il governatore della Banca centrale europea può fare ancora molto: può rallentare l’uscita dai tassi zero, e accelerare il piano per una nuova asta di liquidità a favore delle banche. Più basso è il costo di finanziamento per gli istituti, più è probabile che questi ultimi mantengano aperti i rubinetti del credito.