sabato 12 gennaio 2019

La Stampa 12.1.19
I combattenti eroi abbandonati con un tweet
Nessuno salverà i curdi dal massacro
di Bernard-Henry Lévy


È iniziato con i curdi dell’Iraq che a ottobre del 2017, all’epoca del loro referendum sull’autodeterminazione, sono stati piantati in asso dal mondo, nel pieno della campagna contro le milizie al soldo di Teheran.
Quindici mesi dopo i loro fratelli curdi in Siria apprendono da un tweet di Donald Trump che l’esercito americano si sta ritirando, consegnandoli ai cani da guardia di Ankara.
Quindi, naturalmente, di fronte ai commenti indignati, il Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton, ha sfoderato il linguaggio severo di prammatica e ha esortato i turchi «a non intraprendere alcuna azione militare che non sia pienamente coordinata con gli Stati Uniti». Ma questa imbarazzata marcia indietro, questo gioco delle parti tra il diplomatico e il presidente, il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, purtroppo non cambiano la terribile realtà.
I curdi, domani o dopodomani, saranno davvero e completamente abbandonati. Da Kirkuk a Manbij, si ritroveranno circondati, stretti in una morsa, in attesa che dai palazzi di Mosca, Ankara e Damasco venga dato pollice verso, come nei giochi del circo nell’Antica Roma. E questo eroico Kurdistan, questa zona libera strappata all’Isis dai peshmerga e dagli uomini del Ypg (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di Protezione Popolare) questo serbatoio di resistenza e di valore che ci ha protetto dal terrorismo, non è stato nemmeno venduto, bensì offerto ai nostri avversari.
«Buon appetito signori»
C’è un americano di Monaco, tanto più terrificante perché non si preoccupa più di patti ipocriti, pantomime ufficiali e decoro plenipotenziario. C’è un invito, un «buon appetito, signori» per i visir turchi, i fedelissimi putiniani e gli ayatollah iraniani che non credono alle loro orecchie e ai loro occhi - e che, con l’acquolina in bocca non aspettano che l’ultima firma per balzare sulla preda. E questa vigliaccheria in buona e debita forma, questo tradimento politico e morale, questo cinismo, gelano il sangue di tutti coloro che, in tutto il mondo, sono grati a questo popolo curdo, piccolo di numero ma grande nel suo eroismo, che, per difenderci, è andato a cercare quegli invasati anche in bastioni ritenuti inespugnabili.
Questa decisione, bisogna dirlo e ribadirlo, è allo stesso tempo assurda, inaudita e vergognosa. Assurda perché Trump, che aveva indicato nell’Iran il nemico numero uno, gli dà con la mano sinistra ciò che gli ha tolto con la destra; perché la patria di Jefferson e Roosevelt rimette di nuovo in sella, su un mucchio di cadaveri, questo allampanato portatore di morte, questo vigile del fuoco piromane del terrorismo, tale è Assad; e perché ancora una volta, vittima di non si sa quale ricatto, la potente America si inchina all’esangue Russia.
Inaudita perché questo assegno in bianco regalato allo smembramento ieri della Regione autonoma curda dell’Iraq (Krg), oggi a quella della Siria (Rojava), è un caso unico di stupidità geopolitica e strategica in cui vediamo un grande potere pretendere lacrime e sangue dai suoi migliori alleati prima di gettarli ai cani; perché non c’è, nella storia degli imperi, nulla di simile a questo «let’s make America little again» (n.d.t. gioco di parole con lo slogan di Trump, let’s make America great again, come a dire rimpiccioliamo l’America, mortifichiamo l’America) in cui un vincitore, a capo chino, fa da portiere all’ingresso della festa a cui ha invitato i suoi nemici; o meglio, se ce n’è uno, è quello di Cartagine che, dopo la Prima guerra punica, massacrò i mercenari che l’avevano salvata dalla sconfitta contro i romani - salvo che: 1) La tortura dei mercenari libici di Matho non accade nella vita reale, bensì nel «Salammbô» di Flaubert e 2) I curdi non sono mercenari, ma valorosi guerrieri che erano i nostri fratelli d’armi.
Vergognosa, infine, perché questo ritiro americano, questo atto finale di una rivoluzione siriana a cui non è stata risparmiata alcuna ignominia, questa battuta d’arresto sul cammino dei curdi verso una libertà che è stata loro offerta come una carota, ma che, ora che non ne abbiamo più bisogno, si dissolve come un miraggio, lo spargimento di sangue, infine, che prima o poi ne seguirà - tutto questo sarà la macchia scarlatta che Trump, proprio come un altro re pazzo, quello di Shakespeare, vedrà sulla sua mano, ogni sera e ogni mattina della sua vita, «senza che l’intero oceano riesca a lavarla».
Quindi, se c’è ancora una piccola possibilità per coloro che non si rassegnano a questo schifoso retrogusto di amarezza e sconfitta - ebbene questa possibilità si chiama Europa.
L’esempio francese
Il presidente Macron ha trovato parole giuste e belle per esprimere il suo disaccordo con la decisione solitaria e nevrotica, tweetesca e capricciosa del suo «alleato» americano. Ed è stato in grado di resistere, sin dalla sua elezione, ai poteri revisionisti che intendono trarre profitto dal neo-isolazionismo degli Stati Uniti per ritrovare il loro passato imperiale.
Ed è bene che tenti di condividere questa indignazione con i suoi partner europei. Che, grazie alla sua reputazione in ambito internazionale, cerchi di convincerli che l’interesse dell’Europa sarebbe quello di ricordare che il confine su cui i jihadisti sono venuti così tante volte a colpirci è custodito da un popolo che crede nei valori di libertà, laicità e fraternità. E che se solo i 27 Paesi europei inviassero, ciascuno, un centinaio di soldati in missione di pace per assicurare, armi alla mano, che siano rispettati la giustizia, il diritto e l’onore, i 2000 americani rimpatriati sarebbero facilmente rimpiazzati.
L’Europa, per una volta, si mostrerebbe all’altezza della situazione. Non accontentandosi più, bovina e apatica, di stare a guardare, dai suoi «balconi antichi», passare i treni della vergogna e della rassegnazione, ma prendendo invece l’iniziativa.
E questa brigata multinazionale potrebbe essere - chi lo sa? - l’embrione della difesa europea che tutti auspicano senza essere mai stati in grado di darle un contenuto.
È un sogno.
Ma lo coltivo, perché non sarebbe la prima volta, dopo tutto, che la Francia riesce a conquistare la sua porzione di grandezza e visione.
traduzione di Carla Reschia