venerdì 11 gennaio 2019

La Stampa 11.1.19
La memoria vive e suona anche tra i ventenni di oggi
di Nadia Ferrigo

Una graziosa in via del Campo c’è oggi, come allora. «Solo che non c’è più Faber a raccontarla», sospira tra libri e caffè Simone Terrile, 21 anni, studente di letteratura in pausa pranzo nel bar accanto alla facoltà di Giurisprudenza. La stessa dove studiò - poco e controvoglia - Fabrizio De André. Tra i giovani e i giovanissimi genovesi quasi nessuno ricorda la data, l’anniversario tondo di oggi, vent’anni esatti dalla morte. Ma anche chi nel 1999 non era nemmeno nato, conosce a menadito voce e storie di De Andrè.
Compagni di liceo
A cento metri in linea d’aria, qualche cosa in più tra caruggi e crêuze, sta il suo liceo classico, il Cristoforo Colombo. Chiostro imponente, mura arancioni scrostate e corridoi ingombri di avvisi appesi un po’ come viene e addobbi di Natale ancora da sistemare. E una targa. È un verso de Il suonatore Jones. Tutti conoscono l’illustre ex compagno. E chi dice di «ascoltarlo ma non tanto», lo fa quasi come se fosse una colpa. «Mi ricordo i viaggi in macchina da bambino - racconta Lorenzo Caccini, 15 anni, zazzera di capelli ricci e un auricolare che non toglie mai dall’orecchio -. Se chiudo gli occhi, lo sento cantare Geordie». E non è il remix da discoteca di Gabry Ponte.
«Per noi De André è una persona normalissima», conclude. Familiare, come una ninna nanna. «Noi» sta per noi genovesi. «Allora perché tu non c’eri, quando abbiamo fatto assemblea sul film? C’erano tutti», lo punzecchia Lorenzo Verri, coetaneo e rappresentante di classe. A Genova la storia del Principe Libero si conosce senza nemmeno sforzarsi di impararla. Si sa e basta, così il primo incontro è una pesca nei ricordi.
Florencia Semino e Caterina Sciaccaluga, 18 anni, sono tra i «grandi» del liceo. Giocano nel cortile con le racchette del volano perché «a pallavolo non siamo capaci». Bionda e bruna, fisica per una e lettere per l’altra, sono «molto diverse, ma davvero molto amiche». «Noi lo ascoltiamo sempre. Ho iniziato a studiare chitarra, con Il Pescatore» sorride Florencia. E poco cambia se papà lo ascolta su cd, lei e i suoi amici su You Tube.
«Le canzoni di De André parlano anche a noi. Sono storie di uomini. Aiutano a capire la società, perché capisci che prova l’altro. E solo la comprensione può aiutare a cambiare. Pure opinione politica», ragiona Luca Andrade, 24 anni, studente di filosofia a passeggio nelle vie del centro. Con l’aria ghiacciata e il cielo blu, il pomeriggio senza lezioni né esami sembra fatto apposta per parlare di poesia. «Ma la sua era una società fiabesca, ingenua» ribatte Chiara Barabino, coetanea e collega. «Anche se c’è ancora una bocca di rosa, il professore che si innamora dov’è finito? Non cambiano i luoghi. Le classi sociali sono saltate. A cambiare sono sempre le genti».
Le tracce in via del Campo
Già, le genti. Quelle di via del Campo hanno la pelle scura, cuffie calate sugli occhi e piumini gonfi. Accanto al museo, la Casa dei cantautori genovesi, c’è un molto ben assortito alimentari bengalese. Poi la sartoria Black Africa, un money transfer e due negozi halal. Una parte di mondo che non è esattamente il pubblico ideale per un cantautore italiano. Solo Mohamed Essebri, 30 anni, il «capo» in un altro negozio di alimentari della piazzetta, ne sa qualche cosa. «Quando sono arrivato a Genova, 14 anni fa, qui accanto c’era un bar con le sue foto e i suoi dischi. Era bellissimo». È il locale La cattiva strada. L’insegna resiste, ma i cimeli sono spariti.
Fortuna che la città per ricordare non ha bisogno di chiedere il permesso. All’inizio della strada, a bomboletta sul muro, c’è Nella mia ora di libertà: «Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto non rubare quando si ha fame». Un verso che sta per compiere cinquant’anni, ma che parla ancora delle genti di via del Campo.