Corriere 11.1.19
20 anni senza Faber
Il ricordo di De André in camerino
«L’importante è saper sbagliare»
di Alessandra Arachi
Chi
lo ha visto quel concerto al teatro Brancaccio, non può aver
dimenticato i castelli di tarocchi giganti che riempivano il palco, e lo
sfondo color azzurro cielo che riempiva lo sguardo, e le note di quella
musica soave che riempiva l’anima.
Chi lo ha visto quel concerto a
Roma, lo sa bene che è stato l’ultimo concerto di Fabrizio De André che
le telecamere hanno potuto riprendere.
Era febbraio, era il 1998,
era il tour Anime Salve, e le date che sono venute dopo sono rimaste
lontane dalle televisioni, e sono state poche. Ben presto Fabrizio
avrebbe abbandonato la sua chitarra, e — lo sappiamo — l’11 gennaio
dell’anno seguente sarebbe morto all’Istituto dei tumori di Milano.
Quel
pomeriggio al teatro Brancaccio tutto era ancora un incubo lontano, e
Fabrizio De André non poteva immaginare che un tumore orribile gli si
fosse piazzato dentro un polmone per divorargli la vita.
Quando
Cristiano ha bussato alla porta del suo camerino, Fabrizio mi ha
scrutato perplesso, suo figlio mi teneva per mano e mi aveva appena
presentato come una sua cara amica, e io devo aver avuto un’espressione
in bilico tra l’estasi e l’ansia da prestazione.
Non avevo mai voluto conoscere un mito che mi aveva incantato sin dall’età di dieci anni. Stava succedendo in quei minuti.
Sono
rimasta quasi un’ora dentro al camerino a parlare con Fabrizio De
André, e sentivo l’affanno di mettere in fila le domande di una vita, ma
a fargliele quelle domande non ci riuscivo. Qualunque pensassi mi
sembrava troppo stupida per il Maestro, e per fortuna ci ha pensato lui a
riempire i miei buchi che in una conversazione erano decisamente un
inedito della mia vita.
Poi ce l’ho fatta, gli ho raccontato di
come da cronista di nera non avevo mai smesso di saccheggiare le sue
canzoni, mettevo le sue frasi nei pezzi, e nei titoli, e gli ho detto
che un giorno mi avrebbe potuto accusare di plagio.
Mi ha
guardato, ha spento la sua terza sigaretta, e con la bocca ha fatto una
smorfia che assomigliava ad un sorriso: «Belìn il problema non è
copiare. È saper copiare».
Volevo replicare, capire se saper
copiare era come aveva fatto lui in maniera magistrale con Brassens, con
Leonard Cohen, e mi stavo preparando la domanda quando nel camerino è
entrata Monica, la sua addetta stampa. Dovevano preparare un comunicato.
Ho fatto per uscire dal camerino, Fabrizio mi ha fermato: «Te lo
ricordi dove è nato Padre Pio?». Ho risposto, il più velocemente
possibile: «A San Giovanni Rotondo». Lui non ha battuto ciglio: «Belìn,
credevo Pietrelcina».
Pietrelcina certo. La prima domanda che mi
aveva fatto il Maestro in tutta la vita, l’avevo sbagliata. Sarebbe
stata anche l’ultima, ma questo in quel momento non potevo saperlo
nemmeno io. Volevo andarmene, piena di vergogna.
Fabrizio De André
mi ha fermato di nuovo: «Ormai hai capito come funziona, vero?». Non
avevo capito. Si è scostato dalla fronte il suo lungo ciuffo di capelli:
«Il problema non è sbagliare. È saper sbagliare».