Il Sole Domenica 20.1.19
Regime & arte. Preferenze e censure del Führer indagate in un saggio
La passione insaziabile di Hitler per il cinema
di Tommaso Munari
Se
si parla di «Hitler e il cinema», la mente corre subito a Charlie
Chaplin che, nei panni del Grande dittatore (1940), volteggia sulle note
del Lohengrin, facendo ruotare su un dito e poi rimbalzare sul sedere
un mappamondo gonfiabile destinato a scoppiargli fra le mani. È la
parodia politica più famosa della storia del cinema. Ma il rapporto tra
il Führer e la settima arte indagato dallo storico Bill Niven nel saggio
Hitler and Film è ben più complesso e sfaccettato, e oscilla fra due
polarità: uso pubblico e passione privata.
Per riscostruirlo nelle
sue varie articolazioni, Niven ha fatto ricorso a innumerevoli fonti.
Nessuna ignota agli studiosi, tutte (o quasi) inedite per il lettore
comune, specialmente quello italiano: dai carteggi fra gli assistenti
del Führer e il personale del ministero della propaganda ai diari
torrentizi di Joseph Goebbels; dalle memorie autoassolutorie dei registi
Veit Harlan e Leni Riefenstahl alle rubriche e riviste di cinema del
periodo nazista, fino, naturalmente, alle pellicole di centinaia di film
e cinegiornali prodotti dal Reich. Esaminando e incrociando questi
materiali, con vigile coscienza della loro gerarchia, l’autore ci rivela
un nuovo volto di Adolf Hitler. O meglio, quattro.
Il primo è
quello di spettatore privato: accanito, compulsivo, insaziabile. Hitler
fu – per dirla con uno spudorato anacronismo – un inguaribile
binge-watcher. La vittima ideale di Netflix. Secondo il suo assistente
Julius Schaub, quasi ogni sera guardava, da solo o in compagnia, uno o
più film; e secondo il suo fotografo personale Heinrich Hoffmann,
riguardava ossessivamente i più amati, tra cui I nibelunghi di Fritz
Lang (1924).
Quali erano gli altri? Difficile dirlo con certezza,
anche se negli archivi federali tedeschi è conservata una raccolta di
giudizi del Führer su tutti i film proiettati nel 1938-39 al Berghof, lo
chalet sulle Alpi bavaresi dove era solito trascorrere lunghi periodi
dell’anno. Giudizi eccessivamente stringati, purtroppo, ma sufficienti,
insieme con altri indizi come l’inventario della cineteca del Berghof, a
darci un’idea delle sue predilezioni: film epici, storici, comici e
cartoni animati, su tutti quelli di Mickey Mouse (dono di Natale di
Goebbels del 1937).
Il secondo volto, speculare al primo, è quello
di spettatore pubblico. Contrariamente ai suoi ritmi di visione
domestica, Hitler frequentava le sale cinematografiche con strategica
moderazione. Che fosse in occasione della prima dell’Inferno dei mari di
Gustav Ucicky (1933) o di quella della Squadriglia degli eroi di Karl
Ritter (1938) o di quella di Un matrimonio movimentato di Wolfgang
Liebeneiner (1939), ogni sua apparizione nel palco d’onore dell’immenso
Ufa-Palast di Berlino (distrutto da un bombardamento nel 1943)
costituiva una mossa propagandistica accuratamente studiata.
Sebbene
il controllo preventivo dei film fosse una prerogativa di Goebbels (che
non solo proibì ma custodì sotto chiave opere esplosive come Via col
vento e Il grande dittatore), Hitler non disdegnò di calarsi nei panni
di censore (terzo volto) ogni volta che le circostanze lo richiedevano.
Quando ciò accadde, si attenne alla più genuina ideologia nazista:
approvò la decisione del suo fidato ministro della propaganda di vietare
Abele coll’armonica a bocca di Erich Waschneck (1933), per le sue
implicazioni omosessuali; respinse una prima versione della Resa del
Sebastopoli di Karl Anton (1936), troppo indulgente nella
rappresentazione della rivoluzione bolscevica; ma risparmiò, forse
ammaliato dall’interpretazione di Greta Garbo, Margherita Gauthier
dell’ebreo George Cukor (1936), che raggiunse trionfalmente le sale
tedesche nel 1937.
L’azione del Führer in veste di committente
(quarto volto) si concentrò invece attorno a un solo nome: Leni
Riefenstahl. Pur essendo osteggiata da Goebbels, il cui diario è prodigo
di commenti misogini che la riguardano («Leni è molto brava. Se solo
fosse un uomo!», 22 novembre 1934; «è estremamente isterica, una prova
in più del fatto che le donne non possono gestire tali compiti», 18
settembre 1936), la giovane regista fu sempre protetta e riverita da
Hitler, che le mise a disposizione mezzi illimitati. Questi, uniti a una
straordinaria padronanza della tecnica cinematografica, le permisero di
realizzare due ipnotici e magniloquenti lungometraggi – Il trionfo
della volontà (1935) e Olympia (1938) – che celebravano rispettivamente
il Raduno di Norimberga del 1934 e i Giochi olimpici di Berlino del
1936.
Al di là delle agiografie visive della Riefenstahl, non
risulta che Hitler abbia commissionato direttamente altri film. Sarebbe
tuttavia un errore sottovalutare il suo ruolo nella produzione delle
pellicole antisemite che invasero le sale di proiezione a partire dal
1940. Attraverso un’analisi delle varie stesure della sceneggiatura di S
üss l’ebreo, per esempio, Niven dimostra che Veit Harlan aveva
modificato i dialoghi del suo film per accordarli all’evoluzione delle
idee e delle politiche antiebraiche del Führer.
Benché sia ormai
noto a tutti che il cinema è stato lo strumento di propaganda
privilegiato dalle dittature, i modi e le forme in cui esso fu impiegato
dai vari regimi sono tuttora oggetto di ricerche accademiche (il
contributo più recente e originale è il saggio storico-filologico di
Ruth Ben-Ghiat Italian Fascism’s Empire Cinema). Per quanto riguarda il
regime nazista, l’equilibrio tra analisi e sintesi raggiunto dal libro
di Niven, ne fa un testo di riferimento da cui difficilmente si potrà
prescindere.
Non bisogna tuttavia dimenticare che i film sono
documenti di un’epoca al di là delle intenzioni dei loro autori o
committenti. Chi per esempio volesse osservare attraverso la lente del
cinema l’incubazione del germe nazista nella Repubblica di Weimar,
dovrebbe ricorrere al vecchio ma insuperato saggio di Siegfried Kracauer
Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco (1947).
Hitler and Film.
The Führer’s Hidden Passion
Bill Niven
Yale University Press,
London - New Haven,
pagg. XI + 300, $ 30