Il Sole Domenica 20.1.19
Nelle pieghe della storia. Partendo da
un quadro di difficile interpretazione, passando per la «Commedia» e il
suo enigmatico Maometto, la filologa Roberta Morosini scopre un’antica
scena di propaganda antislamica
Dante, Lippi e lo strano toro volante
di Franco Cardini
Dante, il profeta e il Libro.
La leggenda del toro dalla
Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio
Roberta Morosini
L’Erma di Bretschneider,
Roma, pagg. 376
Nella
National Gallery di Londra, fra le altre opere d’arte prestigiose ma
anche inquietanti, ce n’è una che ha spesso attratto gli studiosi ma che
non è mai stata oggetto di una interpretazione davvero convincente. Al
centro, in alto, un baldanzoso toro semirampante si staglia nel cielo: e
la linea delle acque marine che si distingue dietro di esso, inquadrata
tra due alte cime montuose, suggerisce quasi che sia sorto dalle onde;
in basso, un variopinto e festoso tiaso di uomini e di donne lo accoglie
adorandolo con danze e suoni di strumenti musicali. La scena è
tradizionalmente interpretata come l’Adorazione del vitello d’oro:
secondo la narrazione di un episodio dell’Esodo (32, 1-6): il profeta
Mosè ha asceso la montagna del Sinai, dove sta ricevendo da Dio le
Tavole della Legge; ma, dal momento che la sua assenza si prolunga, gli
ebrei si lasciano persuadere da alcuni cattivi consiglieri presenti tra
loro che l’attesa sarà vana e ch’è opportuno rivolgersi a un’altra
divinità. Fusi quindi gli oggetti d’oro portati dall’Egitto foggiano la
statua di un vitello, che adorano. Mosè, all’atto della sua discesa dal
Sinai, ordina infuriato che l’immagine sia fusa di nuovo e punisce con
una morte atroce i principali istigatori del culto idolatra obbligandoli
a ingerire il metallo liquido e ardente.
Il quadro, attribuito a
un allievo del Lippi, il cosiddetto Maestro di Memphis, che l’avrebbe
eseguito verso il 1502 su un disegno dell’artista, ha invero sempre
lasciato perplessi i critici. Anzitutto, per quanto il riferimento ai
due picchi montagnosi rinvii con certezza alle due cime del Sinai (il
Gebel Musa e il Gebel Katharina), qui si tratta però non già di un
vitello d’oro, immagine idolatra, come nell’Esodo, bensì di un toro vero
e vivente, per quanto si libri prodigiosamente nell’aria pur non
disponendo di ali; inoltre egli porta, perfettamente disegnata sulla
spalla sinistra, un’argentea falce di luna (o, come diciamo un po’
impropriamente nei italiani, una «mezzaluna») che richiama
inequivocabilmente il «crescente lunare», il hilal, all’inizio del
Cinquecento ormai famoso per essere non solo e non tanto uno dei simboli
dell’Islam quanto, più specificamente, il simbolo sia di Costantinopoli
– che all’atto della redazione del dipinto era ormai da mezzo secolo
nelle mani dei turchi ottomani – sia, appunto, dell’impero sultaniale
ottomano. La natura e la storia di tale simbolo sono state
recentissimamente richiamate con maestria in un capitolo del libro La
cattedrale sommersa (Rizzoli, 2018, pagg. 13-26) dalla bizantinista ed
iconologa Silvia Ronchey.
Le antichità egizie, già circondate da
timorosa venerazione nel Medioevo, avevano conosciuto un crescente
interesse fino dalla metà del Quattrocento; e, quando il quadro fu
dipinto, regnava ancora sul soglio pontificio Alessandro VI l’arme
araldica della cui famiglia, il toro dei Borja, era stato identificato
con il toro isideo Apis degli antichi egizi, riconoscibile appunto per
una bianca mezzaluna sulla spalla: è così che esso viene raffigurato
anche dal Pinturicchio nell’Appartamento Borgia in Vaticano. Ma per
quale oscuro motivo il vitello d’oro dell’Esodo poteva venir
interpretato con Apis?
Dev’essere stata questa aporia a instradare
Roberta Morosini, ordinaria di letteratura e filologia romanza presso
la Wake Forest University (Usa) e specialista dei rapporti
cristiano-musulmani fra Medioevo e Rinascimento, sulla vie della caccia a
un problema complesso che coinvolge il profeta Muhammad, il poeta Dante
e, appunto, il pittore Lippi. Ne è nato un libro poderoso e
affascinante, Dante, il profeta e il Libro. La leggenda del toro dalla
Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio
edito da L’Erma di Bretschneider.
Per la verità, quanto ad aporie
del tipo che tolgono il sonno agli studiosi, la Morosini era da tempo
perseguitata da un’altra: dal momento che nella cultura dotta del
Due-Trecento l’Islam veniva ordinariamente considerato – come lo
presenta Tommaso d’Aquino nella Summa contra gentiles – come un’eresia
cristiana, perché Dante punisce Maometto nel XXVIII dell’Inferno come
“seminatore di scismi” anziché come eretico?
Il Maometto di Dante
ha dato davvero del filo da torcere agli specialisti: e ci voleva forse
uno studioso che ha la rara dote di possedere perfettamente due culture,
quella musulmana del suo materno Egitto e quella latino-romanza e
medievistica della sua seconda patria, Firenze, per gettare su tutto
quel problema una luce nuova. Alludo a Mahmoud Salem Elsheikh, filologo
allievo di Contini e accademico della Crusca, che nel geniale saggio
Lettura (faziosa) dell’episodio di Muhammad, Inferno, XXVIII («Quaderni
di Filologia Romanza», 23, 2015, n.s., 2, pagg. 263-299), ha mostrato
come il Muhammad squartato e sventrato abbia, in alcuni testi mistici
musulmani, un preciso valore mistico-esegetico. La Morosini invece,
seguendo la pista dei testi occidentali, si è imbattuta nel Maometto
protagonista di prodigiosi episodi, quali quello di una colomba che
sembrava ispirarlo sussurrandogli ignote verità all’orecchio a quello –
ed eccoci! – del Corano arcanamente consegnatogli da un toro che reca
tra le sue corna il Santo Libro.
Attraverso pagine di stupefacente
dottrina e grazie a un’analisi non solo testuale, bensì anche
iconologica, tanto estesa quanto approfondita, la Morosini è risalita a
ritroso dal quadro della National Gallery a quello ch’è uno dei
capolavori (e il più misterioso e meno studiato) del pittore pratese,
gli affreschi della «Cappella Carafa» nella chiesa romana di Santa Maria
Sopra Minerva densi d’una complessa, intricata simbolica neoplatonica.
Ne è nitidamente emersa la possibilità (molto più di un’ipotesi)
d’interpretare l’adorazione del toro portatore di mezzaluna come una
scena di propaganda antislamica: all’indomani della caduta di
Costantinopoli, l’epifania dell’animale portatore del Corano e segnato
dalla mezzaluna islamica, che appare nel cielo fra il tripudio dei
pagani, è la nuova denunzia del pericolo ottomano e, indirettamente, la
proclamazione della necessità d’una nuova crociata. Sulla scia di quanto
i papi del tempo avevano chiesto, da Niccolò V e Pio II allo stesso
Alessandro VI.
D’altronde, il simbolo è per sua natura polisemico.
Il trionfo del toro selenoforo nella Roma dominata dal toro dei Borja è
anche il trionfo dello strumento per eccellenza della Tradizione
sacrale, il Libro, quel quale lo stesso Corano che in molti testi
leggendari l’animale reca tra le corna è simbolo. Libro simbolo di
«virtute e canoscenza», due virtù che con l’amore sono i simboli della
Trinità. Il mistero del toro divino, una volta s-velato, immediatamente
si ri-vela, cioè si rivela di nuovo. Propaganda antimusulmana o elogio
del trionfo della sapienza? O entrambe le cose?