Il Sole Domenica 20.1.19
Giallo. La riedizione del romanzo di
Gadda con note di Pinotti si avvale di documenti inediti e fa emergere
la storia, tragicomica, dell’accidentata carriera dello scrittore
«Pasticciaccio» col vestito tutto nuovo
di Salvatore Silvano Nigro
La
teoria dei generi letterari e la tradizione critica hanno cromatizzato,
con il giallo, il nero e il rosa, i romanzi polizieschi, gotici o
dell’orrore, sentimentali. Fra tutti, il genere più controverso è il
«giallo» che (insieme al «rosa») viene generalmente relegato alla
periferia della letteratura; nella zona sconnessa riconosciutagli da
Edmund Wilson, in The Shores of Light del 1952: «Questo tipo di lettura
altro non è che una specie di vizio, che per la sua stupidità e il minor
nocumento si pone a mezza via tra il vizio del fumo e quello delle
parole incrociate»; tra «l’alcool, o il tabacco», aveva già scritto il
poeta Wyston Hug Auden. Wilson polemizzava con W. Somerset Maugham,
sostenitore del genere poliziesco: «Gli autori di polizieschi hanno una
storia da raccontare e la raccontano in modo succinto. Devono catturare e
trattenere l’attenzione, quindi devono entrare rapidamente nel vivo del
racconto (…) Orbene, i romanzieri “seri” dei nostri giorni hanno molto
spesso poco o niente da raccontare e si sono anzi abituati a credere che
il racconto, la storia, sia un aspetto trascurabile dell’arte (…)
Insomma, gli autori di polizieschi vengono letti per i loro meriti,
malgrado i difetti spesso evidenti: i romanzieri “seri”, al confronto,
sono poco letti a causa dei loro difetti, malgrado i pregi spesso
evidenti» (Lo spirito errabondo, Adelphi 2018). La velocità del giallo
corre lungo un binario obbligato: omicidio, indagini, sospetti, scoperta
e condanna del colpevole. Deve far leva sulla «bramosia intensissima»
del lettore, desideroso di arrivare alla fine del libro e magari
precorrere, nello scioglimento dell’enigma, quel battitore di piste che è
il detective. Il giallo vuole essere «divorato» dal lettore, al
contrario dell’opera d’arte che si impone per essere «letta». Questa è
la conclusione del dibattito, alla quale giunse Wilson, molto
semplificando: visto che non tenne conto dei possibili gialli anomali,
che la tecnica del sottoprodotto letterario di tipo poliziesco assumono,
in un superbo e nobilissimo progetto d’arte portato oltre il «genere»,
fin dentro la grande letteratura. Ed è il caso di Gadda, «che ha
scritto», dice Sciascia, «il più assoluto “giallo” che sia mai stato
scritto, un “giallo” senza soluzione, un pasticciaccio». Il capolavoro
pingue e straripante di Gadda è fondato su un sistema di convulse
dilazioni, che adescano il lettore nei grovigli delle indagini, con
personaggi che entrano e che escono o tornano, fino a non pretendere più
di tener dietro a tutto: mentre gode delle situazioni abnormi, e tra
vari andirivieni, ritardi e deviazioni, arriva al cosiddetto
scioglimento del «cruciverba narrativo» che consiste nella scoperta che
dall'intrico non si esce; e «quasi» non si vuole uscire. Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana, aggiunge Sciascia, «forse, come
libro (…) è già concluso: ma come “giallo” è propriamente interrotto.
«Forse» e «quasi», certamente.
Grande e massimo «stilista del
deforme», come ebbe a definirlo Manganelli, Gadda racconta nel
Pasticciaccio «affari tenebrosi»: ricalcando, con ilare ironia, il
titolo Une ténébreuse affaire di Balzac. Il plurale della formula
gaddiana che, virgolettata, torna nel romanzo come citazione da una
cronaca («i giornali avevano molto parlato del “tenebroso” delitto di
via Valadier»), è imposta dalla doppia indagine condotta dal
commissario-capo della Squadra Mobile di Roma, Ciccio Ingravallo,
(spalleggiato dagli agenti «Gaudenzio, noto alla malavita come er
Biondone, e Pompeo detto lo Sgranfia»): su un furto di gioielli
consumato ai danni della contessa Menegazzi, e sullo sgozzamento della
signora Liliana Balducci; reati avvenuti a Roma, nel marzo del 1927, nel
«palazzo dell’oro» o dei pescecani: un «casermone color pidocchio», in
via Merulana, che la «serietà tiberina» del popolo vociferava essere
colmo più di «oro» che di «monnezza». Sul putridume della città, che
olezza di piscio e petrolio, incombe lo sgorbio grottesco e osceno di
Mussolini: del «Truce in cattedra», del «Testa di Morto in stiffelius, o
in tight»; la «maschia boce» del «buce». Ha scritto Calvino: «Roma,
vischioso calderone di popoli, dialetti, gerghi, lingue scritte,
civiltà, sozzure, magnificenze, non è mai stata così totalmente Roma
come nel Pasticciaccio di Gadda, dove la coscienza razionalizzatrice e
discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta
carnivora». Non manca la campagna romana, con il Soratte sullo sfondo:
la montagna cantata da Orazio, dipinta da Massimo d’Azeglio, descritta
da Curzio Malaparte.
Questo romanzo di sfarzoso plurilinguismo, e
di un grottesco mescolamento degli stili, governato dalla belliana
«puttanicizia» (e il Belli è espressamente citato), è intensamente
visivo. Vi dirompe un pittoresco linguaggio dei gesti («Raccolte a
tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella
ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli»), e un
ritrattismo animato da nasazzi, zinne, muliebri baffetti blu, bollicine
agli angoli delle labbra, e altri disgusti. A non parlare di una
generalizzata aderenza alla grande pittura cinque-secentesca, e non
solo. Gadda arriva a smembrare il ritratto di Cosimo de’ Medici dipinto
da Pontormo. Disloca il particolare della ceppaia dinastica della
famiglia medicea. E lo applica a significare il rapporto di cuginanza
tra Giuliano (in un primo momento sospettato da don Ciccio di essere il
carnefice ricercato) e Liliana: «Giuliano… un bel pollone dritto dritto,
venuto su tutto dalla medesima ceppaia»; «Giuliano, verga splendita
della ceppaia». Successivamente fossilizza la vecchia «Migliarini
Veronica» nelle sembianze di Cosimo: «Si stava ingobbita sulla sedia,
impietrata (…): teneva una mano nella mano, da parer Còsimo pater
patriae nel ritratto del Pontormo».
Quer pasticciaccio brutto de
via Merulana uscì da Garzanti nel 1957. Viene ora rimesso a nuovo da
Giorgio Pinotti, in una mirabile edizione pubblicata da Adelphi (pagg.
370, € 18,00). La magnifica Nota al testo di Pinotti, condotta con mano
sicura e incisività di stile, si avvale di numerosi documenti inediti
rinvenuti nell’Archivio Liberati, letti con sagacia interpretativa. E
racconta il “romanzo”, vero e tragicomico, della carriera accidentata di
uno scrittore «anticipista» e «remorante»: costretto a barcamenarsi,
tra anticipi e prestiti, tra editori esigenti e talvolta iracondi e
gelosi l’uno dell’altro, ai quali promette anticipazioni e puntate della
sua opera; e intanto si arrovella, riscrive e trafelato, esausto e
ansioso, ricorregge, e si rende cerimoniosamente e vigliaccamente
inadempiente. Nelle remore, perlustra e fotografa l’agro romano, per
orientarsi nell’ambientazione; pensa a sottoporre i suoi «cenci» a
«risciacquatura nel Tevere», come un tempo il suo Manzoni nell’Arno; e
per trovare una soluzione alla «coda serpentesca» del suo
«coccodrillone», imposta una Sceneggiatura per il finale, un Finale
imperfetto, delle Note costruttive, correzioni e completamenti. Ha un
problema, Gadda: rendere meno marcata, nella conclusione aperta, la
scissione «fra il sapere del lettore e la cecità di Ingravallo; smontare
gli indizi sulla colpevole dello sgozzamento e «fuorviare, appunto, il
lettore».
Non si trova il dattiloscritto del Pasticciaccio. Ma
sappiamo che fu battuto a macchina dalla sua fidata Signorina Metta. Si
chiamava Anita. Ma Gadda preferiva chiamarla Aninha, per meglio
associarla alla battagliera moglie di Garibaldi. E battagliava ogni
giorno, la Signorina, che era la segretaria della redazione romana della
casa editrice Garzanti, con l’autore che interveniva in continuazione
sul testo e le faceva ribattere tutto, mentre l’editore si dava in preda
alle Furie. Gadda era ossessionato soprattutto dai nomi dei personaggi.
Temeva che qualcuno si riconoscesse. Pretendeva di cambiarli in
continuazione. Il suo santo era don Abbondio. La Signorina Metta divenne
più tardi la segretaria di redazione della sede romana della Laterza. E
lì la conobbe chi scrive: minuta e dolcemente collaborativa. Ormai si
faceva chiamare Aninha.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
A cura di Giorgio Pinotti, Adelphi,
Milano, pagg. 370, € 18