Il Sole Domenica 13.1.19
A tavola conToni Servillo
«Sono
nato ad Afragola, correvo sa tavola conToni Servillocalzo nei viottoli
in mezzo al fango Io non ho la noia degli altri. L’essere umano mi
piace»
«Sono affascinato dall’abisso dell’io, ma il mio teatro è fondato sul noi»
di Paolo Bricco
«Il
noi: non riesco a interpretare diversamente l’esperienza umana. Mi
affascina l’abisso dell’io. Ma credo che, per conoscerlo davvero,
bisogna avere vissuto da ragazzo grandi solitudini. Io sono cresciuto in
mezzo agli altri, in una festa magari anche tragica. Sono nato ad
Afragola, a cinque chilometri da Napoli, in un centro a vocazione
rurale. Correvo scalzo. Nei viottoli, in mezzo al fango, c’erano gli
animali. Io non ho la noia degli altri. L’uomo mi piace».
Toni
Servillo, 59 anni, è molto elegante in un vestito blu, ha una cravatta
dello stesso colore e una camicia grigia. Siamo al Chiostro Nina Vinchi
di Via Rovello, nel locale che prende il nome da Giuseppina, detta Nina,
la ragazza del quartiere di Porta Venezia che fu collaboratrice di
Paolo Grassi e Giorgio Strehler nella fondazione e nell’affermazione del
Piccolo Teatro, nella Milano del dopoguerra socialista e borghese,
popolare ma mai plebea, internazionale senza il bisogno di fare alcuna
gita a Chiasso.
Di fronte a noi, su un tavolino vengono disposti
toast al formaggio e al prosciutto, bicchieri di spremuta d’arancia e
caraffe di acqua minerale, naturale e gassata. Servillo è - insieme a
Petra Valentini - al Piccolo Teatro Grassi con lo spettacolo che ha
tratto dalle sette lezioni che Louis Jouvet, uno dei principali attori e
autori del teatro e del cinema francese della prima parte del secolo
scorso, tenne al Conservatoire National d’Art Dramatique di Parigi, nei
mesi dell’occupazione nazista, sul personaggio di Elvira del Don
Giovanni di Molière. Il Piccolo Teatro di Milano e Teatri Uniti di
Napoli hanno prodotto questa pièce - in cui Servillo è appunto Jouvet e
Valentini è Claudia, l’allieva costretta a lasciare le scene in quanto
ebrea - che sarà fino al 20 gennaio al Bellini di Napoli.
«A
pranzo, quando recito, rimango sempre leggero, poi il pomeriggio cerco
di riposarmi e concentrarmi, ogni sera sul palco si ricomincia daccapo»,
dice raccontando un mestiere fatto di dedizione e di ritualità, di
forma e di precisione, di affanno e di vocazione. Lui non appartiene
alla tradizione italiana dei grandi attori colti fino alla leziosità,
impostati così tanto da sembrare vagamente tromboneschi, sempre al
centro di tutto anche a costo di esprimere un narcisismo in grado di
condizionare - nel bene e nel male - ogni cosa intorno a loro. Tratta
con una educazione non affettata e una cordialità non artificiale quelli
che entrano in questa stanza riservataci nel ristorante. Il suo carisma
comporta la sottrazione. E, così, Servillo è anche semplicemente Toni,
diminutivo di Marco Antonio. Ha una grande passione per la musica. Suo
fratello Peppe fa parte degli Avion Travel: loro due e i Solis String
Quartet hanno realizzato lo spettacolo La parola canta, dedicato ai
classici e ai contemporanei della cultura scenica napoletana. Ha un
legame intenso e mai interrotto con la sua comunità di origine, una
parte della quale ha dato vita a Napoli ai Teatri Uniti. Ha una moglie,
Manuela, e due figli, Eduardo e Tommaso. Abita a Caserta: «Non potrei
vivere lontano. Stare vicino alle radici permette di distinguere ciò che
è autentico da ciò che è fasullo, l’originale dall’artefatto, il vero
dal falso o, meglio, chi imbroglia da chi non imbroglia. E, poi, c’è la
questione della lingua e del linguaggio. Il dialetto, il tuo dialetto,
ha i doppi sensi e i doppi fondi».
Tutto questo provoca e produce
una attitudine normale che si rivela nell’emozione comunicata a uno
sconosciuto come me per un incontro annunciato e poi rimandato, comunque
felicemente imminente, con il musicista Gidon Kremer che - con il suo
violino, la sua direzione di orchestra e le sue interpretazioni di Bach e
di Brahms - è uno dei giganti della musica del Novecento: «Sono
felicissimo - dice incurvando verso l’alto le labbra in un sorriso pieno
- due anni fa l’ho visto a Venezia in un locale e mi sono avvicinato
per salutarlo. Io avevo riconosciuto lui, ma lui non sapeva chi io
fossi. Non mi sono presentato come un attore e regista, ma come un
semplice fan. Oggi mi ha telefonato. È in Italia. Probabilmente ci
incontreremo, anche se in questo momento è fermo nel traffico di
Milano».
Milano, dunque, dove Servillo ha preso una casa e nelle
cui vie del centro, in questo inverno ricco di luce e povero di freddo,
propone al figlio che lo ha chiamato al telefonino di fare più tardi
insieme una passeggiata. «Sono felice di essere qui perché il Piccolo
venne fondato da Grassi e da Strehler nel 1947 all’insegna del noi,
secondo una idea di teatro come servizio pubblico. Ho apprezzato il
libro di Massimo Bucciantini Un Galileo a Milano, che ricostruisce lo
spettacolo Vita di Galileo per la regia appunto di Strehler, la messa in
scena del 20 aprile 1963 con il tutto esaurito e 160 repliche che segnò
tantissimo il clima culturale, politico e civile della Milano e
dell’Italia degli anni Sessanta».
Il noi è, dunque, la parola
chiave di Servillo. Noi, come noi italiani. Il nostro senso di
identificazione con lui è forte: perché - grazie alla popolarità
ottenuta con il cinema di Mario Martone e Titta Di Girolamo, Giovanni
Sanzio e Paolo Sorrentino, «ai film sono arrivato a 40 anni» - Servillo è
diventato una delle grandi maschere in cui gli italiani colgono le
fattezze e i profili della storia e quotidianità, della passione e della
noia per la vita, della complessità delle cose e della verità del
potere: Morte di un matematico napoletano, Le conseguenze dell’amore, La
ragazza del lago, Gomorra, Il divo-La spettacolare vita di Giulio
Andreotti, La grande Bellezza e Loro hanno contribuito a fare di
Servillo una pietra a molte facce di quell’edificio insieme razionale e
barocco che è la nostra identità comunitaria e nazionale, multipla e
polimorfa, così chiara e così incomprensibile, in fondo da tutti noi
tanto amata e detestata.
Il noi è rappresentazione della realtà.
Il noi, però, è anche realtà della rappresentazione. Fenomeno culturale,
funzionalità del pensiero, ruolo dell’intellettuale. A teatro, ma non
solo. «Mi ha sempre colpito l’idea di Leonardo Sciascia secondo cui
scrivere equivale a una buona azione. Scrivere serve a qualcuno. Nella
mia visione del mondo torna, dunque, di nuovo il noi».
La sua è
una vocazione d’attore radicale, ma non intellettualistica. Servillo è
un uomo del Novecento. Ma, rispetto alle derive della cultura italiana
di sinistra degli anni Settanta in cui si è formata la sua generazione
di uomini e di donne di teatro, lui ha compiuto un passaggio evolutivo:
«Insomma... il messaggio... la pesantezza ideologica ha tolto la
felicità dei sensi a teatro e la felicità dell’interpretazione...».
La
sua traiettoria, in teatro e fuori dal teatro, ha oggi una
caratteristica precisa: in lui la dicotomia fra élite e popolo, che
molto ha contraddistinto la cultura storica e il dettato civile di noi
italiani e che tanto sta segnando lo spirito del nostro tempo in Europa,
perde di significato e trascolora, si scioglie e si coagula in una
forma non retoricamente democratica che appare in grado di sublimare
ogni differenza fra l’alto e il basso. «Amo l’avanguardia - dice bevendo
la sua spremuta - non sono un passatista o, si sarebbe detto una volta,
un reazionario. Mi piacciono la musica di György Kurtág e la pittura di
Mimmo Paladino. Lavoro con il musicista Fabio Vacchi. Però, trovo che
in questi anni si sia verificato a volte un accanimento. La
sperimentazione va bene. Ma l’iconoclastia per l’iconoclastia è sterile.
Le indagini sul linguaggio, sganciate dalla crudeltà della vita e
dell’esistenza, hanno portato molti in vicoli ciechi, dove si è soli
perché gli altri non ci sono».
Gli altri, dunque, ancora. E,
ancora, noi. La linfa che il teatro classico trae dalla strada. I
classici come canone. E, appunto, come interpunzione fra realtà,
rappresentazione e interpretazione. «Il teatro è una assemblea viva. Il
pubblico delega all’attore l’interpretazione del testo. Amo gli autori
che sono molto vicini alla scena. Luigi Pirandello e Carlo Goldoni,
Molière e Eduardo De Filippo. Prendiamo Molière: lui è il capocomico».
Il
testo e la possibilità che l’interpretazione lo accenda e lo faccia
vibrare facendo vibrare, insieme, la scena e gli spettatori presenti la
sera a teatro. Il teatro come assemblea. L’attore e la sua funzione. La
storia di Servillo ha alcuni passaggi fondamentali in L’uomo dal fiore
in bocca di Pirandello, Il Misantropo e Il Tartufo di Molière, La
trilogia della villeggiatura di Goldoni. E, naturalmente, Sabato,
domenica e lunedì di Eduardo. «Eduardo, per me, è il massimo connubio
fra popolo e sofisticatezza», dice con un lampo negli occhi che mi
ricorda l’eccitazione bambinesca del racconto che, forse, di qui a poco
avrebbe conosciuto Gidon Kremer.
Ci portano il caffè. Prima dei
saluti, mi chiede quanto zucchero voglio. E, a questo punto, mi viene in
mente il secondo atto di Questi fantasmi del suo - del nostro, di tutti
noi, appunto - Eduardo: “A noialtri, italiani, toglieteci tutto ma
questo poco di riposo in terrazza... Io, per esempio, a tutto rinuncerei
tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori in
terrazza, dopo quell’oretta di sonno che uno si fa dopo mangiato. Però
il caffè me lo devo fare io stesso, con le mie mani”.