domenica 13 gennaio 2019

Il Sole Domenica 13.1.19
Profili
Il volto riformatore di Togliatti
di Giuseppe Vacca


Nei tre volumi della Cambridge History of Communism, apparsi nel 2017, il capitolo dedicato al “comunismo riformatore” costituisce una significativa novità. Sopiti gli “astratti furori” che avevano accompagnato la fine del comunismo sovietico, la storiografia internazionale procede a ricostruire la storia della prima rete politica globale del XX secolo restituendoci i contesti che l'avevano generata e i modi in cui essa li aveva a sua volta rimodellati. La storia del comunismo viene quindi ripercorsa nella sua complessità e nelle sue differenziazioni e inquadrata nella storia mondiale del Novecento.
Alla categoria del “comunismo riformatore” si riallaccia Gianluca Fiocco nella sua recente biografia di Palmiro Togliatti in cui ha potuto mettere “a frutto le prospettive storiografiche emerse nell'ultimo quarto di secolo”. Grazie a una approfondita conoscenza di fonti documentarie inedite, arriva a gettare nuova luce sulla figura del dirigente comunista, collocando la sua politica nello scenario del Novecento.
La principale novità del suo libro sta nell'ampiezza e nella cura con cui ricostruisce il pensiero togliattiano, facendo della relazione con Gramsci il filo conduttore della sua opera politica e intellettuale.
Negli anni Venti, Togliatti si distinse per la percezione della rilevanza internazionale del fascismo che, fino all'avvento al potere di Hitler, veniva considerato nel Comintern un fenomeno circoscritto e marginale. Ne ricavò ben presto una visione della situazione internazionale che metteva al primo posto la difesa della pace, sfidando il dogma bolscevico della “guerra inevitabile”.
Non a caso, dunque, quando Stalin, nel '34, abbracciò la politica di sicurezza collettiva, affidò a lui, per sancire la svolta, la relazione sulla lotta contro i pericoli di guerra al VII congresso del Comintern. Nascevano così il suo prestigio e il suo eminente ruolo internazionale nella lotta al fascismo.
Al rientro in Italia, com'è noto, egli divenne un protagonista della guerra di liberazione nazionale e della nascita della Repubblica. L'opera svolta in quel triennio costituisce il suo maggior contributo alla storia d'Italia: è il Togliatti statista, “padre della Repubblica”, che puntava lucidamente alla stabilizzazione centrista della nascente democrazia italiana favorendo l'ascesa di De Gasperi. Quindi, chiarisce Fiocco, la sconfitta del Fronte popolare nel 1948 non lo disorientò poiché comunque garantiva la stabilizzazione del paese tanto nella politica interna quanto nella collocazione internazionale.
Nella “guerra di posizione” che seguì Togliatti manovrò con lungimiranza: assicurò lo sbocco parlamentare della protesta sociale, la legittimazione costituzionale del Pci e, con l'edizione degli scritti gramsciani, avviò il radicamento del partito nella cultura italiana.
Ai primi segni di “disgelo” seguiti alla morte di Stalin, diede nuovo impulso all'inserimento del movimento operaio nell'Italia cattolica promuovendo il dialogo con la Chiesa sui problemi della pace. Fiocco dedica particolare attenzione a questo tema seguendone gli sviluppi dalla costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi alla proposta di revisione del marxismo sui rapporti tra religione e modernità avanzata nel 1963.
In una ricostruzione storica di così ampio respiro, il passaggio aspro e controverso del 1956 si libera delle ricorrenti schermaglie sulle occasioni mancate e sui pentimenti successivi di alcuni suoi eredi per aver schierato il Pci a sostegno della repressione sovietica dell'insurrezione ungherese. Infatti, nota Fiocco, il XX congresso del Pcus fornì a Togliatti l'occasione per lanciare la sua visione policentrica del mondo che andava emergendo dopo la Seconda guerra mondiale. Il sostegno all'Urss si accompagnava quindi a innovazioni strategiche significative fondate sulla percezione dell'interdipendenza internazionale. Il rilancio della “via italiana” in chiave europea, la marcia di avvicinamento alla CEE, il nuovo cantiere gramsciano volto a valorizzare la dimensione internazionale del suo pensiero avviarono una stagione di crescente influenza del Pci di cui si sarebbe giovata per un ventennio la politica dei suoi eredi. Inoltre, cominciò la proiezione internazionale del comunismo italiano nei cinque continenti attraverso la costruzione di una rete sempre più fitta di relazioni anche con forze e movimenti non comunisti. I rapporti di forza a scala mondiale non giustificavano la visione dell'Urss come potenza assediata né un internazionalismo fondato sulle priorità della sua sicurezza. L'Europa divenne quindi il teatro della battaglia di Togliatti contro la stabilizzazione bipolare e la visione della coesistenza come condominio mondiale delle maggiori potenze. Non sorprende che quando Chruš?ëv nel 1960 provocò una grave rottura con la Cina di Mao, Togliatti cominciasse a essere molto pessimista sulle sorti del movimento comunista. Opponendosi alla convocazione di una conferenza internazionale che nei piani di Mosca doveva escludere la Cina dal proprio campo, egli mise in gioco tutta la sua influenza per impedirlo e al tempo stesso assunse su di sé la critica più penetrante delle posizioni cinesi contrarie alla coesistenza. Ma non si limitò a questo. Riprendendo e attualizzando la critica gramsciana del 1926 contro l'etnocentrismo sovietico, avanzò un progetto di riforma del “socialismo reale” e della politica internazionale dell'Urss che individuava nell'Europa il luogo strategico di una coesistenza cooperativa volta a superare la “logica dei blocchi”.
Concepiva la lotta al capitalismo come una sfida per l'egemonia, costruita sull'unità nella diversità di tutte le forze interessate a porre fine all'equilibrio del terrore, a rimuovere gradualmente le strutture della guerra fredda, a mutare i rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, anticipando di un quindicennio il rapporto Brandt.
La pubblicazione del Promemoria di Yalta portò a conoscenza dell'opinione pubblica mondiale una sintesi lucida e drammatica della sua riflessione sulla crisi del comunismo, di cui Fiocco ricostruisce puntualmente le scansioni nel capitolo conclusivo del suo libro. Questa bella biografia consente quindi di cogliere l'unitarietà della figura di Togliatti attraverso le fratture e i drammi del Novecento che ne segnarono la vita ed egli emerge come un politico di grande statura intellettuale che oltrepassa i confini dello stesso “comunismo riformatore” assumendo i tratti caratteristici di un riformatore italiano.
Togliatti, il realismo
della politica.
Gianluca Fiocco,
Roma Carocci editore 2018

Il Sole Domenica 13.1.19
L’Etica di Baruch Spinoza
Alla ricerca della vera felicità
Steven Nadler accompagna anche il lettore inesperto in un tour dentro un’opera ambiziosa, originale e difficile alla ricerca di un senso alle dottrine esposte
di Franco Giudice


L’Etica di Spinoza è un’opera che, per originalità e ambizione, ha pochi uguali nella storia della filosofia. Lo spettro dei temi che vi si trovano affrontati è così ampio da non escludere quasi nessuna questione di una certa importanza. Per rendersene conto, è sufficiente elencarli in rapida successione: l’esistenza e la natura di Dio, il rapporto mente-corpo nell’essere umano, la libertà e il determinismo, la verità, il finalismo, le leggi naturali, le passioni, la virtù e la felicità, i fondamenti dell’obbligo politico, lo statuto del bene e del male, l’identità personale, l’eternità e l’immortalità. Ma non è tutto. Spinoza intende addirittura mostrare quale sia il significato autentico della vita. E lo fa con estrema audacia, non preoccupandosi affatto di riservare critiche taglienti e sistematiche alle tradizionali concezioni di Dio, dell’uomo e dell’universo, e alle credenze teologiche e morali che ne discendono.
Non si può tuttavia negare che l’Etica è è anche un testo di inusuale difficoltà, in grado di scoraggiare e intimidire il lettore non specialista. Che si trova subito alle prese con un’intricata e all’apparenza impenetrabile rete di definizioni, assiomi, proposizioni, scolii e corollari. A tal punto che si ha quasi l’impressione di essersi imbattuti in un testo matematico anziché in un capolavoro filosofico, in qualcosa cioè che, a prima vista almeno, sembra più somigliare ai Principi matematici della filosofia naturale di Newton che alle Meditazioni metafisiche di Descartes.
Tutto vero. Lo è altrettanto però che, una volta superati gli scogli di questa rigorosa architettura euclidea e di un lessico un po’ arcaico, il lettore ne ricaverà grandi ricompense. Soprattutto se a guidarlo sarà Steven Nadler che, con la sua consolidata e profonda conoscenza del pensiero filosofico di Spinoza, lo aiuterà a dissipare le parti più oscure dell’Etica. E imparerà subito ad apprezzare che la struttura geometrica dell’opera – già evidente dal titolo, che recita appunto Ethica, ordine geometrico demonstrata – non è un semplice rivestimento superficiale, ma intrinseca ai suoi stessi contenuti. Tale struttura, infatti, con i suoi nessi logici e necessari, non fa altro che rispecchiare quella dei nessi causali e necessari dell’universo.
L’Etica racchiude i risultati di un meditato esercizio intellettuale intrapreso da Spinoza fin dagli anni cinquanta quando, abbandonata l’attività commerciale ereditata dal padre, aveva deciso di dedicare la propria vita alla ricerca filosofica, alla conoscenza e alla vera felicità. La gestazione dell’opera però fu lunga e travagliata. Vi cominciò a lavorare nella primavera del 1662 e nell’estate del 1665 era abbastanza soddisfatto di quanto aveva scritto da farlo circolare tra i suoi amici più fidati. Nell’autunno dello stesso anno tuttavia accantonò il progetto per scrivere il Trattato teologico-politico, che pubblicherà anonimo nel 1670, in difesa della libertà di pensiero e di espressione, sempre più minacciata dal pesante clima di intolleranza politica e religiosa creato in Olanda dalle forze reazionarie.
Spinoza riprese dunque in mano il manoscritto dell’Etica dopo il 1670, e avendolo sottoposto a un’ampia revisione agli inizi di luglio del 1675 lo considerava completo e pronto per la pubblicazione. Ma lo scandalo suscitato dalle tesi sostenute nel Trattato teologico-politico – dove i miracoli, la rivelazione e la provvidenza divina venivano declassati a meri prodotti dell’immaginazione – fu così enorme che Spinoza, accusato di essere un pericoloso ateo, per evitare ulteriori polemiche rinunciò definitivamente a pubblicare l’Etica. Il testo sarà dato alle stampe lo stesso anno della sua morte, avvenuta il 21 febbraio 1677, nelle opere postume curate dagli amici.
Nel suo libro, scritto con la chiarezza che caratterizza tutti i suoi lavori, Nadler intende offrire una «guida» a chi si accosta per la prima volta all’Etica, accompagnandolo passo passo attraverso le dottrine che vi si trovano esposte e mostrando «come se ne possa ricavare un senso». Insomma, un vero e proprio tour, che si attiene strettamente al testo e che segue «le tracce dello stesso progredire di Spinoza dalla metafisica di Dio fino alle conclusioni sulla felicità umana». Quella felicità cioè che si può ottenere soltanto con l’esercizio della ragione e della conoscenza che, liberandoci dalla schiavitù delle passioni, fa emergere la verità su Dio, sulla natura e su noi stessi, ma anche, di riflesso, sulla società, sulla religione e sulla vita. E che consiste in una profonda comprensione della natura e delle sue leggi, e di come ogni cosa si relazioni a Dio, che non è altro che natura – Deus sive Natura, «Dio o Natura», secondo la frase ormai celebre dello stesso Spinoza – ovvero l’infinita, necessariamente esistente eterna e attiva sostanza dell’universo.
Proprio come aveva ben capito il dottor Fischelson dello splendido racconto di Isaac B. Singer, Lo Spinoza di via del Mercato, il quale nel contemplare il cielo trovava un gran conforto nel pensare che «per quanto egli fosse soltanto un uomo debole e malaticcio, un aspetto mutevole della Sostanza assoluta e infinita, faceva ciò nonostante parte del cosmo, era composto della stessa materia dei corpi celesti; e poiché la Divinità lo comprendeva, non poteva essere distrutto».
La via alla felicità. L’Etica
di Spinoza nella cultura
del Seicento
Steven Nadler
Traduzione di Emilia Andri, Hoepli, Milano, pagg. 285, € 22,90

Il Sole Domenica 13.1.19
Bianchi contro neri
Quel razzismo nascosto dentro il liberalismo
di Ermanno Bencivenga


Il Critone platonico è uno dei punti più alti del discorso morale dell’Occidente. In esso Socrate, ingiustamente condannato a morte, decide che la condanna faccia il suo corso perché, fra le due opzioni che ha davanti (morire o salvarsi fuggendo), una gli consente di rimanere innocente mentre l’altra, l’evasione, significherebbe violare le leggi e macchiarsi di una colpa. La sua scelta non cessa di suscitare la nostra ammirazione, ma non avrebbe offerto alcun lume alla protagonista dell’Antigone di Sofocle, la quale non ha la possibilità di rimanere innocente: deve scegliere tra violare le leggi della città, che le impongono di lasciare insepolto il fratello Polinice, e le leggi della famiglia e dei morti, che le impongono di seppellirlo. Può fare solo l’una o l’altra cosa, e comunque faccia sbaglia; il suo è un dilemma morale, per cui il nobile comportamento di Socrate non fornisce indicazioni.
La filosofia dovrebbe portare ragionevolezza nella nostra esperienza; l’etica, in particolare, dovrebbe mettere ordine nelle nostre scelte. Ma lo studio di condizioni irreprensibili non ci dà alcuna guida se siamo situati in un mondo fallace e iniquo, che non ci offre nessuna via d’uscita onorevole. Quando Machiavelli aprì il dibattito su questo tema, mal gliene incolse: i suoi libri furono messi all’indice, lui stesso fu giudicato un consigliere diabolico e quanti lo hanno difeso, a tutt’oggi, lo hanno fatto escludendo le sue riflessioni dal campo dell’etica, che lui stava proponendo di rinnovare (with friends like this, who needs enemies?). Ma il tema resta: che fare quando l’innocenza è impossibile, quando siamo in guerra e la morale sembra sospesa, quando ci troviamo a operare in una situazione governata dall’ingiustizia?
Charles Mills, professore di filosofia afroamericano (la precisazione è importante!) alla City University of New York, pone quest’ultima domanda con forza in un libro che non dobbiamo perdere di vista fra le proposte spesso dissennate dell’industria culturale: Black Rights/White Wrongs.
Per circa mezzo secolo, la filosofia morale e politica in ambito anglofono (e non solo) è stata dominata da un testo monumentale: A Theory of Justice (1971) di John Rawls. Questo libro e i molti altri che ne hanno tratto ispirazione disegnano uno Stato ideale, «un’impresa cooperativa tesa al vantaggio comune» e caratterizzata dalla «stretta obbedienza» di ciascuno alle leggi. A chi ha fatto notare a Rawls e ai suoi seguaci che gli Stati reali (la loro «verità effettuale», avrebbe detto Machiavelli) sono tutt’altro, si è risposto che prima bisogna occuparsi di chiarire l’ideale, ciò cui tendere e che permette di valutare tutto il resto, e poi si procederà a questa valutazione e magari a una modifica.
Mills è convinto che si tratti di una manovra per evitare il problema rimandandolo alle calende greche, da parte di una professione (la filosofia accademica americana) che non potrebbe essere più bianca: i neri vi compaiono in una proporzione dell’uno per cento. Gli Stati Uniti sono un Paese razzista, costruito sullo sterminio e sull’espropriazione dei nativi americani e sulla schiavitù degli africani; queste pratiche oscene hanno accumulato nelle mani dei bianchi un patrimonio enorme, che si è perpetuato nei secoli. La ricchezza mediana di una famiglia bianca, nel 2011, era sedici volte quella di una famiglia nera e tredici volte quella di una famiglia latina (erede delle popolazioni aborigene che i bianchi avevano provveduto a eliminare nei loro territori); questa differenza spaventosa incide pesantemente sulle opportunità esistenziali, educative e lavorative dei non-bianchi. Come può una filosofia morale e politica che insiste a descrivere mondi ideali, in cui gli Stati si formano mediante un «contratto» che sancisce l’accordo di persone libere, aiutarci a rimediare un simile orrore?
Mills e altri, impazienti con le anime belle che preferiscono cambiare discorso, dichiarano la necessità di elaborare teorie «non-ideali» che rimangano più vicine alla realtà. Ma la proposta concede troppo alla controparte: un ideale è uno strumento di comprensione e di intervento; in questo caso il punto è, semplicemente, che lo strumento offerto da Rawls è quello sbagliato. Se voglio aprire una bottiglia e tu mi dai un cacciavite, non mi sarà di nessuna utilità; ma ciò non vuol dire che dovrò rivolgermi a un non-attrezzo; vuol dire che avrò bisogno di un cavatappi.
Se opero in uno Stato fondato e retto sullo sfruttamento, un modello di Stato nato e retto dall’accordo dei cittadini e dal loro pacifico rispetto di regole giuste non mi servirà a niente; avrò bisogno di confrontarmi con una procedura ideale per riparare agli abusi passati e correggere gli abusi presenti. La sublime condotta di Socrate non ha nulla da dire ad Antigone, ma l’etica di Machiavelli avrebbe potuto venirle in soccorso; un’etica e un ideale analoghi avrebbero molto da dire agli oppressi che non sanno che farsene dello Stato di Rawls.
Black Rights/White Wrongs: The Critique of Racial
Liberalism
Charles W. Mills
Oxford University Press,
pagg. xxii+281, $29,95


Repubblica 13.1.19
La confusione regna sovrana
Elias Canetti, Friedrich Nietzsche, Aristotele, Edgar Allan Poe
di Eugenio Scalfari


Qualche cosa è cambiato nella politica italiana. Per esempio Salvini ha ritenuto di dover fare un passaggio geopolitico nelle antiche regioni del Nord, quando all’epoca di Umberto Bossi non a caso il suo partito si chiamava Lega Nord. Adesso si chiama semplicemente Lega perché Salvini è riuscito ad estenderla dalle Alpi al mare, lungo tutto lo stivale italiano.
Da un certo punto di vista si direbbe addirittura che la Lega sia più forte al centrosud che in Val Padana. I risultati numerici della Lega di Salvini nei sondaggi viaggiano oltre il 30 per cento e con alcune alleanze tipo Meloni e Berlusconi supera il 40. Analoga situazione ha toccato in questi anni il partito populista di Beppe Grillo. Con il comico diventato politico una decina di anni fa i grillini non erano che populisti: volevano distruggere tutte le élite e del programma futuro si sarebbero occupati soltanto quando quella distruzione fosse stata completa. A Grillo la formula partito non piaceva ma ad alcuni dei suoi giovani amici faceva gola creare un partito, e questa fu l’impresa di Luigi Di Maio. Dal 10 Di Maio crebbe rapidamente al 20 e addirittura lo superò fino al 28-30 per cento. Rimase comunque un partito populista che probabilmente avrebbe tentato la via di un’alleanza con i democratici, ma alle elezioni del 4 marzo Matteo Renzi arrivò con uno stentato 18 per cento, e in qualche mese perse altri due o tre punti. Praticamente scomparve diventando un residuato di guerra.
Come si fosse ritirato in una grotta difesa da un filo spinato. Renzi fu ritenuto il responsabile della sconfitta, ma non era il solo colpevole. Adesso il Pd è di fatto fuori gioco e tutti gli altri sono alleati tra loro con maggiori o minori forze: hanno toccato il massimo nei sondaggi con quasi il 70 per cento degli elettori, e questa è la fotografia della situazione, la quale tuttavia sta cambiando faccia. Il motivo è evidente: tra alcuni mesi ci saranno le elezioni europee e quindi ogni partito cerca di avere connotati non solo italiani ma anche del continente del quale facciamo parte. Questo aumenta le difficoltà poiché in Europa Berlusconi ci sta a modo suo, la Meloni praticamente non ci sta per niente e la Lega di Salvini e i Cinque stelle di Di Maio ci stanno ognuno a modo proprio. Questa è la situazione che va esaminata, la quale tuttavia non può prescindere anche e forse soprattutto dalle valutazioni economiche italiane ed europee, e questo è un punto da aggiornare e approfondire.
*** La situazione economica è assai complicata in Europa ed egualmente in Italia. Da noi le aziende pubbliche o para- pubbliche che svolgono attività industriali e bancarie hanno perso tra i 4 e i 5 punti rispetto a cinque anni fa. Il lavoro in nero è alquanto aumentato, ma lo è anche la disoccupazione giovanile. Si aggiunga a tutto ciò che il sostegno della Banca centrale europea è in via di diminuzione e probabilmente sta per scomparire quando tra pochi mesi il mandato di Draghi scadrà e quindi la politica della Bce sarà guidata da un altro presidente e da una diversa politica. Le difficoltà economiche sono quindi notevoli. Non a caso si sta riformando una specie di proletariato e comunque un’attività produttiva in fase di decadenza. Lo avverte la Confindustria, lo avverte la Banca d’Italia, le Assicurazioni generali e alcuni potentati economici che fino a tre- quattro anni fa erano ancora in buona posizione e ora non lo sono più. Situazioni analoghe in alcuni casi addirittura più gravi avvengono anche in altri Paesi europei, specialmente in Germania, in Ungheria, in Portogallo e anche nell’Inghilterra della Brexit. Si direbbe che sia la società globale a creare disparità di funzioni tra un continente e l’altro, a produrre popoli vaganti e a far diminuire il benessere generale, perfino in grandi imperi a cominciare dagli Usa di Trump. La situazione economica è meno disagevole in Russia e in Cina. Insomma è più attivo l’Oriente che l’Occidente. Vedremo che cosa accadrà nelle prossime elezioni europee. Ragionando a occhio direi che dal punto di vista economico- finanziario è l’intero nostro continente e anche in parte nelle Americhe che la situazione economica zoppica e lo spostamento dei popoli accresce.
Le elezioni europee che avranno luogo nei prossimi mesi segneranno un appuntamento importante nella situazione economica e politica. Per quel che si può prevedere peggiorerà, benessere e malessere sono ampiamente diffusi. A me capita spesso di ricordare il Manifesto filoeuropeo di Ventotene ma questa volta evito perché l’Europa e le singole Nazioni che la compongono hanno imboccato e continuano a procedere su una strada che è l’esatto contrario dei valori perseguiti da Altiero Spinelli e dai suoi compagni: l’Europa è un continente privo di qualunque personalità; non parlo di personalità individuali ma di valori collettivi che in un’Europa come quella che conosciamo non esistono più: è un continente-accozzaglia dove in ciascuno dei 27 Stati che ne fanno parte ci sono partiti privi di valori e di ideali. Su una carta geografica che volesse essere il più possibile descrittiva avremmo un continente pluri- colorato o addirittura senza colore e cioè il peggio del peggio.
***
Ho riletto in questi giorni alcuni libri che conobbi molti anni fa. Contengono, ovviamente in modi diversi l’uno dall’altro, una cultura che si manifesta con una sorta di sentenze o di frasi che hanno in se problemi molto importanti ma espressi con immagini o brevi motti e parole.
Ne citerò qualcuno perché fornisce l’idea di problemi molto concreti ma manifestati con quello che Nietzsche chiamava il "Crepuscolo degli idoli". Ne cito qualcuno.
Elias Canetti: "La sua idea del comunismo è che nessuno prenda ordini da lui; ma come fa a marciare la gente se nessuno comanda e come fa ad andare avanti senza marciare?". " In un’epoca meno commerciale il successo si chiamava ancora gloria. Forse allora era più bello". "Si può vincere la propria sventura solo mettendola in gioco".
Friedrich Nietzsche: " Per vivere soli una bestia o un dio — dice Aristotele. Manca il terzo caso: bisogna essere entrambe le cose: filosofo". " L’uomo è solo uno sbaglio di Dio? O Dio è solo uno sbaglio dell’uomo?". "Vuoi andare insieme agli altri? O precederli? O andare per la tua strada? Si deve sapere che cosa si vuole e che si vuole, questa è questione di coscienza". "La formula della mia felicità: un sì, un no, una linea retta. Uno scopo". "Sei sincero? O soltanto un attore? Uno che rappresenta? O ciò stesso che è rappresentato? In definitiva sei soltanto l’imitazione di un attore".
Edgar Allan Poe: " Odi, un rintocco di campane Ferree campane!
Quale mondo di pensieri gravi evoca il loro pianto!
Nel silenzio della notte Quale tremito non mette La minaccia loro cupa?
Ogni suono che si effonde Ti rimbrotta E la gente — ah quella gente!
Che sta sopra il campanile, Sola sola.
Rintoccando rintoccando rintoccando In un solo sordo tono Un macigno a noi sul cuore Batte il tempo il tempo il tempo Con un runico concerto Al peana di campane Di campane Batte il tempo il tempo il tempo Con un runico concerto Al sussulto di campane Di campane di campane Al singulto di campane Batte il tempo il tempo il tempo Rintoccando rintoccando Il bel runico concerto Al rullare di campane Di campane di campane Al toccare di campane Di campane di campane Con un’onda tremebonda di campane!".
"Ed il Cervo non fu scosso Dal suo posto non s’è mosso Là, sul busto di Minerva Messo in sommo della porta: ad un demone sognante Il suo occhio è somigliante E la lampada tremante L’ombra sua sul pavimento Versa e il mio cuore dall’ombra Sparsa sopra il pavimento Non si leverà — mai più".
Queste citazioni, nella forma molto diversa tra loro ma nella sostanza abbastanza analoghe, potranno sembrare prive di alcun legame con i concreti problemi politici ed economici trattati in precedenza. E infatti non lo hanno ma aprono a modo loro un ambito che indica la complessità della vita, soprattutto quando la vita non si mescola a problemi concreti e pratici ma semplicemente all’Arte. L’Arte è un elemento fondamentale della vita e quindi non va trascurato.

Corriere La Lettura 13.1.19
Rosa, la terza via assassinata
di Giovanni Bernardini


Il 15 gennaio 1919 Rosa Luxemburg fu assassinata a Berlino in circostanze ancora parzialmente oscure, nelle fasi conclusive dell’insurrezione comunista soffocata nel sangue da un’effimera quanto efficace coalizione tra forze socialdemocratiche e reazionarie. La sua fine tragica ha privato la sinistra europea di una voce originale e autorevole ma ne ha fatto un simbolo che ha conosciuto stagioni alterne, pur di immutato interesse. Cent’anni dopo ricostruiamo un profilo della Luxemburg e della sua eredità politica grazie a Stefan Berger, direttore dell’Istituto per i movimenti sociali dell’Università di Bochum e presidente della German Labour History Association.
Ebrea, attivista quando le donne non erano ammesse al voto, polacca di origine ma animata da un forte antinazionalismo nell’epoca dell’«autodeterminazione nazionale». Rosa Luxemburg merita la fama di cui gode o si tratta di una costruzione postuma?
«Rosa Luxemburg è stata straordinaria tanto sul piano politico quanto su quello umano. Fare carriera nella socialdemocrazia (Spd) prima della Grande guerra era molto difficile per una donna, per una polacca e per chiunque fosse così critico nei confronti di ogni nazionalismo. Fu una pensatrice politica del più alto livello, i suoi scritti sono ancora oggi una delizia intellettuale. La sua critica del revisionismo socialista e dell’“attendismo rivoluzionario” fu assolutamente puntuale. Quanto alla sua impressionante personalità, l’eccellente film di Margarethe von Trotta le rende il giusto tributo».
Luxemburg e Lenin condividevano molto (l’opposizione alla guerra e al riformismo, la proiezione internazionale) ma li divideva il progetto bolscevico di un partito rivoluzionario d’élite, che Rosa rifiutava. Qual era l’opinione di Luxemburg sulla rivoluzione d’Ottobre? Sperava che si estendesse su scala mondiale?
«Luxemburg accolse la duplice rivoluzione del 1917 con indubbio entusiasmo e con la speranza che il socialismo rivoluzionario trionfasse in Russia. Ma le sue critiche a Lenin e ai bolscevichi erano decisamente fondate, come avrebbero dimostrato gli eventi successivi. La sua fiducia nell’azione del popolo in lotta per la propria emancipazione non era compatibile con la teoria leninista del partito come avanguardia del proletariato».
L’insurrezione di Berlino nel gennaio 1919, la repressione, l’assassinio di Luxemburg e Karl Liebknecht. Quale narrazione di questi eventi ha prodotto la storiografia più recente? Ci sono nuove rivelazioni?
«Per quanto sia impossibile rispondere in poche righe, certamente la lettura della rivoluzione tedesca del 1918-19 è stata condizionata a lungo dalle diverse interpretazioni politiche. La storiografia comunista ha insistito sul tradimento della rivoluzione da parte dei socialdemocratici, sulla loro alleanza con parte dell’élite imperiale, e ha celebrato il tentativo eroico del giovane Partito comunista di seguire le orme bolsceviche spingendo la rivoluzione verso il socialismo. Al contrario, la storiografia conservatrice ha insistito sul pericolo che la Germania precipitasse nel baratro della dittatura comunista, scongiurata soltanto dall’alleanza patriottica che spaziava dai socialdemocratici a una parte della vecchia élite. Se la prima è stata parte integrante della politica della memoria nella Repubblica democratica tedesca (Ddr) fino alla sua scomparsa, essa ha ormai ben pochi seguaci. L’interpretazione conservatrice invece fu contestata nella Repubblica federale già negli anni Sessanta e Settanta, quando una serie di pubblicisti come Sebastian Haffner e di storici come Eberhard Kolb e Peter von Oertzen hanno sostenuto che una “terza via” fosse praticabile. Detto altrimenti, la saldatura tra socialdemocratici ed elementi reazionari non sarebbe stata necessaria se i primi si fossero appoggiati maggiormente sui consigli rivoluzionari degli operai e dei soldati. Quest’interpretazione revisionista sostiene che la minaccia comunista, particolarmente temuta dai socialdemocratici di destra come Friedrich Ebert (che, come è noto, non voleva diventare “il Kerensky tedesco”), fosse in realtà ben poco reale, dato lo scarso seguito dei comunisti presso la classe operaia tedesca. I dibattiti più recenti si sono concentrati piuttosto sul pesante lascito di violenza politica che la Repubblica di Weimar ereditò da quella fase. Una tendenza ben rappresentata dal libro di Mark Jones Founding Weimar, pubblicato nel 2016».
Di recente si è riparlato di una responsabilità diretta dei vertici socialdemocratici nell’assassinio di Rosa Luxemburg. È un’accusa fondata?
«La “Frankfurter Allgemeine Zeitung” ha rilanciato le vecchie “rivelazioni” di Waldemar Pabst, all’epoca ufficiale delle forze armate imperiali, secondo il quale la leadership maggioritaria della Spd attorno a Ebert avrebbe chiesto l’uccisione di Luxemburg. Non ritengo che le sue affermazioni meritino credito: Pabst militava nell’estrema destra durante Weimar e aveva ottime ragioni per distogliere l’attenzione dalle sue responsabilità dirette per gli assassinii. Indubbiamente la maggioranza socialdemocratica non versò copiose lacrime per l’uccisione di Luxemburg e Liebknecht ma dubito fortemente che abbia dato l’ordine esplicitamente. È invece indubbia la contrarietà di Rosa Luxemburg, cofondatrice del Partito comunista, all’insurrezione di Berlino, che considerava velleitaria e condannata al fallimento. Luxemburg aveva passato buona parte del 1918 in prigione, con ben poco tempo per preparare la rivoluzione. La sua uccisione privò la sinistra tedesca di una delle voci politiche più interessanti».
Quattro giorni più tardi, le elezioni per l’Assemblea nazionale inauguravano la Repubblica di Weimar. Quale ombra proiettò la figura di Rosa Luxemburg sulla sinistra tedesca di quegli anni?
«L’uccisione di Luxemburg e Liebknecht, così come la diffusa violenza politica durante la rivoluzione tedesca, proiettarono un’ombra lunga sulla storia della sinistra tedesca. Come ha ben illustrato Klaus-Michael Mallmann, laddove le violenze furono maggiori durante la rivoluzione, comunisti e socialisti non furono in grado di ricomporre la frattura aperta all’inizio del 1919. Dove invece la violenza fu contenuta, una politica frontista fu più facile da forgiare nella Germania di quegli anni».
Che genere di simbolo è divenuta Luxemburg nella storia politica e culturale dei due Stati tedeschi dopo il 1949? Fu «adottata» dalla Ddr come precorritrice? E che opinione ne avevano i movimenti radicali del 1968 e più in generale gli intellettuali dell’Ovest?
«Per certi versi Rosa Luxemburg fu vittima della Guerra fredda. Fu usata e abusata dalla dittatura tedesca orientale, che lei avrebbe ridicolizzato e criticato aspramente. Non a caso anche i dissidenti di sinistra nella Ddr adottarono Luxemburg come arma contro la sclerotizzata leadership di Berlino Est negli anni Ottanta. Nel clima conservatore e anticomunista della Germania occidentale degli anni Cinquanta, Luxemburg fu persona non grata in quanto fondatrice del Partito comunista. Fu però riscoperta dalla nuova sinistra e dalla generazione del 1968, e lo stesso fecero i movimenti femministi dal decennio successivo. Da questi fu elevata a simbolo di una terza via al socialismo tra il comunismo burocratizzato e il riformismo socialdemocratico. Questa è anche la ragione per cui la Linke (il partito a sinistra della Spd oggi in Germania, ndr) l’ha arruolata nel suo Pantheon e ha persino dato il suo nome alla propria fondazione politico-culturale. Per contrasto, la Spd mostra sempre meno interesse per la storia e la recente abolizione della sua “commissione storica” è l’ultimo segnale che un partito un tempo orgoglioso della propria tradizione non ha più interesse per il passato. Lo dico, con grande tristezza, da membro della Spd».
E oggi? Il centenario della morte di Rosa Luxemburg troverà posto nella vita culturale tedesca?
«Credo di sì. La storia ha ancora un posto di rilievo tra le pagine della stampa tedesca, alla radio e in tv. I principali media ricorderanno l’insurrezione di gennaio e l’assassinio di Luxemburg. I ritratti che la vogliono come una strega comunista che ha avuto ciò che si meritava saranno probabilmente confinati all’AfD e all’estrema destra. I media mainstream riconosceranno l’importante eredità di Luxemburg per la sinistra del XX e del XXI secolo. La rivoluzione del 1918-19 mirava alla democrazia socialista ma socialismo e democrazia hanno mostrato ostinatamente di trovare difficoltà a coesistere. Una coesistenza, però, che era il cuore della visione politica di Luxemburg. Questo ne fa una pensatrice così rilevante».

Corriere La Lettura 13.1.19
1000 Il timore per la fine del mondo arrivò più tardi
Il millenarismo dilagò ma solo nel XIII secolo
di Paolo Grieco


La «grande paura dell’anno Mille» non è mai esistita. L’idea che le popolazioni europee aspettassero terrorizzate la fine del mondo, secondo una profezia contenuta nell’Apocalisse, è infatti di una delle molte leggende prive di fondamento accolte da una certa storiografia illuminista e post-illuminista al fine di diffondere la falsa immagine di un’epoca medievale primitiva e superstiziosa.
Nessun testo scritto a cavallo fra X e XI secolo, infatti, parla di folle terrorizzate dall’incombere del nuovo millennio e l’unica notizia in questo senso è contenuta in una cronaca tedesca del Cinquecento, scritta dunque oltre mezzo millennio dopo i presunti fatti. Un piccolo gruppo di intellettuali si interessò forse del problema, a livello puramente speculativo, ma la maggior parte delle persone lo ignorò completamente. All’epoca, infatti, soltanto pochi dotti utilizzavano il nostro sistema di datazione, che muove dalla nascita di Cristo. Quasi tutti, invece, seguendo l’antico uso romano, facevano riferimento al nome del governante in carica: in Italia e in Germania, ad esempio, per la popolazione il Mille era semplicemente il diciassettesimo anno di regno di Ottone III, una cifra che non sottintendeva alcun particolare significato apocalittico.
La vera epoca del «millenarismo» medievale fu invece il XIII secolo, quando i frati francescani, sulla base delle opere del monaco e mistico calabrese Gioacchino da Fiore, cominciarono a preconizzare un’imminente fine del mondo, preparata dall’apostolato di san Francesco stesso. Queste teorie non rimasero confinate a un ristretto gruppo di letterati, dato che i francescani erano predicatori e annunciavano le loro idee nelle piazze e nelle chiese. Per la popolazione, che udiva tali prediche, era facile trovare negli eventi reali la conferma all’idea di una prossima fine dei tempi. La minaccia di un’invasione mongola dell’Europa nel 1241, l’ondata di maltempo e carestie causata dall’eruzione del vulcano indonesiano Samalas nel 1257-59, la conquista islamica definitiva della Terrasanta ad opera dei Mamelucchi nel 1291 diventarono altrettante occasioni per annunciare l’imminente fine del mondo. Il basso Medioevo rielaborò così l’idea della minaccia (o della necessità) di un’incombente palingenesi dell’umanità e la trasmise all’età moderna e a quella contemporanea.

Corriere La Lettura 13.1.19
1789 La rivoluzione dell’eguaglianza davanti alla legge
Splendida e imperfetta
l’aurora dei diritti umani
di Vittorio Criscuolo

Con il 1789 si aprì un’epoca nuova. Nulla fu più come prima: la politica, l’economia, la società, la guerra, la religione assunsero allora la dimensione con la quale ancora ci confrontiamo. Tuttavia nel nostro tempo, nel quale la memoria storica, individuale e collettiva, tende ad accorciarsi, le origini dell’età contemporanea sono ricondotte sempre più alla Prima guerra mondiale, mentre il 1789, nella stessa Francia, è ricacciato in un mondo lontano. È un impoverimento non solo della prospettiva storica, ma proprio della coscienza civile.
In un’età in cui domina la più cinica Realpolitik, si può ignorare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, che esprime tutto lo spirito di quell’anno straordinario? Colpisce intanto l’afflato universale di quel testo, che non mira tanto ad una riforma della Francia quanto alla rigenerazione dell’intera umanità. L’impianto è individualistico: la dichiarazione considera gli individui isolati, uno per uno, ciascuno titolare, per il solo fatto di essere nato, di diritti che lo Stato deve garantire. Certo il diritto naturale, essendo fuori del tempo e della storia, non ha modo di farsi valere rispetto al diritto positivo, ma rappresenta un metro di paragone per valutare in che misura le leggi rispettano i diritti degli individui: un criterio del quale oggi non si può fare a meno.
L’individualismo della dichiarazione fu criticato da Karl Marx: i diritti tutelati erano quelli della borghesia, la quale dietro l’eguaglianza formale si garantiva il proprio predominio di classe. Oggi questi rilievi appaiono lontani dalla nostra sensibilità.
La successiva dichiarazione del 24 giugno 1793, nella quale al primo posto fra i diritti c’è l’eguaglianza, ci ricorda che la democrazia è fragile in una realtà caratterizzata da profonde sperequazioni economico-sociali. Ma non è il caso di contrapporre i due testi.
Pur imperfetta (non prevede la libertà di coscienza e di culto), la dichiarazione del 1789, che Hegel definì «una splendida aurora», è un riferimento ineludibile per il pensiero liberale. Come osservò Alexis de Tocqueville, l’inizio della rivoluzione era stato un tempo di «giovanile entusiasmo», di «passioni generose e sincere»; per questo il suo ricordo era destinato a turbare a lungo «i sonni di coloro che gli uomini vogliono asservire o corrompere».

Corriere La Lettura 13.1.19
1848 Moti repressi ma fecondi, nasce la nuova politica
I popoli sulle barricate
E l’Europa voltò pagina
di Fulvio Cammarano


Nel momento in cui il linguaggio si appropria di un termine mantenendolo in vita per quasi due secoli, significa che quella parola ha scavato nel profondo dell’immaginario collettivo. In questo senso poche date possono reggere il confronto con il 1848. Quando si dice «succede un 48», tutti sanno che si parla di grandi sconvolgimenti, come quelli che in effetti attraversarono l’Europa tra il 1848 e il 1849. È stato definito l’annus mirabilis, perché gli eventi di quel breve lasso di tempo non furono una delle tante fiammate insurrezionali avvenute in Europa dopo la Rivoluzione francese, ma un vero incendio, la cui intensità modificò radicalmente i connotati politico-sociali del vecchio continente. Nonostante la sconfitta dei movimenti popolari repressi con la forza, infatti, mai come allora l’intero assetto politico e culturale dell’Ancien Régime parve precario e destinato a scomparire.
La sbalorditiva vastità di insurrezioni, barricate, terremoti istituzionali — che in un baleno si diffusero in tutto il continente, fatta eccezione per Belgio e Gran Bretagna — stavano inequivocabilmente a indicare che l’insoddisfazione delle élite per gli esiti della Restaurazione, manifestatasi nei moti degli anni Venti e Trenta, si era trasformata in un concreto movimento politico di massa, che aveva finito per avvicinare strati sociali diversi, uniti dalla comune esigenza di scardinare le basi economiche, politiche e sociali dell’antico regime.
Il ritorno all’ordine del 1849 non solo non mise fine a quella esigenza, ma le diede una maggiore coscienza politica che venne ulteriormente maturando nelle carceri, negli esili e nelle emarginazioni degli sconfitti. Le differenti priorità delle lotte nei Paesi coinvolti non facevano certo velo all’obiettivo comune: la legittimazione politica delle classi dirigenti, una questione che trovò nella domanda della Costituzione una parola d’ordine semplice quanto dirompente.
In quell’anno rivoluzionario per eccellenza, liberalismo e democrazia cominciarono dunque a proporsi come culture di governo, mentre il Manifesto di Marx ed Engels evocava il fantasma del comunismo aleggiante sulle barricate parigine. Si stava facendo strada la consapevolezza che, come scrisse allora Tocqueville, «il campo del possibile è ben più vasto di quanto immaginano gli uomini che vivono in ogni società».

Corriere La Lettura 13.1.19
1929 Il crollo è stato ben studiato. Provvidenzialmente
La lezione di Wall Street preziosa per il nostro 2008
di Danilo Taino


Il 1929? Troppo recente per darne un giudizio, si potrebbe dire prendendo a modello ciò che — pare — disse Zhou Enlai della Rivoluzione francese. Ancora oggi, novant’anni dopo, non c’è infatti un’opinione condivisa sul crollo di Wall Street più famoso della storia e soprattutto sulle sue conseguenze, su ciò che accadde dopo, la Grande Depressione. La crisi finanziaria del 2008, però, qualche saggezza rilevante, se non definitiva, sull’ottobre 1929 l’ha stimolata.
Il 24 di quel mese, un giovedì, la Borsa di New York iniziò a cadere e il massimo del crollo fu toccato i successivi lunedì e soprattutto martedì, il famoso Black Tuesday, quando il collasso fu totale. Delle cause si continua discutere: se si sia trattato di un errore della Federal Reserve che negli Anni Venti tenne una politica monetaria così espansiva da creare una grande bolla oppure se si trattò di una correzione di mercato in sé grave ma non necessariamente devastante. Quello che il 2008 rivela, però, sta nella risposta che allo scoppio della crisi la banca centrale americana diede. Nel 1929, la Fed non agì da prestatore di ultima istanza: Milton Friedman e Anne Schwarz dimostrarono che, in sostanza, stette a guardare, non immise liquidità sufficiente nel sistema, con la conseguenza che negli anni successivi l’intreccio tra crollo dell’economia e banche che cadevano come mosche (da 25 mila a un certo punto gli istituti di credito scesero a meno della metà) prese possesso dell’economia e creò anni di Depressione (durante la quale gli errori della Fed continuarono).
C’è chi ha contestato questa lettura. L’azione delle banche centrali dopo il crollo della Lehman Brothers nel 2008 indica però che una crisi finanziaria potenzialmente grave come quella del 1929 non è diventata una Grande Depressione come quella degli Anni Trenta innanzitutto perché le banche centrali più importanti non hanno ripetuto gli errori di allora: hanno dato liquidità alle economie e hanno evitato fallimenti bancari. L’importanza oggi del «martedì nero di Wall Street» sta proprio in questo: l’averlo studiato ha consentito alle banche centrali — la Fed ma anche la Bce a Francoforte, la Banca d’Inghilterra, la Banca del Giappone — di non rifare gli stessi errori. Il 1929 è giovane, ha meno di un secolo, ma qualcosa ci ha già aiutato a capire.

Corriere La Lettura 13.1.19
Pregiudizi Da Proudhon in poi l’odio contro gli ebrei si manifesta anche nel campo progressista, oggi soprattutto nei gruppi terzomondisti. Parla lo storico di Michel Dreyfus
Derive antisemite nella sinistra radicale
di Alessandra Tarquini


Direttore di ricerca emerito al Cnrs, lo storico francese Michel Dreyfus si è occupato del socialismo e del movimento sindacale. Il suo saggio L’antisemitismo a sinistra è uscito in Italia nel 2018 presso l’editore Free Ebrei.
Come mai il suo libro si intitola «L’antisemitismo a sinistra» e non «L’antisemitismo di sinistra»?
«Perché l’antisemitismo specifico della sinistra, nel senso più ampio del termine, è stato un fenomeno decisamente raro. In effetti, nella sua storia, la sinistra ha più spesso ripreso stereotipi sviluppati dalla destra e dall’estrema destra. Ho distinto nel corso degli ultimi due secoli cinque forme di antisemitismo: economico, razzista, complottista, revisionista e negazionista e, infine, antisionista nei confronti dello Stato di Israele».
Quali sono le origini teoriche e culturali dell’antisemitismo di sinistra?
«Come sappiamo, fin dal Medioevo gli ebrei sono stati identificati con l’usura dalla maggioranza della popolazione cristiana. All’inizio del XIX secolo, i socialisti utopisti li associano al nascente capitalismo attraverso un nome, quello dei Rothschild. Proudhon e Toussenel costruiscono un’immagine assimilando l’ebreo al mondo delle imprese e lo rendono un profittatore: hanno una grande responsabilità nella costruzione dell’antisemitismo di matrice economica. Invece Saint-Simon e i suoi seguaci non fanno commenti antisemiti. Inoltre, il pensiero marxista sin dalle origini ha non poche difficoltà con il concetto di religione, perché non include le categorie della lotta di classe: questo imbarazzo lo fa sottovalutare, o addirittura ignorare, la tradizione antisemita cristiana che permea la società. Allora l’antisemitismo conosce in Francia un secondo periodo, dal 1880 alla vigilia della Prima guerra mondiale. In un contesto di crisi economica e di ascesa del nazionalismo, razzista e xenofobo, le idee antisemite sono propagate dalla destra cattolica e dall’estrema destra. Idee che influenzano gran parte del socialismo di sinistra, anarchico e sindacalista, che si sta organizzando. Solo durante l’affare Dreyfus (1894-1906) e attraverso l’azione dei militanti, il più noto dei quali è Jean Jaurès, la sinistra capisce che deve rompere completamente con gli antisemiti. Dopo la Grande guerra e gli anni Venti, che rappresentano la “bassa marea” dell’antisemitismo, la violenza antiebraica torna nel decennio successivo, soprattutto a causa della crisi economica. Questo antisemitismo si basa su una tematica ancora diversa, quella secondo cui gli ebrei cospirano per dominare il mondo, come “dimostrano” i Protocolli dei Savi di Sion, un libro delirante uscito nel 1903, scritto dalla polizia segreta russa per dimostrare l’esistenza di un complotto ebraico ai danni dell’umanità. In quegli anni fra l’altro la violenza antisemita si esercita a sinistra contro il primo ministro Léon Blum, accusato nel Partito socialista di voler fare la guerra ai tedeschi perché Hitler perseguita gli ebrei come lui: anche a sinistra c’è chi pensa che gli ebrei vogliono dominare il pianeta e causare una nuova guerra mondiale».
Pensa che l’antisemitismo a sinistra sia una specificità francese o un fenomeno europeo?
«Rispondere è difficile oggi. L’antisemitismo a sinistra è stato oggetto ed è oggetto di numerosi studi in Italia, ma la ricerca deve ancora essere condotta nella maggior parte dei Paesi europei. In Belgio, alla fine del XIX secolo, il socialista Edmond Picard fece violente osservazioni antisemite; ma non so quale sia stata la sua influenza nel Partito dei lavoratori belga. In Germania, Rosa Luxemburg, Wilhelm Liebknecht e altri socialisti credevano che la sinistra non dovesse difendere Dreyfus, un borghese e un militare, mentre i socialisti francesi finiscono per abbandonare questa posizione. E che dire di Austria e Gran Bretagna? Certamente la questione provoca discussioni all’interno della Seconda Internazionale sin dal suo inizio».
La creazione dello Stato di Israele nel 1948 introduce un nuovo elemento. Come ha cambiato la diffusione dell’antisemitismo a sinistra?
«Il sionismo ebbe un inizio difficile in Francia e poi acquistò influenza e diffusione dalla Dichiarazione Balfour (1917), con la quale il ministro britannico manifestò la disponibilità del governo a considerare la Palestina come un focolare nazionale per gli ebrei. Da allora, la sinistra francese si è divisa tra i socialisti, sempre più numerosi, che sostengono il sionismo, e i comunisti e l’estrema sinistra, che lo criticano; la spaccatura tra queste due correnti continua e aumenta dopo il 1948, anche se le critiche a Israele espresse dai comunisti e dall’estrema sinistra non possono essere definite antisemitiche, nonostante le polemiche suscitate».
Quali sono le caratteristiche della riflessione della sinistra radicale?
«Sicuramente dagli anni Ottanta a sinistra, e in particolare nella sinistra radicale — l’estrema sinistra trotskista e anarchica —, sono aumentate le tensioni rispetto alla questione ebraica e all’antisemitismo: una manciata di attivisti di estrema destra, attivi sin dagli anni Sessanta, ha dato vita a una nuova forma di antisemitismo che infetta e si estende anche a una piccola parte dell’estrema sinistra. Alcuni negano il genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale e associano tale negazione a una sfida totalmente antisemita all’esistenza dello Stato di Israele. E infine esiste una sesta forma di antisemitismo che sembra apparire oggi fra la sinistra più radicale, sempre meno vigile e all’interno della quale si moltiplicano gli slittamenti antisemiti. Questa corrente esprime un approccio critico e sommario al colonialismo: si tratta di una strana miscela di vittimismo e razzismo che ha una certa influenza in alcuni ambienti intellettuali».
Qual è la differenza fra l’antisemitismo di destra e quello di sinistra?
«La differenza principale non è nei contenuti, ma nell’influenza all’interno della società francese. L’antisemitismo esisteva a sinistra, anche se la maggior parte delle volte riprendeva, con mezzi molto più deboli, temi nati a destra. Facciamo un esempio: l’influenza dei socialisti utopistici era molto limitata. Anche durante il caso Dreyfus, il quotidiano cattolico “La Croix”, che si proclama “il giornale più antiebraico di Francia”, tira 500 mila copie, mentre la stampa repubblicana di sinistra e socialista raggiunge a fatica le 250 mila. La differenza di mezzi è chiara anche negli anni Trenta: molti giornali di destra e di estrema destra sono letti da centinaia di migliaia di persone e sono diffusi dalle numerose pubblicazioni di gruppi specializzati nell’antisemitismo. Certo, può capitare che l’antisemitismo di sinistra conosca un pubblico molto più vasto quando viene ripreso dall’estrema destra, come è accaduto con il revisionismo e il negazionismo, che prima di essere resi popolari da Jean-Marie Le Pen hanno toccato solo cerchie marginali. In ogni caso, venga da sinistra o da destra, l’antisemitismo va combattuto con la stessa fermezza».

Corriere La Lettura 13.1.19
+1% di migranti
secondo la rivista «Lancet» equivale a...
+2% di ricchezza
di Giuseppe Remuzzi


Che gruppi di individui o interi popoli decidano di lasciare le loro terre e migrare altrove non è certo una novità; tutti noi siamo figli di migranti e la nostra «identità nazionale» è di fatto «identità» di gente che ha lasciato le proprie terre per via del clima divenuto sfavorevole oppure per conflitti. Oggi però questo fenomeno è particolarmente sentito, con prese di posizione anche molto forti da parte di chi ha responsabilità di governo in diverse regioni del mondo — dagli Stati Uniti all’Europa all’Australia. C’è chi vorrebbe limitarla, l’immigrazione, o impedirla del tutto con due grandi argomenti, usati probabilmente anche in buona fede: «I migranti ci costano; non solo, ma gravano sul bilancio dei nostri sistemi sanitari». E ancora: «I migranti diffondono malattie».
È davvero così? Il «Lancet» — la più grande rivista di medicina dell’Europa — ha voluto vederci chiaro e ha lanciato un’iniziativa molto speciale: l’hanno chiamata Commission on Migration and Health, si trattava di individuare venti esperti fra sociologi, economisti, studiosi di salute pubblica e di diritto internazionale, umanisti e antropologi da almeno 13 Paesi diversi — che poi si sarebbero incontrati in varie occasioni — con l’obiettivo di studiare questo problema in ogni possibile dettaglio e arrivare a un documento condiviso che potesse eventualmente essere utilizzato da chi ha responsabilità di governo per orientare le proprie scelte.
Il risultato di questo lavoro è un rapporto di quasi 50 pagine, pieno di tabelle, figure, numeri che è appena stato pubblicato online (ma presto avremo anche la versione cartacea ancora più completa) con una quantità impressionante di informazioni. È di fatto il più grande sforzo che sia mai stato concepito per valutare gli effetti delle migrazioni sull’economia e sulla salute di chi ospita gente costretta a lasciare il proprio Paese.
Un dato per cominciare: le persone che nel 2018 hanno deciso di muoversi o che lo stanno facendo sono un miliardo, e la maggior parte di loro se ne va da Paesi poverissimi per raggiungere regioni un po’ meno povere o appena un po’ più sicure. I «migranti internazionali» — quelli di cui di questi tempi tutti parlano — sono stati invece 258 milioni, non molto di più di quanto è sempre successo da trent’anni a questa parte. Sull’intera popolazione mondiale i «migranti internazionali» rappresentavano il 2,9% nel 1990 e sono stati il 3,4% nel 2017. Di questi il 65% migra per trovare lavoro, mentre i richiedenti asilo sono relativamente pochi, non solo; i dati del «Lancet» indicano che il numero globale di rifugiati dal 1990 al 2011 è diminuito e che i migranti che si muovono all’interno di uno stesso Paese per via di siccità o di guerre sono comunque molti di più dei rifugiati o richiedenti asilo (coloro appunto che vengono considerati «migranti internazionali»). È vero che i Paesi industrializzati hanno avuto più «migranti internazionali» degli altri ma sono soprattutto studenti e lavoratori ed è ormai stabilito da diversi studi — e la “Lancet Commission” lo conferma — che questi ultimi contribuiscono alla crescita economica dei Paesi verso cui migrano. Chi ha più «migranti internazionali» è l’Asia (80 milioni) seguita dall’Europa (78 milioni) e dal Nord America (58 milioni).
In generale, e nonostante in questi calcoli siano compresi anche i rifugiati, lo studio del «Lancet» dimostra che ciascun aumento dell’1% nella popolazione adulta di migranti in una certa area geografica aumenta il Prodotto interno lordo (Pil) di quella regione del 2%. Per quanto il dibattito sia tuttora molto vivace, i più sono convinti del fatto che i migranti ricevano di più in contributi assistenziali di quanto non contribuiscano con le tasse all’economia di chi li ospita, ma l’analisi di tutti i dati disponibili lascia pochi dubbi: restituiscono più di quanto prendono, e migliorano il mercato del lavoro anche per gli altri. Non solo: i migranti contribuiscono al benessere globale in modo determinante, solo nel 2017 hanno spedito alle loro famiglie 613 miliardi di dollari che è molto di più — tre volte tanto a essere precisi — di quanto tutti i Paesi industrializzati messi insieme fanno nell’ambito della cooperazione internazionale a favore dei Paesi poveri. Per esempio in Nepal e Liberia, tanto per fare due esempi, un terzo del Pil viene da quanto mandano i migranti ai loro cari e questo ha avuto un impatto estremamente favorevole sulla qualità di vita di quei due Paesi.
Sul fatto invece che le cure ai migranti sottraggano risorse ai servizi di salute dei Paesi che li ospitano nessuno pare avere dubbi, ma nemmeno questo è sostenuto dai dati della letteratura. Invero i migranti rappresentano una risorsa importante per qualunque sistema sanitario del mondo occidentale, si pensi anche solo all’assistenza agli ultraottantenni fragili e non autosufficienti. Ma c’è di più, i migranti sono parte integrante dello staff di molti ospedali a vario titolo, ed è così da anni almeno per i servizi più umili — le pulizie, per esempio, e lo smaltimento dei rifiuti — ma lo è sempre più anche nelle funzioni apicali (basti pensare che nel Regno Unito il 37% dei medici non ha una laurea inglese, si sono laureati nell’Europa dell’Est, in India, in Africa o nel Sud-Est dell’Asia). Non solo: un nuovo studio condotto su 15,2 milioni di persone provenienti da 92 Paesi ha dimostrato che i migranti muoiono di meno di malattie cardiovascolari, digestive, respiratorie, nervose, mentali della popolazione generale; muoiono meno anche di tumori e — cosa davvero sorprendente — muoiono meno degli altri anche di eventi traumatici. Per le malattie del sangue e per quelle muscolo-scheletriche non ci sono differenze fra migranti e non, mentre di epatiti virali, tubercolosi e Hiv si ammalano e muoiono di più i migranti. Nonostante ciò, il rischio che i richiedenti asilo trasmettano queste malattie ai residenti è molto basso (niente a che vedere, per intenderci, con le terribili epidemie che gli europei hanno portato in America ai tempi della colonizzazione) e i dati disponibili dimostrano che la trasmissione è soprattutto da migrante a migrante e vale anche per la tubercolosi, incluse le forme resistenti.
Insomma: l’idea che i migranti portino infezioni non è sostenuta dalle evidenze disponibili in letteratura.
Pochi invece sembrano preoccuparsi del fatto che batteri e virus oggi viaggiano soprattutto in aereo e che le infezioni che importiamo dall’estero vengono dai viaggi intercontinentali, dal turismo di massa e dalle attività commerciali più che dai migranti. È da quei rischi che i sistemi sanitari di tutto il mondo devono imparare a difendersi e farlo per tempo, ma pensare di essere protetti perché si nega l’accesso a chi richiede asilo sarebbe un errore.
«Ma i migranti hanno tanti figli e questo potrebbe mettere a rischio i bambini degli altri — penserà qualcuno di voi — o non è vero nemmeno questo?».
Vediamo.
I dati finora disponibili dimostrano che quanto a fertilità i migranti acquisiscono le caratteristiche dei residenti (meno di 2,1 nascite per donna per chi è migrato in Francia, Germania, Spagna, Svizzera, Svezia e Regno Unito) e qualche volta hanno addirittura meno figli di chi li ospita e la tendenza è a diminuire ancora, con l’unica eccezione delle donne che vengono dalla Turchia; e non basta, i migranti interni — dell’India e dell’Etiopia per esempio — ricorrono più spesso a misure di contraccezione degli indigeni.
Non è detto che questo si applichi ai migranti clandestini e a quelli di cui non c’è documentazione; per loro non ci sono evidentemente abbastanza dati per fare analisi statistiche accurate. Nonostante tutto, però — scrive il «Lancet» —, la paura che i migranti o i loro bambini portino malattie e possano rappresentare fonte di contagio per i residenti ha favorito quasi dappertutto il diffondersi di misure restrittive che rasentano la detenzione. Questo non solo non ci protegge ma paradossalmente aumenta il rischio di contagio per loro e per noi.
La Commissione del «Lancet» su questo punto prende una posizione molto chiara: «Sono le condizioni igieniche precarie che rendono vulnerabili i richiedenti asilo, bisogna esserne consapevoli e sviluppare politiche che tengano conto delle conoscenze scientifiche e della complessità dei problemi». Non si dovrebbero mai improvvisare soluzioni sull’onda delle emozioni.
A questo punto il «Lancet» ha chiesto ai più illustri membri della Commissione di provare a interpretare le diverse realtà locali alla luce dei dati raccolti in questi tre anni di lavoro. Secondo Ibrahim Abubakar, che lavora a Londra, i migranti sono più sani degli inglesi, contribuiscono in modo sostanziale al funzionamento del servizio sanitario e all’economia del Paese «ma questo — scrive Abubakar — i politici non lo riconoscono, creano un ambiente ostile verso i rifugiati, negano loro le cure e questo ha un effetto negativo anche sui servizi che il Regno Unito potrebbe offrire ai suoi cittadini». Terry McGovern, che è professore di Salute pubblica alla Columbia University di New York, sostiene che i migranti sono parte essenziale della stabilità sociale e del benessere degli Stati Uniti. E aggiunge: «Deportarli o metterli in carcere li condanna a contrarre malattie che non avrebbero, ci sono almeno 38 studi che lo dimostrano e che enfatizzano le gravi conseguenze di queste scelte anche sulla salute mentale, messa a dura prova anche dal fatto di separare i bambini dai genitori». E Bernadette Kumar dell’Istituto norvegese di Salute pubblica aggiunge che nel Nord Europa le discriminazioni etniche hanno un effetto negativo sulla coesione sociale e rallentano il progresso. Il commento più interessante è forse quello di Nyovani Madise dell’Istituto africano per le politiche di sviluppo (lui lavora in Kenya ed è uno dei membri più influenti della Commissione): «Gli africani sono in generale molto mobili — dice —. I dati della “Lancet Commission” dimostrano che i migranti all’interno dell’Africa contribuiscono all’economia delle regioni verso cui migrano. Ma non solo, restituiscono soldi alle regioni da cui provengono, e questo aiuta il continente intero. E che dire dei dati che dimostrano come i migranti siano accolti meglio nelle aree più vicine a loro, che di solito hanno risorse limitate, mentre i Paesi ricchi che avrebbero certamente meno problemi tendono sempre di più a respingerli?».
Chissà, forse è venuto il tempo di chiedersi davvero se l’umanità non debba cogliere l’opportunità offerta dalle migrazioni per migliorare i propri servizi a vantaggio di tutti e specialmente di chi, se no, è destinato a restare ai margini della società senza poter portare il proprio contributo (che invece potrebbe essere prezioso) alla crescita globale.
Una volta conclusi i lavori della «Commissione» il direttore del «Lancet» che l’ha fortemente voluta, Richard Horton, ha rilasciato un’intervista bellissima: «Con sempre più aspirazioni da parte delle nuove generazioni a poter migliorare il proprio futuro, il fenomeno delle migrazioni non passerà ed è chiaro che chi lascia il proprio Paese contribuisce all’economia di chi li accoglie più di quanto costi. Dipende da noi prenderne vantaggio con la consapevolezza che il futuro delle nostre società e il benessere dei nostri figli dipenderà sempre di più dal modo con cui sapremo affrontare e governare questa emergenza: non c’è nulla di più importante in questo momento al mondo».
È verissimo. Anche perché negli anni a venire i cambiamenti del clima indurranno ancora più persone a muoversi (da qui al 2050 per esempio saranno 143 milioni quelli che lasceranno le loro case per trasferirsi altrove, anche solo all’interno del loro Paese, nessuno lo fa volentieri e va detto che i migranti del clima non sono protetti da nessuna legge). Un dramma? Forse, oppure il modo con cui l’umanità saprà adattarsi a circostanze climatiche diverse, a patto che tutto questo possa essere sostenuto da politiche di sviluppo e investimenti adeguati. E questa è responsabilità di tutti. I Paesi ricchi — scrive il «Lancet» — non possono lavarsene le mani.

Corriere La Lettura 13.1.19
Addio Robespierre
Il Terrore impolitico
di Marcello Flores


Un bel libro di storia, soprattutto se originale, nasce spesso da interrogativi che riguardano il presente. L’idea prevalente oggi, che il terrorismo sia il male assoluto e la minaccia più grave alla democrazia, ha spinto Francesco Benigno (storico che ha affrontato con La mala setta, nel 2015, le origini di mafia e camorra) a ripercorrerne la storia: convinto a ragione che, per come viene usato adesso, il termine non sia tanto descrittivo quanto valutativo-dispregiativo, e quindi poco utile alla comprensione storica. Contro una lettura riduttiva schiacciata sul presente e contro «improbabili genealogie» a sfondo religioso (i Sicari del I secolo d.C., gli Assassini del Medioevo islamico o i Thugs del XIX secolo), il tentativo del suo saggio Terrore e terrorismo (Einaudi) è quello di spiegare attraverso la storia il carattere ambiguo e problematico di un termine che conosceva, già nel 1988, oltre cento definizioni cui se ne sono aggiunte altre negli ultimi trent’anni.
Benigno prende le mosse dal Terrore giacobino perché è la caduta di Maximilien Robespierre, col Termidoro del 1794, a coniare un termine che descrive inizialmente un «regime di sangue e paura», il cui scopo era il fine palingenetico della Rivoluzione e l’attuazione di Virtù e Giustizia anche attraverso violenza repressiva e legislazione speciale, il Terrore appunto. Da strumento dei «despoti», il termine terrorismo individuerà presto chi si oppone alla tirannia, a partire dal cospiratore Gracchus Babeuf, critico pentito di Robespierre, «forse colui che coniò per primo l’epiteto di “terrorista”, [e] finì così per rivendicarlo per sé stesso».
È nell’Ottocento che il terrorismo acquista la sua configurazione più coerente: gli attentati ai potenti — a partire da quelli contro Napoleone — aumenteranno a dismisura nel corso del secolo, coinvolgendo patrioti e rivoluzionari, così come cresceranno le azioni di guerriglia — il futuro mazziniano Carlo Bianco teorizza la «guerra per bande» nel 1830 — e i tentativi insurrezionali. Dai fratelli Bandiera alla spedizione di Carlo Pisacane a Sapri, dall’attentato di Felice Orsini a Napoleone III nel 1858 all’azione armata di John Brown in Virginia l’anno dopo, la violenza politica pare caratterizzata dal tirannicidio (che Giuseppe Mazzini difenderà per discolparsi proprio dall’accusa di terrorismo) e da tentativi insurrezionali, in nome della lotta degli oppressi contro gli oppressori, di una patria da conquistare e di una giustizia sociale da imporre.
Saranno i populisti russi, nell’ultimo quarto del XIX secolo, a creare il modello del «terrorismo rivoluzionario», quello che gli anarchici condurranno contro governanti e regnanti in Spagna e Italia, Germania e Francia, Austria e Russia, Giappone e Usa, Bulgaria e Grecia, l’esperienza raccontata da Ivan Turgenev e Fiodor Dostoevskij, ma anche dal francese Émile Zola, nei loro romanzi e che porterà nel 1881 all’impiccagione della prima donna terrorista (Sofja Perovskaja, implicata nell’assassinio dello zar Alessandro II). In questo stesso periodo, però, iniziano e si diffondono anche gli attentati politici costruiti dalla polizia, e non soltanto dalla famigerata Ochrana russa, che spesso colpiscono ignari cittadini in bar, ristoranti, ritrovi pubblici, in strada.
L’attentato di Sarajevo, per quanto di taglio patriottico-nazionalista come nel secolo precedente, apre la strada al conflitto mondiale e a una nuova violenza politica. Accanto ad assassinii politici (il leader francese Jean Jaurès e il cancelliere austriaco Karl von Stürgkh) si costruiscono pratiche di terrore di massa di segno diverso (il massacro degli armeni, il terrore comunista, il bombardamento di Guernica, la feroce «guerra totale» del Secondo conflitto mondiale, le violenze naziste) che non spariranno nel 1945. La Guerra fredda e la difficile decolonizzazione che ha luogo nel dopoguerra, infatti, vedrà una nuova ondata di violenza in cui il terrore della rivoluzione e della controrivoluzione si fronteggiano e intrecciano, come apparirà in modo esemplare in Algeria, nelle azioni del Fronte di liberazione nazionale e dell’Oas di estrema destra, proprio mentre Carl Schmitt, nel 1962, esponeva a Pamplona e Saragozza, nella Spagna franchista, la sua «teoria del partigiano».
Anni Sessanta e Settanta: Benigno ci porta nel cuore del terrorismo urbano dell’America Latina, della Raf tedesca e delle Brigate rosse, ma anche di baschi e irlandesi, attorno a figure come Carlos o a episodi come gli attentati legati alla crisi mediorientale (Monaco, Lod, Ma’alot, Parigi, Roma), quando si avvia un «processo di autonomia discorsiva della tematica del terrorismo», che porterà per la prima volta — anticipo sul dopo-11 settembre 2001 — a rispondere con azioni militari ad azioni terroristiche (i raid contro Gheddafi dopo l’attentato di Berlino dell’aprile 1986, oggi tema della serie tv Deutschland 86). Benigno intravede un «curioso gioco delle parti» tra tecniche insurrezionali dei gruppi controrivoluzionari e tecniche di repressione dei regimi nati da rivoluzioni, e affronta lungamente il tema del terrorismo islamico e del dibattito che ha suscitato. Dopo l’11 Settembre, con la «crociata contro il terrore» e la dottrina Bush, si chiude questa ponderosa e articolata ricerca storica.
Grande merito del volume è senz’altro di non rinchiudere in definizioni standard processi storici complessi e compositi, lasciando che la narrazione storica sovrapponga elementi non sempre omogenei e simili di violenza politica, anche se tutti caratterizzati da aspetti comuni nelle modalità o nelle finalità, nelle giustificazioni o negli obiettivi, negli strumenti e negli effetti provocati. Anche Benigno, tuttavia, sembra preso, nelle conclusioni, dal desiderio di offrire un’interpretazione coerente e — forzando probabilmente il suo stesso racconto nelle centinaia di pagine precedenti — è convinto che il terrorismo odierno «presenta forti tratti di continuità con il percorso bisecolare» raccontato. Confutando giustamente la criminalizzazione di ogni combattente come terrorista e la retorica di un «nuovo» terrorismo sulla base di una «fascinazione religiosa» e soprattutto della fede islamica, tende a sottolineare troppo le continuità e a dimenticare le differenze, che sono spesso il punto cruciale di ogni analisi comparativa. Un elemento che avrebbe meritato attenzione — assieme ai tentativi giuridici di dare sostanza anche storica all’accusa e definizione di terrorismo — è la perdita o almeno il grave indebolimento del discorso politico presente nelle azioni terroristiche, ridotte spesso a mera tattica militare sganciata da ogni finalità concreta, come pure nelle più disperate azioni della «propaganda col fatto» a cavallo tra Otto e Novecento.

Corriere La Lettura 13.1.19
Il fuoco vero della protesta
Gli altri dodici Jan Palach
di Federigo Argentieri

Il 16 gennaio 1969 «la fiamma violenta e atroce», per dirla con Francesco Guccini, bruciava il corpo dello studente Jan Palach, il quale aveva deciso di compiere quel gesto estremo per protestare contro il lento ma sicuro soffocamento, da parte dell’Urss e dei suoi alleati, delle istanze di libertà e democrazia che si erano sviluppate nell’anno precedente in Cecoslovacchia e che erano state interrotte dall’intervento armato del 21 agosto, dieci giorni dopo il suo ventesimo compleanno; ma soprattutto contro la scarsa resistenza che tale soffocamento incontrava. La morte del giovane, avvenuta il 19 gennaio, ebbe enorme risonanza internazionale: in Italia la costernazione e la solidarietà furono quasi unanimi, come lo era stata la condanna dell’intervento armato.
A lui furono poi dedicate varie canzoni. Oltre a Primavera di Praga di Guccini e a Mourir dans tes bras dell’italo-belga Adamo (vedi intervista nella pagina seguente), anche Jan Palach della Compagnia dell’Anello e la più recente Le fate di Praga di Sköll, queste ultime due dichiaratamente di destra. Anche l’editoria manifestò interesse, con decine e decine di pubblicazioni di buon livello, dalle Edizioni del Borghese a Samonà e Savelli passando per Sugarco e gli Editori Riuniti: in tal modo la contrapposizione frontale sulla rivoluzione ungherese del 1956 apparve superata e si potrebbe addirittura azzardare il termine, così raro in Italia, di «memoria condivisa» per tutto il complesso di eventi.
Il grande slavista Angelo Maria Ripellino aveva a quel tempo rilevato che Tomáš Masaryk, fondatore della Cecoslovacchia, «aveva svolto a Vienna nel 1881 la sua tesi di laurea sul “suicidio come fenomeno di massa della civiltà moderna” (…): con quel lavoro (…) si proponeva di render chiaro che “la vita senza fede perde forza e certezza”». Palach era certamente un seguace di Masaryk, come la sua famiglia. A 15 anni aveva appreso, restandone assai colpito, del suicidio di Thích Quang Dúc, un monaco buddista vietnamita che si era dato fuoco per protestare contro le persecuzioni del governo di Saigon. È probabile che avesse saputo anche del gesto analogo compiuto a Washington due anni dopo, nel 1965, dal quacchero Norman Morrison, per protestare contro le uccisioni di bambini durante la guerra in Vietnam.
Già prima però, l’8 settembre 1968, a 18 giorni dall’invasione della Cecoslovacchia compiuta anche da truppe del suo Paese, il cittadino polacco Ryszard Siwiec, veterano della Resistenza antinazista e antisovietica, si dette fuoco nello stadio di Varsavia dove si svolgeva la «festa del raccolto», alla presenza delle massime autorità. Morì quattro giorni dopo, lasciando moglie e cinque figli: sebbene molte persone nello stadio avessero visto che cosa aveva fatto, la polizia riuscì a evitare che la notizia venisse diffusa. Solo sei mesi dopo la redazione polacca di Radio Free Europe (situata in Germania) ruppe il silenzio e rivelò che Palach non era stato la «torcia umana numero 1», almeno non sul piano internazionale.
Meno di due mesi dopo, il 5 novembre, toccò all’ucraino Vasyl Makuch, anch’egli veterano della Resistenza antinazista e antisovietica, immolarsi per protesta contro l’oppressione del suo Paese e per l’invasione della Cecoslovacchia: il luogo prescelto per il sacrificio era non lontano dalla piazza Maidan, lungo il viale Kreshchatik. Makuch morì il giorno dopo e in questo caso, nonostante la vigilanza del Kgb locale, la notizia trapelò sia tra gli ucraini, molti dei quali avevano visto i carri armati sfilare verso la frontiera cecoslovacca, sia all’estero. Nove anni dopo, il 21 gennaio 1978, un altro ucraino, Oleksa Hirnyk, compì il gesto estremo per protestare contro la russificazione e la cancellazione dell’identità nazionale ucraina, così come il tataro di Crimea Musa Mamut il 23 giugno successivo, per denunciare l’oppressione della sua nazionalità da parte dell’Urss.
Non risulta che Palach sapesse di Siwiec e Makuch, poiché nulla trapelò dalle note scritte che aveva lasciato. Invece Sándor Bauer, un liceale ungherese appena sedicenne, dichiarò esplicitamente di aver voluto seguire il suo esempio, tanto che anch’egli si dette fuoco sulla scalinata del Museo nazionale a Budapest il 20 gennaio 1969, il giorno dopo la morte di Palach, definito «il fratello ceco che ha fatto la stessa cosa». Morì tre giorni dopo. La lapide apposta dal partito di governo Fidesz nel 2001 non menziona la Cecoslovacchia. Va rilevato che in tutti questi casi le angherie poliziesche seguirono un iter analogo: stretto controllo o addirittura stato di arresto per il moribondo, persecuzione di famigliari ed amici, confisca di materiali, obbligo di svolgere il funerale in segreto, diffamazione costante del personaggio, definito «squilibrato», eccetera. Se Palach non fu la «prima torcia» nei Paesi del blocco sovietico, lo fu certamente nel suo, tanto che il suo esempio fu seguito quasi subito. Sempre il 20 gennaio, infatti, il venticinquenne Josef Hlavatý si bruciava a Pilsen, nella Boemia occidentale, e spirava cinque giorni dopo: alla base del suo gesto probabilmente vi erano anche ragioni personali (divorzio), ma era stato molto attivo durante la Primavera.
Passò un mese e fu la volta di Jan Zajíc, anche lui proveniente da una famiglia di orientamento democratico anticomunista: è impressionante come le origini politiche di tutte queste vittime fossero affini, cosa che dovrebbe far riflettere chiunque tenti di impossessarsi della loro memoria. Per essere più chiari, all’epoca il Pci si trovò in difficoltà, nonostante l’appoggio quasi immediato dato da Luigi Longo ad Alexander Dubcek; ma una destra che agitava simultaneamente cartelli che dicevano «comunisti vergogna» e altri che inneggiavano ai colonnelli golpisti greci non faceva certo miglior figura.
Diversa dai precedenti era l’origine politica di Evžen Plocek, operaio di Jihlava iscritto al Partito comunista e sostenitore delle riforme dubcekiane. Dichiaratosi stufo della compagnia forzata dei «normalizzatori», disperando ormai che gli eventi negativi potessero essere ribaltati, si diede fuoco alla vigilia della destituzione di Dubcek dal partito, il 4 aprile 1969, venerdì santo.
Poco più di un anno dopo, nel maggio 1970, spirava in Romania il ventinovenne Márton Moyses, di chiara origine ungherese transilvana. Subito dopo la rivoluzione del 1956, ad appena 15 anni, assieme a tre coetanei aveva cercato invano di oltrepassare il confine nella speranza di unirsi alla Resistenza contro i sovietici. Individuato grazie a un delatore come elemento ostile al regime per la solidarietà verso la rivoluzione ungherese e per le sue poesie critiche, fu processato nel 1960 e condannato a due anni di carcere. Due mesi prima di essere liberato, per paura di rivelare qualcosa di compromettente per i «complici», si tagliò parte della lingua con un filo e fu ricoverato in infermeria, poi rilasciato. Non si hanno molte informazioni sulla sua attività successiva: pur essendo dotato, non proseguì l’attività letteraria né cercò un impiego fisso. Svolse attività saltuarie, interessandosi di folklore e di altri temi, lavorando come giornaliero in una cooperativa agricola, ma vivendo isolato. Il 13 febbraio 1970, circa un anno dopo la morte di Palach e quella di Bauer, si recò nella città di Brasov, davanti alla locale sede del Partito comunista, dove si cosparse di benzina e si diede fuoco. Ricoverato in ospedale sotto sorveglianza poliziesca, morì tre mesi dopo, il 13 maggio.
Quasi esattamente due anni dopo, il 14 maggio 1972, fu la volta del diciannovenne lituano Romas Kalanta, che compì il suo gesto nella città di Kaunas, di fronte all’edificio che ospitava il locale Partito comunista e i suoi controllori sovietici. Il giovane spirò il giorno dopo, nel suo taccuino aveva scritto: «Accusate il regime totalitario della mia morte». L’imposizione poliziesca alla famiglia di anticipare il funerale di due ore suscitò un’ondata di indignazione tra i suoi amici e sfociò in due giorni di tumulti che portarono all’arresto di 402 persone: 7 furono condannate a pene detentive, mentre gli espulsi da scuole e università e licenziati dal posto di lavoro si contarono a centinaia. Il rapporto finale del Kgb locale sosteneva che altre 13 persone nelle settimane e mesi successivi avevano seguito l’esempio di Kalanta, che fu dichiarato malato mentale, non in possesso delle sue facoltà al momento di compiere il gesto, ancorché riabilitato e considerato sano e cosciente non appena l’Urss si dissolse e la Lituania riottenne l’indipendenza.
Infine, vanno ricordati il pastore luterano tedesco-orientale Oskar Brüsewitz (suicida nel 1976) e l’operaio romeno Liviu Cornel Babes, quest’ultimo immolatosi anch’egli a Brasov nel 1989, pochi mesi prima del crollo di Nicolae Ceausescu, la cui uscita di scena fu l’unica a carattere violento nella regione.
I «capolavori della storia», ossia le rivoluzioni pacifiche del 1989 (definizione di Jacques Levesque), avrebbero reso giustizia a queste anime inquiete, così come alla rivoluzione ungherese del 1956, alla Primavera di Praga e alle istanze indipendentiste ucraine e baltiche. Oggi Palach e tutti gli altri, morti suicidi per protesta contro regimi comunisti burocratici e oppressivi e contro l’indifferenza e la passività che intenzionalmente essi generavano, sono ricordati con affetto e commozione, quando non sono stati elevati al Pantheon degli eroi nazionali. L’uso frequente dell’autoimmolazione col fuoco anche da parte dei monaci tibetani contro l’occupazione cinese pone la domanda se questo non sia da considerare un metodo di protesta tipicamente rivolto contro le tirannie comuniste. Sarebbe però più opportuno precisare: anche contro tutte le altre, nessuna esclusa.

Repubblica 13.1.19
Il caso
L’altra faccia della crescita
La corsa al business della cannabis legale ma ora si teme l’effetto bolla
Neanche i dubbi della scienza hanno frenato gli investimenti
Negozi quasi raddoppiati nell’ultimo anno: la mappa del boom
di Michele Bocci


Un boom che in dodici mesi ha quasi fatto raddoppiare il numero di negozi dove si vende la cannabis light.
L’anno scorso in Italia sono stati aperti ben 305 nuovi growshop, facendo segnare una crescita del 75% rispetto ai 408 che erano attivi nel 2017. Del resto tutto il settore produttivo in questo momento sembra florido, anche quello dei produttori e dei distributori. A dimostrarlo c’è anche lo sbarco nel settore di un fondo di investimenti canadese.
La provincia con più negozi è quella di Roma (arrivata a contare 87 punti vendita contro i 36 del 2017), seguita da Milano (51 contro 28) e Torino (34 contro 23). Solo ad Aosta, Enna e Vibo Valentia non si può comprare la marijuana light.
Quella senza tetraidrocannabinolo (il thc vietato dalla legge se in percentuale superiore allo 0,6%) ma a base di cannabidiolo, il perfettamente legale cbd.
I dati li ha raccolti con una ricerca sul campo durata alcuni mesi la rivista Dolce Vita, tiratura da 30mila copie dedicate interamente al mondo della cannabis.
Per aprire un negozio bisogna investire tra i 15 e i 20mila euro. Se gli affari vanno bene si incassano anche 25mila euro al mese ma molti si fermano a 3-4mila. I ritmi di crescita del numero degli shop fanno interrogare alcuni osservatori: e se si trattasse di una bolla, simile a quella dei rivenditori di sigarette elettroniche che alcuni anni fa aprirono a decine in tutte le città per poi in buona parte chiudere?
«Sicuramente il rischio c’è — risponde Matteo Gracis, direttore di Dolce Vita — Credo che a un certo punto vedremo un ridimensionamento. Ci sono molte persone che si sono lasciate attirate dall’idea del guadagno facile, senza conoscere il mercato della canapa e le sue dinamiche. I meno esperti così salteranno».
La cannabis light è entrata sul mercato grazie all’intuizione dei titolari di una catena di growshop, la emiliana Easyjoint nel maggio del 2017. I fiori, che i coltivatori di canapa normalmente buttavano via, sono stati messi in vendita per il loro contenuto di cbd, principio attivo che avrebbe proprietà rilassanti. Da allora è stata tutta una crescita, che ha anche riguardato le aziende agricole.
Oggi sono almeno 800 quelle che producono la canapa e gli ultimi dati, risalenti al 2017, ipotizzano un giro d’affari di 45 milioni di euro l’anno.
Non è servito a frenare la corsa il parere del Consiglio superiore di sanità che nel giugno dell’anno scorso non escluse la pericolosità della cannabis light, chiedendo di fermarne la vendita. E una nuova prova forte della buona salute di tutto il sistema arriva dai 4,7
Il caso milioni di euro che i canadesi stanno per investire per diventare socio di minoranza proprio di Easyjoint. «Chiuderemo l’accordo a fine mese — dice Luca Marola, fondatore dell’azienda — Si tratta di un fondo che finanzia società legate alla canapa in tutto il mondo. È la prima volta che succede una cosa del genere nella canapicoltura italiana».
I growshop anni fa sono nati principalmente per vendere, come dice il loro nome (che significa coltivare) attrezzatura per crescere indoor la marijuana partendo dai semi: lampade, vasi, concimi. Adesso il loro prodotto di punta sono le inflorescenze di marijuana light, ma sono molto richiesti anche i prodotti a base di canapa, che sono decine. Da quelli per il corpo, come creme e saponi, all’olio da mettere sotto la lingua, dalle farine agli abiti. Così il numero dei clienti che entrano nei negozi aumenta.
«Se è vero che c’è il rischio di una bolla — dice Gracis — va anche detto che il fenomeno sta svelando una cosa interessante che sembra andare in senso contrario: l’acquirente della light è diverso da quello della cannabis con thc. Se questa verrà mai legalizzata in Italia, quindi, non sostituirà la marijuana senza il thc in commercio adesso. C’è tutto un mondo al quale non interessa lo sballo della canna.
Penso all’avvocato cinquantenne che a casa la sera ha voglia di rilassarsi senza perdere il controllo».

Il Sole Domenica 13.1.19
A tavola conToni Servillo
«Sono nato ad Afragola, correvo sa tavola conToni Servillocalzo nei viottoli in mezzo al fango Io non ho la noia degli altri. L’essere umano mi piace»
«Sono affascinato dall’abisso dell’io, ma il mio teatro è fondato sul noi»
di Paolo Bricco


«Il noi: non riesco a interpretare diversamente l’esperienza umana. Mi affascina l’abisso dell’io. Ma credo che, per conoscerlo davvero, bisogna avere vissuto da ragazzo grandi solitudini. Io sono cresciuto in mezzo agli altri, in una festa magari anche tragica. Sono nato ad Afragola, a cinque chilometri da Napoli, in un centro a vocazione rurale. Correvo scalzo. Nei viottoli, in mezzo al fango, c’erano gli animali. Io non ho la noia degli altri. L’uomo mi piace».
Toni Servillo, 59 anni, è molto elegante in un vestito blu, ha una cravatta dello stesso colore e una camicia grigia. Siamo al Chiostro Nina Vinchi di Via Rovello, nel locale che prende il nome da Giuseppina, detta Nina, la ragazza del quartiere di Porta Venezia che fu collaboratrice di Paolo Grassi e Giorgio Strehler nella fondazione e nell’affermazione del Piccolo Teatro, nella Milano del dopoguerra socialista e borghese, popolare ma mai plebea, internazionale senza il bisogno di fare alcuna gita a Chiasso.
Di fronte a noi, su un tavolino vengono disposti toast al formaggio e al prosciutto, bicchieri di spremuta d’arancia e caraffe di acqua minerale, naturale e gassata. Servillo è - insieme a Petra Valentini - al Piccolo Teatro Grassi con lo spettacolo che ha tratto dalle sette lezioni che Louis Jouvet, uno dei principali attori e autori del teatro e del cinema francese della prima parte del secolo scorso, tenne al Conservatoire National d’Art Dramatique di Parigi, nei mesi dell’occupazione nazista, sul personaggio di Elvira del Don Giovanni di Molière. Il Piccolo Teatro di Milano e Teatri Uniti di Napoli hanno prodotto questa pièce - in cui Servillo è appunto Jouvet e Valentini è Claudia, l’allieva costretta a lasciare le scene in quanto ebrea - che sarà fino al 20 gennaio al Bellini di Napoli.
«A pranzo, quando recito, rimango sempre leggero, poi il pomeriggio cerco di riposarmi e concentrarmi, ogni sera sul palco si ricomincia daccapo», dice raccontando un mestiere fatto di dedizione e di ritualità, di forma e di precisione, di affanno e di vocazione. Lui non appartiene alla tradizione italiana dei grandi attori colti fino alla leziosità, impostati così tanto da sembrare vagamente tromboneschi, sempre al centro di tutto anche a costo di esprimere un narcisismo in grado di condizionare - nel bene e nel male - ogni cosa intorno a loro. Tratta con una educazione non affettata e una cordialità non artificiale quelli che entrano in questa stanza riservataci nel ristorante. Il suo carisma comporta la sottrazione. E, così, Servillo è anche semplicemente Toni, diminutivo di Marco Antonio. Ha una grande passione per la musica. Suo fratello Peppe fa parte degli Avion Travel: loro due e i Solis String Quartet hanno realizzato lo spettacolo La parola canta, dedicato ai classici e ai contemporanei della cultura scenica napoletana. Ha un legame intenso e mai interrotto con la sua comunità di origine, una parte della quale ha dato vita a Napoli ai Teatri Uniti. Ha una moglie, Manuela, e due figli, Eduardo e Tommaso. Abita a Caserta: «Non potrei vivere lontano. Stare vicino alle radici permette di distinguere ciò che è autentico da ciò che è fasullo, l’originale dall’artefatto, il vero dal falso o, meglio, chi imbroglia da chi non imbroglia. E, poi, c’è la questione della lingua e del linguaggio. Il dialetto, il tuo dialetto, ha i doppi sensi e i doppi fondi».
Tutto questo provoca e produce una attitudine normale che si rivela nell’emozione comunicata a uno sconosciuto come me per un incontro annunciato e poi rimandato, comunque felicemente imminente, con il musicista Gidon Kremer che - con il suo violino, la sua direzione di orchestra e le sue interpretazioni di Bach e di Brahms - è uno dei giganti della musica del Novecento: «Sono felicissimo - dice incurvando verso l’alto le labbra in un sorriso pieno - due anni fa l’ho visto a Venezia in un locale e mi sono avvicinato per salutarlo. Io avevo riconosciuto lui, ma lui non sapeva chi io fossi. Non mi sono presentato come un attore e regista, ma come un semplice fan. Oggi mi ha telefonato. È in Italia. Probabilmente ci incontreremo, anche se in questo momento è fermo nel traffico di Milano».
Milano, dunque, dove Servillo ha preso una casa e nelle cui vie del centro, in questo inverno ricco di luce e povero di freddo, propone al figlio che lo ha chiamato al telefonino di fare più tardi insieme una passeggiata. «Sono felice di essere qui perché il Piccolo venne fondato da Grassi e da Strehler nel 1947 all’insegna del noi, secondo una idea di teatro come servizio pubblico. Ho apprezzato il libro di Massimo Bucciantini Un Galileo a Milano, che ricostruisce lo spettacolo Vita di Galileo per la regia appunto di Strehler, la messa in scena del 20 aprile 1963 con il tutto esaurito e 160 repliche che segnò tantissimo il clima culturale, politico e civile della Milano e dell’Italia degli anni Sessanta».
Il noi è, dunque, la parola chiave di Servillo. Noi, come noi italiani. Il nostro senso di identificazione con lui è forte: perché - grazie alla popolarità ottenuta con il cinema di Mario Martone e Titta Di Girolamo, Giovanni Sanzio e Paolo Sorrentino, «ai film sono arrivato a 40 anni» - Servillo è diventato una delle grandi maschere in cui gli italiani colgono le fattezze e i profili della storia e quotidianità, della passione e della noia per la vita, della complessità delle cose e della verità del potere: Morte di un matematico napoletano, Le conseguenze dell’amore, La ragazza del lago, Gomorra, Il divo-La spettacolare vita di Giulio Andreotti, La grande Bellezza e Loro hanno contribuito a fare di Servillo una pietra a molte facce di quell’edificio insieme razionale e barocco che è la nostra identità comunitaria e nazionale, multipla e polimorfa, così chiara e così incomprensibile, in fondo da tutti noi tanto amata e detestata.
Il noi è rappresentazione della realtà. Il noi, però, è anche realtà della rappresentazione. Fenomeno culturale, funzionalità del pensiero, ruolo dell’intellettuale. A teatro, ma non solo. «Mi ha sempre colpito l’idea di Leonardo Sciascia secondo cui scrivere equivale a una buona azione. Scrivere serve a qualcuno. Nella mia visione del mondo torna, dunque, di nuovo il noi».
La sua è una vocazione d’attore radicale, ma non intellettualistica. Servillo è un uomo del Novecento. Ma, rispetto alle derive della cultura italiana di sinistra degli anni Settanta in cui si è formata la sua generazione di uomini e di donne di teatro, lui ha compiuto un passaggio evolutivo: «Insomma... il messaggio... la pesantezza ideologica ha tolto la felicità dei sensi a teatro e la felicità dell’interpretazione...».
La sua traiettoria, in teatro e fuori dal teatro, ha oggi una caratteristica precisa: in lui la dicotomia fra élite e popolo, che molto ha contraddistinto la cultura storica e il dettato civile di noi italiani e che tanto sta segnando lo spirito del nostro tempo in Europa, perde di significato e trascolora, si scioglie e si coagula in una forma non retoricamente democratica che appare in grado di sublimare ogni differenza fra l’alto e il basso. «Amo l’avanguardia - dice bevendo la sua spremuta - non sono un passatista o, si sarebbe detto una volta, un reazionario. Mi piacciono la musica di György Kurtág e la pittura di Mimmo Paladino. Lavoro con il musicista Fabio Vacchi. Però, trovo che in questi anni si sia verificato a volte un accanimento. La sperimentazione va bene. Ma l’iconoclastia per l’iconoclastia è sterile. Le indagini sul linguaggio, sganciate dalla crudeltà della vita e dell’esistenza, hanno portato molti in vicoli ciechi, dove si è soli perché gli altri non ci sono».
Gli altri, dunque, ancora. E, ancora, noi. La linfa che il teatro classico trae dalla strada. I classici come canone. E, appunto, come interpunzione fra realtà, rappresentazione e interpretazione. «Il teatro è una assemblea viva. Il pubblico delega all’attore l’interpretazione del testo. Amo gli autori che sono molto vicini alla scena. Luigi Pirandello e Carlo Goldoni, Molière e Eduardo De Filippo. Prendiamo Molière: lui è il capocomico».
Il testo e la possibilità che l’interpretazione lo accenda e lo faccia vibrare facendo vibrare, insieme, la scena e gli spettatori presenti la sera a teatro. Il teatro come assemblea. L’attore e la sua funzione. La storia di Servillo ha alcuni passaggi fondamentali in L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello, Il Misantropo e Il Tartufo di Molière, La trilogia della villeggiatura di Goldoni. E, naturalmente, Sabato, domenica e lunedì di Eduardo. «Eduardo, per me, è il massimo connubio fra popolo e sofisticatezza», dice con un lampo negli occhi che mi ricorda l’eccitazione bambinesca del racconto che, forse, di qui a poco avrebbe conosciuto Gidon Kremer.
Ci portano il caffè. Prima dei saluti, mi chiede quanto zucchero voglio. E, a questo punto, mi viene in mente il secondo atto di Questi fantasmi del suo - del nostro, di tutti noi, appunto - Eduardo: “A noialtri, italiani, toglieteci tutto ma questo poco di riposo in terrazza... Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori in terrazza, dopo quell’oretta di sonno che uno si fa dopo mangiato. Però il caffè me lo devo fare io stesso, con le mie mani”.

Il Sole Domenica 13.1.19
Elfriede Jelinek
Il nazismo irrisolto e il gioco al massacro di una generazione
di Marta Morazzoni

Intellettuale impegnata sul fronte del femminismo e in polemica col suo paese, l’Austria, su cui riversa una critica feroce e rabbiosa, Elfriede Jelinek è stata premio Nobel per la letteratura nel 2004, una scelta dell’accademia di Stoccolma che sembra aver sorpreso la scrittrice per prima. D’altra parte il suo stile, la determinazione a colpire là dove emergono le distorsioni di una società intaccata da una irrisolta patina di nazismo l’hanno messa in luce sulla scena culturale come una personalità di spicco, mai gratuitamente provocatoria. È appunto questa graffiante provocazione a toccare, non senza disagio, il lettore che la avvicini la prima volta nel tramite del romanzo Gli esclusi.
L’opera nasce alla fine degli anni ’70 come radiodramma e prende spunto da un fatto di cronaca nella Vienna degli anni ’60, un delitto efferato, che però, nelle intenzioni della Jelinek non si tramuta in un giallo, ma è la meta di un percorso analizzato, contestualizzato con precisione nella realtà piccolo borghese della capitale austriaca, uno scorcio di vita su cui è arduo fissare lo sguardo; nondimeno l’autrice da lì non toglie gli occhi e fa in modo che il lettore, facendosi strada nei meandri di un ambiente torbido, capisca di passo in passo la radice profonda delle cose.
Quattro ragazzi sui diciott’anni, dei quali due di famiglia piccolo borghese con il padre dal convinto passato nazista, uno figlio di operai comunisti e una ragazza della buona borghesia della capitale: questi i protagonisti, una miscellanea di culture esplosiva, su cui incidono frustrazioni, aspirazioni e velleità che minano i caratteri dei quattro. Il quadro è desolante, verrebbe da dire colpevolmente desolante, sia che alle spalle dei giovani ci sia il marcio di nostalgie totalitarie, sia che vi si scorga la frustrazione delle speranze in una società nuova, mentre a dominare la scena è sempre e comunque la ricchezza alto borghese. Gli accadimenti che si assommano nel romanzo, tra atti di feroce bullismo e aspirazioni ad una superiore altezza morale nell’arte (uno dei due fratelli si sente poeta e la sorella sembra esprimersi solo attraverso la musica), hanno un impatto forte sul lettore soprattutto per lo struttura che la Jelinek costruisce nel procedimento narrativo, con un linguaggio che si fa carne del personaggio narrato, ne traduce pulsioni e repulsioni, accentuando la fisicità come elemento esposto senza veli e senza reticenze.
La durezza è una carta che l’autrice gioca con energia, non risparmiando nulla al lettore, il concetto di omissione e allusione non la interessa e lo si può capire! Ci sono nella ferocia della sua analisi e del suo sguardo sulla società austriaca rabbia e disillusione. Viene in mente, anche per una questione geografica, Thomas Bernhardt. Allo scrittore austro-olandese non faceva difetto l’arma della scrittura come un bisturi con cui sezionare il corpo vivo della società senza provarne alcuna compassione. E in questa determinazione, nella coerenza stilistica che le dà voce sta la sua grandezza.
La Jelinek è, come dire? più appassionata e tormentata nell’affondo sugli umori di una società guardata e giudicata con lucidità, ed ecco allora l’insistenza sul germe della violenza e della volgarità, sul disagio nascosto come sporco sotto il tappeto, sulla ripugnanza fisica che alcuni caratteri, vedi il padre di Anna e Reiner, ispirano, mentre la figura debole e soccombente della madre non trova la nostra solidarietà. La Vienna che nel romanzo si delinea è una città opaca, che non ha niente da spartire con il ritratto convenzionale dell’Austria felix, piuttosto ha in sé le stigmate del suo periodo più oscuro, da cui la piccola borghesia, vista dagli occhi di Reiner, è sporcata. E l’idea di sudicio è forse la più presente sulla scena, che la Jelinek declina con un linguaggio diretto, eliminando la funzione del narratore per lasciarci sentire le voci dei protagonisti, il timbro aspro che corre libero e non ha mediazioni. Leggerla chiede attenzione al ritmo, al gioco di contrasto tra la musica alta cui aspirare e la sordida orchestrina di voci che accompagna il gioco al massacro di una generazione.
Gli esclusi
Elfriede Jelinek
traduzione di Nicoletta Giacon,
La nave di Teseo, Milano,
pagg. 314, € 20

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