domenica 20 gennaio 2019

Il Sole 20.1.19
L’eterno apparire del destino
Emanuele Severino. Al centro della sua ultima opera il rapporto dell’uomo con il divenire del mondo e con la morte, che non accade tra le ombre della fede, ma nella verità
di Armando Torno


Nella «Biblioteca filosofica» di Adelphi escono gli scritti teoretici di Emanuele Severino. Fu lui a inaugurarla nel maggio 1980 con Destino della necessità. Ecco ora l’ultima sua opera dal titolo Testimoniando il destino. Severino è considerato in ambito internazionale uno dei filosofi di riferimento del nostro tempo: si stanno moltiplicando i riconoscimenti per i suoi scritti. Tra gli ultimi, in Russia Yuri Olynyk sta preparando la traduzione di Essenza del nichilismo, disponibile da un paio d’anni anche in inglese.
Testimoniando il destino sviluppa un gruppo di analisi filosofiche «voltandosi indietro e guardando un insieme di tratti essenziali del cammino percorso». Che non è stato breve e «tale cammino ha inteso indicare l’essenza autentica del fondamento di ciò che con verità può esser saputo in terra e in cielo». Un «cammino» che mette in questione ogni forma della sapienza dell’uomo e ora sono approfondite tutte le tematiche affrontate da Severino: per esempio, il senso ultimo dell’essere uomo, il rapporto tra destino e scienza, l’essenza linguistica del sapere originario, il senso della salvezza, la storia infinita dell’uomo ecc.
Il titolo Testimoniando il destino nasce dal fatto che oggi l’atteggiamento prevalente è di voltare le spalle alla verità intesa come sapere incontrovertibile, mentre sin dall’inizio Severino ha mostrano in che senso «il destino della verità» sia inaggirabile. La parola «destino»è costruita in modo analogo a episteme, la quale «è il tentativo fallito di evocare l’incontrovertibile». Entrambe sono basate sulla radice indoeuropea stha, che indica lo stare. «Il destino riesce là dove l’episteme ha fallito», nota Severino.
Si tratta di capire che l’uomo non è soltanto fede, la quale non riesce a «stare», ma è appunto «sapere che sta». Cita la Prima lettera ai Corinti (13,12), nel testo della Vulgata, dove Paolo scrive: «Videmus enim nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem», «Ora vediamo come in uno specchio in enigma, allora vedremo faccia a faccia». Ma «faccia a faccia» è la situazione paradisiaca, è il modo in cui Paolo esprime il concetto greco di episteme. In paradiso – chiosa Severino – «l’uomo ha un sapere incontrovertibile, cioè davanti a Dio non può dire “Forse questo è Dio”. Si tratta di capire che invece l’uomo è adesso facie ad faciem rispetto all’essenziale, cioè è oltre la fede espressa dal vedere attraverso uno specchio in enigma. In questo senso si può dire che già ora l’uomo è nella situazione paradisiaca, ma senza sapere di esserlo».
Il linguaggio testimonia non il nostro stato paradisiaco ma quello decaduto, dove noi viviamo nella fede. Evidenzia: «La fede non è soltanto fede religiosa, ma è innanzitutto quella di essere al mondo, che d’altra parte ci fa vivere. Quando noi diciamo: “sono al mondo” non disponiamo di un sapere incontrovertibile che giustifichi questa nostra convinzione». Il destino è lo stare oltre la fede, la quale ormai ha conquistato tutti i campi del sapere e dell’agire umano, perché il linguaggio parla soltanto di essa e non del destino. Severino aggiunge: «L’uomo lungi dall’essere l’ombra di un sogno caduco, è l’apparire stesso del destino; anzi è l’eterno apparire del destino». Un concetto, questo, che riprende e approfondisce nei suoi scritti da sessant’anni. E il destino, in tale ottica, è l’apparire dell’impossibilità che ogni cosa, ogni sfumatura di cose, ogni istante non siano: è l’apparire dell’eternità di tutto.
Il libro evidenza ciò che in Essenza del nichilismo era anticipato sulle logiche paraconsistenti. Sostengono che il principio di non contraddizione può non essere valido in campi particolari; Severino mostra che quella tesi, desiderosa di essere incontraddittoria, è invece contradditoria. Di questo ha discusso con il britannico Graham Priest (il quale ammette accanto ai valori di «solo vero» e «solo falso» anche quello di «vero e falso»): lo ha fatto al convegno «I sessant’anni della “Struttura originaria”».
Severino ha chiuso quest’opera con numerose postille e la nota introduttiva in data 7 novembre - giorno in cui è nata sua moglie Esterina – e confessa: «Le aggiunte ho continuato a scriverle per mesi». Caso insolito: il suo lavoro è un blocco, il tema è unico. Lui stesso ammette: “Ripenso a questo tema, e continuo a presentare aspetti nuovi che vengono fuori quando non si cercano; sono loro che vengono a trovarti”.
Testimoniando il destino dimostra dunque che il rapporto dell’uomo con il divenire del mondo, e innanzitutto con la morte, non avviene semplicemente all’interno delle ombre della fede, ma «all’interno della chiarità e incontrovertibilità del destino della verità».
Il 2 marzo sarà festeggiato il suo 90° compleanno (26 febbraio) al Teatro Sociale di Brescia (promosso dal Ctb) con la partecipazione di Ruth Shammah e di attori e attrici: vi sarà una lettura di passi dell’Orestea di Eschilo da lui tradotta. Ritorna un successo di oltre trent’anni fa che andò in scena al teatro Pier Lombardo di Milano.
Dal 13 al 15 giugno, invece, si terrà un convegno internazionale a Brescia: «Heidegger nel pensiero di Severino». Lo aprirà Friedrich-Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente del filosofo tedesco, noto in Italia anche per il libro scritto con Francesco Alfieri Martin Heidegger: la verità sui Quaderni neri (Morcelliana). Il tutto è organizzato da un’équipe guidata da Ines Testoni e Tullio Goggi.
Testimoniando il destino
Emanuele Severino
Adelphi, Milano, pp. 404, € 34

Corriere 20.1.19
Il commento
«Ultimo tango»
47 anni dopo: dalla censura al film integrale in prima serata tv
di Paolo Mereghetti


Dal rogo alla prima serata tivù. Meglio di un salto mortale, per Ultimo tango a Parigi, che Rai2 programma lunedì sera alle 21.20. La «riabilitazione» era stata sancita a maggio, quando la commissione di censura aveva tolto ogni divieto a un film che alla sua uscita, nel 1972, era stato vietato ai minori di 18 anni e al taglio di 8 secondi durante il primo amplesso tra Brando e la Schneider e che poi la Cassazione, il 29 gennaio 1976, aveva condannato alla distruzione per oscenità. Adesso, rubricato «film per tutti», Ultimo tango diventa una pedina nella guerra dell’audience tra le reti. Non sono sicurissimo che Bernardo Bertolucci avrebbe apprezzato questa consacrazione catodica (così come si era simpaticamente dispiaciuto di «non essere più trasgressivo» dopo l’ultima decisione della censura) ma continuo a pensare che il posto migliore per vederlo sia una sala cinematografica, dove si sceglie di entrare pagando un biglietto, piuttosto che rischiare di capitarci davanti pispolando sul telecomando. Questione di rispetto per l’autore e l’opera ma anche per il pubblico, di fronte al quale la tivù pubblica ha da tempo abdicato a ogni ambizione culturale (la mia generazione ha imparato ad amare il cinema anche grazie ai cicli di mamma Rai) per ridurre spesso i titoli a una specie di baluginante specchietto per allodole (e allocchi). L’avevo scritto quando la censura aveva tolto ogni divieto: il problema non è lo «scandalo» del burro ma il rispetto per la complessità di un’opera che trabocca disperazione e senso della morte. Ormai abituati solo a tifare per i comizi politici o per le avventure fotocopia di questo o di quell’eroe seriale, cosa riserveranno lunedì sera gli spettatori all’«infernale plasticità» di Brando, alla luce di Storaro, alla musica di Barbieri? Al genio di Bertolucci?

Corriere 20.1.18
Da dove ripartire

I cattolici e la classe dirigente
di Angelo Panebianco


Accade talvolta che una discussione pubblica sia molto più interessante per ciò che essa sottintende, per ciò che vi si scorge sottotraccia, che non per gli argomenti usati dai partecipanti. Tale è forse il dibattito che (nel centenario dell’ «Appello al Paese» di Luigi Sturzo, il padre del popolarismo) sta animando alcuni settori della Chiesa e ambienti ad essa collegati. Esprime il desiderio o la speranza (non ancora un progetto) di vedere rinascere, qui in Italia, un partito dei cattolici. Se ne comprendono le ragioni. Da un lato, una generale insoddisfazione, che accomuna molti cattolici (ma non solo loro), per la qualità della classe politica italiana nelle sue varie componenti. Dall’altro lato, il fatto che in Italia viga di nuovo il metodo elettorale proporzionale: nella lunga età dell’oro del (secondo) partito cattolico - la Democrazia cristiana - c’era, per l’appunto, il proporzionale. Perché non cogliere l’occasione?
Sia detto col massimo rispetto possibile: la discussione mi pare poco sensata. La politica dell’identità cattolica è fuori tempo massimo. Non si tiene conto della secolarizzazione: come è possibile ipotizzare che a chiese poco frequentate e a seminari vuoti possano corrispondere urne elettorali traboccanti di voti cattolici? Davvero avrebbe senso dare vita a un partito dei cattolici del 4, del 5 o persino dell’8 per cento?
Non sarebbe un modo, abbastanza autolesionista, di fare «pesare» ufficialmente, pubblicamente, la propria (ormai scarsa) forza politica? Si tenga per giunta conto del fatto che il tramonto della politica dell’identità cattolica qualche vantaggio ai cattolici lo ha comunque dato. Oggi un leader politico capace può attirare il consenso di cattolici e di non cattolici indifferentemente. Solo la sua qualità e le sue proposte contano. Il fatto che, eventualmente, egli sia un cattolico, di sicuro non impedirà a elettori non credenti di apprezzarlo e di sostenerlo.
Ciò premesso, il dibattito sul partito cattolico è interessante per ciò che sottintende. Vi ha accennato Ernesto Galli della Loggia ( Corriere , 18 gennaio) nella sua ricostruzione sul ruolo politico dei cattolici italiani. Il «sottinteso», il sottotraccia, riguarda il modo di formazione delle classi politiche in Italia. Con tutta evidenza, la scomparsa dei partiti politici storici dei primi anni novanta, ha fatto scomparire anche sedi e canali mediante i quali venivano «allevati», educati, i futuri politici. È da quel buco nero che sono schizzati fuori i tantissimi dilettanti allo sbaraglio che affollano la vita pubblica italiana, persino in posizioni apicali. C’è per lo meno un barlume di razionalità (ossia, se ne capiscono le ragioni), nel fatto che qualcuno abbia pensato: se non ci sono più i partiti storici a formare le classi politiche, perché non rivolgersi alle istituzioni ecclesiali? Con le loro tradizioni e la loro antica sapienza non mantengono forse una capacità di formazione di classi dirigenti che non è presente in altri luoghi? A parte il fatto che anche quelle istituzioni e le loro antiche capacità sembrano essersi alquanto deteriorate negli ultimi tempi, resta che, pur essendo comprensibile, questo ragionamento è fallace. Se quella strada venisse davvero percorsa verrebbero danneggiate in un colpo solo la democrazia italiana (colpita nella sua laicità) e la Chiesa (trascinata per i capelli dentro lotte partigiane).
Però l’esigenza che sta sottotraccia in quel dibattito permane. Come formare classi politiche di qualità? Poiché i partiti, così come (nel bene e nel male) li abbiamo conosciuti, non sono più ricostituibili nell’epoca dei social , che si può fare? Una strada (forse l’unica possibile, almeno sulla carta) ci sarebbe. Premetto che ci sono due pesanti controindicazioni. La prima è che gli eventuali buoni risultati potrebbero venir fuori solo nel medio-lungo termine. La seconda è che non sarà una strada praticabile fin quando le cosidette élite continueranno a fare spallucce, a voltarsi dall’altra parte, o a sbadigliare (come hanno sempre fatto), quando qualcuno solleva l’argomento.
Chi vuole avere in futuro élite politiche di valore deve ricostituire scuole, di ogni ordine e grado, di valore, deve reimpostare in chiave rigorosamente meritocratica il nostro sistema educativo. Attenzione, non si tratta di cadere nell’ingenuità di credere che ciò di per sé possa formare classi politiche capaci (questo è un pregiudizio intellettualistico che non appartiene a chi scrive). No, avere scuole di qualità comporta la formazione di una massa critica di «pubblico attento», indisponibile a perdonare ai politici strafalcioni e fesserie. Un folto pubblico attento, prodotto di scuole di qualità, non avrebbe mai permesso a politici di poco valore, ad esempio, di incoraggiare i no vax e altre correnti irrazionali (che cosa è successo e perché agli ulivi pugliesi attaccati dalla Xylella?) che rendono la vita quotidiana irrespirabile.
La selezione di classi politiche migliori può essere solo un sottoprodotto: il frutto della affermazione di un pubblico (minoritario ma comunque consistente) composto da persone rese esigenti grazie a un sistema di istruzione di qualità.
In tanti si strappano i capelli oggi perché la vita pubblica è affollata da mediocri. Ma se costoro non capiscono quanto abbia pesato e quanto pesi il deterioramento del sistema educativo, allora ciò significa che anch’essi sono dei mediocri. Non importa, francamente, se sono cattolici o non lo sono.

Il Sole Domenica 20.1.19
Tommaso Campanella. La religionecristiana è come una legge naturale
Un papa che governi il disordine del mondo
di Michele Ciliberto


Negli ultimi decenni c’è stato un notevole fiorire di scritti intorno a Tommaso Campanella, ai quali si è accompagnata la scoperta di testi fondamentali come l’autografo volgare dell’Atheismus triumphatus, ad opera di Germana Ernst che, nel 2004, lo ritrovò nella Biblioteca Apostolica Vaticana. E proprio la Ernst è stata la studiosa che ha dato i maggiori contributi a una nuova interpretazione di Campanella, sia con essenziali saggi critici sia con l’edizione di molte opere di Campanella – come ad esempio, per citare un solo caso, l’Ethica, pubblicata in collaborazione con Olivia Catanorchi.
Mancava però una monografia che facesse il punto sulla figura e sull’opera di Campanella alla luce di questo spettro amplissimo di edizioni e di saggi critici. Da poco è uscito un libro di Luca Addante, ma si concentra in primo luogo sull’ampia e variegata storiografia su un autore così complesso, pur proponendo una propria interpretazione della figura e dell’opera dello Stilese: un libertino, un eretico, uso a ricorrere alle armi della dissimulazione per evitare di far trapelare il proprio pensiero autentico, sostiene Addante riprendendo il filo delle proposte critiche di Rosario Villari sul significato e la funzione della dissimulazione nella cultura italiana tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento.
Saverio Ricci colma questa lacuna con un libro che è destinato a diventare un punto ineludibile di riferimento per gli studiosi della cultura rinascimentale, affiancandosi agli altri lavori da lui dedicati a questo periodo della nostra storia, in modo particolare agli studi sulla fortuna di Giordano Bruno.
Alla base della lunga riflessione di Campanella c’è, secondo Ricci, un problema che l’attraversa dall’inizio alla fine, e al quale cerca di dare una risposta: la crisi del suo tempo storico, la decadenza, anzi il disordine del mondo, «percepito come intreccio di falsità filosofica, sperequazione, spreco, carestia, malattia, conflitto ...».
È, per molti aspetti, lo stesso problema di Giordano Bruno, che si interroga, anche lui, sulla decadenza filosofica, scientifica, civile che travolge l’Europa, scuotendone le stesse fondamenta. Ma se il problema è per molti aspetti comune, la proposta per affrontare e risolvere la crisi è profondamente differente. Per Campanella la chiave per uscire dalla decadenza è un nuovo governo universale con un ruolo centrale del papa e della Chiesa cattolica – l’opposto di quello che pensa Bruno, il quale pure distingue fra cattolicesimo e Riforma, individuando nei riformati gli angeli del male che stanno distruggendo l’Europa e l’umanità.
Distante dalle interpretazioni di Campanella in chiave libertina, Ricci snoda questo filo lungo tutto il libro, criticando le interpretazioni che insistono sulla ambiguità dello Stilese, sulla mancanza di continuità della sua riflessione, sulle incoerenze che la segnerebbero. Ricci vuole presentare invece una immagine unitaria, coerente, della filosofia di Campanella, pur mettendone a fuoco la pluralità delle linee – e delle prospettive strategiche che la connotano – ma nel quadro di una posizione che al fondo è coerente e resta sempre fedele alle sue ragioni originarie.
Il Campanella di Ricci individua infatti fin dalla giovinezza il suo “problema” fondamentale, cui cerca di dare una risposta muovendosi – e in questa indicazione è uno degli elementi di maggiore originalità del libro – nella prospettiva della globalizzazione cinque-seicentesca, oltre i confini dell’Europa. In questo senso Campanella va oltre l’orizzonte politico di Machiavelli con cui peraltro intrattiene un dialogo critico costante – e su ciò il libro esibisce pagine importanti –, ma in un tempo che ormai non è più storicamente e geograficamente quello del Segretario fiorentino.
Secondo Ricci, in Campanella la religione cristiana e il Cristo «prima sapienza» non sono però altro «che la legge naturale pienamente dispiegata, alla cui applicazione ordinamenti e leggi positive devono essere portati da una nuova prassi politica». È su questa base che egli propone «in un linguaggio presentato come accettabile dalla Chiesa, e creduto propizio anche alla sua personale riabilitazione, una trasfigurazione del cristianesimo e della Chiesa nei principali soggetti della radicale trasformazione della politica umana in senso filosofico, universalistico, comunistico».
Di conseguenza «il papa di cui Campanella invoca la monarchia mondiale non è il papa medievale, signore del mondo, o il moderno principe o sovrano, direttamente o indirettamente temporale, ma il nuovo legislatore, che, seguendo la legge naturale, dovrebbe riformare le istituzioni umane». Il ruolo storico-universale della monarchia di Spagna prima, della monarchia di Francia poi, si inserisce in questo disegno, trapassando in seguito nella monarchia dei cristiani e sfociando infine in una repubblica dei «perfetti», nella quale avranno una funzione decisiva i profeti.
Questa prospettiva consente a Ricci di presentare una visione dell’itinerario critico di Campanella, che, pur riallacciandosi alle posizioni critiche di due grandi studiosi come Luigi Firpo e Germana Ernst, offre notevoli elementi di originalità. A cominciare, per fare un solo caso, dalla Città del sole, di cui – avanzando una ipotesi «suggestiva» – sono messi in evidenza i nessi storici, politici ed anche teorici con la Monarchia di Spagna. Ma è solo un esempio della insistenza di Ricci sulla unità e sulla continuità della figura di Campanella – schizzata, ed anche questo è un tratto interessante, anche nei suoi tratti personali, fisici – alla luce di una interpretazione politica della sua opera: un Cristo politico è quello di Campanella, e politico è il ruolo del papa, unico erede della monarchia di Cristo, ed unico, effettivo, detentore dello scettro finale.
Ma proprio questa insistenza sul ruolo del papa consente di mostrare la grande differenza fra Campanella e Bruno, il cui nome si è richiamato sopra. Nati a venti anni di distanza nell’Italia meridionale, entrambi homines novi, entrambi domenicani, entrambi impegnati a risolvere la crisi del mondo di cui hanno piena, e tragica coscienza, individuano strategie opposte per risolverla. E qui basta citare i versi con cui nel De immenso Bruno delinea la figura in cui si intravedono i tratti del papa romano: con lui, invece della sapienza, «sopraggiunge la follia dal volto suadente, con le tempie incoronate, adorne di tiara e di mitra e cinge di gemme l’asinino dito; ricopre il rozzo busto con una tunica talare a cui stanno intorno la lodata fede dei padri, le bolle ed i sigilli...».
Campanella. Apocalisse e governo universale
Saverio Ricci
Salerno editrice, Roma,
pagg. 601, € 32

il manifesto 20.1.19
Affonda gommone, è strage di migranti: 117 le vittime
Quota 117. Tra i dispersi anche dieci donne e due bambini. Tre i superstiti SeaWatch salva 47 persone. E ricomincia l’attesa di un porto
di Leo Lancari


Vittime della cosiddetta «area Sar» libica, il tratto di mare nel quale le autorità di Tripoli dovrebbero intervenire per soccorrere i barconi di migranti in difficoltà ma che in realtà o non rispondono, come denunciato anche ieri dalla ong tedesca SeaWatch, oppure intervengono inviando una motovedetta che quando non riporta i migranti nei centri di detenzione dai quali sono fuggiti, si guasta – è successo venerdì – e torna indietro. Comunque sia il risultato non cambia: a meno che non ci sia la nave di qualche ong pronta a soccorrerli in acque internazionali, ai migranti in genere restano solo due scelte: essere riportati in Libia oppure naufragare. Questa volta le vittime sono 117, stando a quanto denunciato dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, tra le quali dieci donne, una incinta, e due bambini, uno dei quali di appena due mesi.
È il bilancio, pesantissimo, dell’ultimo naufragio nel Mediterraneo, il primo del 2019 nel quale ancora una volta il coordinamento dei soccorsi era affidato alla Guardia costiera libica. E sempre ieri SeaWatch ha reso noto di aver tratto in salvo altri 47 migranti. «Ora sono tutti al sicuro», ha comunicato in serata la ong. «Abbiamo informato tutte le autorità competenti: quantomeno ci abbiamo provato, non siamo riusciti a raggiungere la cosiddetta Guardia costiera libica. Siamo ora in attesa di istruzioni».
Il gommone naufragato venerdì era partito la sera del giorno prima da Garabulli, una località costiera della Libia considerata uno dei punti di partenza dei barconi. Dopo circa undici ore di viaggio, però, il mezzo ha cominciato a imbarcare acqua e a sgonfiarsi lentamente facendo cadere in mare molte delle persone che si trovavano a bordo. Stando a quanto affermano i libici, verso le 11,30 di venerdì mattina la sala controllo di Tripoli invia in soccorso del gommone una motovedetta che però sarebbe tornata indietro a causa di un guasto. A quel punto sempre Tripoli contatta un mercantile che si trova in zona, il Cardula Jacob che batte bandiera liberiana, indirizzandolo verso il gommone. Una volta sul posto, però, il mercantile non ha trovato nessuno.
Verso le 13,30 un aereo dell’Aeronautica militare di base a Sigonella segnala la presenza del gommone, «in fase di affondamento», sul quale si trovano, stando a quanto riferito dalla Marina militare e dalla Guardia costiera italiana, una ventina di migranti più alcune persone in acqua alle quali l’equipaggio lancia due zattere di salvataggio.
Le comunicazioni dell’evento Sar in corso vengono intercettate dall’aereo Moonbird di SeaWatch. La ong si offre di intervenire in soccorso dei migranti. «Mrcc (la sala di controllo di Roma che coordina i soccorsi) ha rifiutato di fornire informazioni su questo caso, affermando che la responsabilità era di Mrcc Tripoli che, a sua volta, non era disposto e in grado di comunicare», accusa la ong. Che su Twitter punta il dito contro le autorità di Tripoli: «La comunicazione con gli ufficiali libici risulta impossibile in nessuna delle seguenti lingue: inglese, francese, italiana e arabo».
Nel frattempo il gommone viene raggiunto da un elicottero decollato dal cacciatorpediniere Caio Duilio che riesce a salvare le uniche tre persone ancora vive: si tratta di tre uomini, due sudanesi e un gambiano, in stato di ipotermia che vengono trasportati a Lampedusa e ricoverati. Ed è a questo punto che i funzionari dell’Oim scoprono che la tragedia ha dimensioni superiori a quelle sospettate fino a quel momento. «Dalle loro testimonianze abbiamo appreso che a bordo del gommone si trovavano 120 persone, tra le quali anche due bambini e dieci donne», spiega il portavoce dell’Organizzazione, Flavio Di Giacomo. «I racconti combaciano, tutti affermano che hanno imbarcato acqua e hanno cominciato ad affondare».
Su quanto accaduto sono state aperte due inchieste, una della procura militare di Roma e di quella ordinaria di Agrigento, che dovranno accertare eventuali responsabilità.

La Stampa20.1.17
“Gli altri sono annegati davanti ai nostri occhi”
di Fabio Albanese


Erano centoventi. Non i 50 che aveva stimato la Guardia costiera libica, senza però mandare in zona nemmeno una motovedetta e dirottando un mercantile. Non i 20 che l’equipaggio dell’aereo dell’Aeronautica partito da Sigonella ha visto, lanciando loro due battelli di salvataggio.
Non i tre che l’elicottero di nave Caio Duilio della Marina ha recuperato, in ipotermia ma vivi, trasportandoli poi a Lampedusa. Erano 120, venivano da Gambia, Costa d’Avorio, Nigeria, Camerun, una quarantina solo dal Sudan. In 117 sono ufficialmente dispersi, di fatto annegati nelle acque gelide: tutti coloro che erano su quel gommone, tranne i tre naufraghi che ieri, ancora sotto choc, hanno raccontato agli operatori dell’Oim in servizio nell’hotspot di Lampedusa cos’è accaduto venerdì mattina, 50 miglia a Nord-Est di Tripoli.
Sono un gambiano di 22 anni e due sudanesi di una ventina d’anni ciascuno. Sentiti separatamente, hanno fatto il medesimo racconto: «Siamo partiti giovedì notte da Garabulli, eravamo in 120 su un gommone che, dopo dieci-undici ore di navigazione, ha cominciato a imbarcare acqua e ad affondare. Molti sono finiti in mare, annegavano uno dietro l’altro e nessuno poteva far nulla per aiutarli. Con noi c’erano dieci donne, una delle quali era incinta, e due bambini, uno neonato di appena due mesi. Quando ci hanno lanciato dal cielo quei due battelli eravamo rimasti ormai in pochi. Non sappiamo nemmeno noi come abbiamo fatto a salvarci».
«Il loro racconto è lucido»
A riferire il racconto dei tre sopravvissuti è Flavio Di Giacomo, il portavoce italiano dell’Oim, l’Organizzazione delle migrazioni delle Nazioni Unite, che lo ha raccolto dai suoi colleghi che operano nell’hotspot di Lampedusa: «I tre migranti dicono di essere rimasti in acqua tre ore, prima di essere salvati - dice Di Giacomo - ma è difficile dire se abbiano avuto una percezione esatta del tempo trascorso in quelle condizioni. Per il resto però, nonostante siano scioccati, il loro racconto è lucido e il fatto che abbiano tutti e tre riferito le stesse cose, nonostante siano stati sentiti separatamente come vuole la prassi, ci conferma che si tratta di racconti drammaticamente genuini».
I tre hanno anche raccontato di violenze e abusi subiti in Libia, aggiungendo: «Meglio morire, che tornare lì». Ieri pomeriggio il gambiano è riuscito a parlare con i familiari in Africa: «Sono vivo ma gli altri sono morti tutti», ha detto in una telefonata che i testimoni dicono sia stata molto commovente.
Secondo una ricostruzione, l’allarme per il gommone è partito giovedì intorno alle 11,30 quando la Guardia costiera libica ha disposto l’invio in zona, tra 40 e 50 miglia a Nord-Est di Tripoli, di una propria motovedetta che però poco dopo avrebbe avuto un’avaria dovendo far rientro alla base. I libici hanno detto che a bordo del gommone c’erano 50 persone. È stato quindi deciso di inviare un mercantile libanese, il Cordula Jacobs, che però ha impiegato diverse ore per arrivare sul posto e non ha trovato nulla.
L’intervento dell’Aeronautica
Nel primo pomeriggio, con l’allarme noto anche alla sala operativa della Guardia costiera italiana, un aereo da ricognizione del 41° Stormo dell’Aeronautica, partito dalla base di Sigonella, ha avvistato il gommone ormai semi affondato; l’equipaggio ha riferito di aver visto a bordo 20 persone e poche altre in mare e ha lanciato in acqua due battelli di salvataggio prima di rientrare alla base perché a corto di carburante.
Da nave Caio Duilio della Marina militare, impegnata nell’operazione Mare Sicuro e distante 110 miglia dal luogo del naufragio, si è alzato in volo l’elicottero che ha avvistato tre cadaveri e ha poi trovato i tre naufraghi: due su uno dei battelli lanciati dall’aereo, l’altro in mare. Li ha recuperati tutti, prima portati sulla nave che nel frattempo si era diretta verso la zona, e quindi a Lampedusa.
Nelle stesse ore, il Moonbird, l’aereo da ricognizione delle Ong, ha intercettato le comunicazioni radio dell’emergenza Sar e ha informato la Sea Watch 3, l’unica nave umanitaria rimasta in tutto il Mediterraneo, che ha chiesto a Roma di poter intervenire, ottenendo però in risposta di prendere contatti con Tripoli. Inutilmente, perché nessuno avrebbe loro risposto. La Sea Watch 3, che era distante diverse ore di navigazione, ha dunque fatto rotta verso il luogo del naufragio dove è arrivata in piena notte, non trovando nulla se non i due battelli di salvataggio ormai abbandonati. Degli altri 117 naufraghi, nessuna traccia.

Il Fatto 20.1.19
“Meglio morti che in Libia”. La strage continua in mare
Naufraga un gommone a 45 km da Tripoli, 117 affogati. Le parole dei tre superstiti rimasti in acqua per ore prima dei soccorsi
di Andrea Ossino


I sommersi e i salvati. Le onde calme sono un cimitero buio. A fare da lapide due piccole zattere gialle, deserte, mentre un gelido silenzio ha già preso il posto delle urla di chi – ben 117 persone – è morto annegato. “C’è qualcuno?” domanda Giuseppe Borello, inviato di Carta Bianca, mentre con i volontari della Sea Watch 3 si avvicina alle zattere. Non gli risponde nessuno. Poche ore prima è stato un elicottero della Marina Militare a salvare il salvabile. L’immensa miseria di 3 vite su 120. Le due scialuppe di salvataggio vengono lanciate da un aereo della Marina Militare che operano per l’operazione Mare Sicuro”.
Il velivolo nota il gommone. Lancia in mare le Coastal e allerta la base. Un elicottero giunge sul posto il prima possibile. Ma comunque troppo tardi. Non sono riuscite ad afferrarle nove donne. Una era incinta. Non hanno accolto un neonato di appena due mesi. E con loro tutti gli altri migranti. Si salvano solo in tre. Il gommone ha iniziato a imbarcare acqua dopo dieci ore dalla partenza. I tre superstiti – un ventiduenne del Gambia e due ragazzi del Sudan – hanno raccontato l’inferno: compagni di viaggio che si gettavano in mare, che non riuscivano a tenersi all’imbarcazione, annegavano tra le onde. “Hanno raccontato le sevizie e gli abusi subìti e hanno detto: “Meglio morti che in Libia”, spiega Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale dei migranti. “Venivano da Nigeria, Gambia, Costa D’Avorio – continua – c’erano anche una quarantina di sudanesi”. Scappavano dalle sevizie libiche e dai loro paesi di origine. Il sogno di un futuro migliore è naufragato tra le acque internazionali, in quella che dovrebbe essere la Sar libica, dove, quando i soccorsi funzionano, i migranti perferiscono lanciarsi tra le onde, pur di non tornare nei lager nordafricani. È lì che fino a qualche tempo fa navigavano le navi della Ong. “C’è nessuno?”, chiede più volte, Borrelli, prima di arrendersi al silenzio e rimettersi in viaggio con i volontari della Sea Watch. Dai sommersi ai salvati, in questo Mediterraneo improvvisamente tornato a un traffico intenso, il passo è breve. La Sea Watch incrocia un’imbarcazione alla deriva e soccorre 47 persone. Ed è un sollievo sentire le loro voci piene di gioia per la salvezza ottenuta: è gente partita alle 3 della notte da Zuhara, al buio, per sfuggire alla guardia costiera libica. Ha navigato finché ha potuto, finché il motore ha retto e qualcuno non li ha soccorsi. Se non ci fosse stata la Sea Watch conteremmo altri 47 morti. Le loro storie sono quelle di sempre.
Le stesse tragedie di ogni migrante che transita in Libia: violenze, estorsioni, ricatti ai familiari. Prigionie che variano tra i 6 e i 9 mesi. Così si passa dalla morte alla vita e dalla vita alla morte navigando nel Mediterraneo.
I volontari della Sea Watch ci avevano provato, a salvare i 117 sommersi, di poche ore prima. “Oggi, Moonbird ha sentito la comunicazione di un caso di pericolo (…) Una nave mercantile è vicina ma non aiuta”, recita un tweet di venerdì scorso della Ong che accusa: “Si sono rifiutati di fornirci informazioni sul caso, informandoci solo che MRCC Tripoli sarebbe stata responsabile. Abbiamo chiamato anche lì – nessuno parlava EN / FR / IT, nemmeno l’arabo”. Immediata la risposta della Guardia Costiera, che spiega di aver comunicato alla Ong “che la loro disponibilità sarebbe stata offerta alla Guardia Costiera libica, quale Autorità coordinatrice dell’evento”. “Se non avessimo ascoltato questo messaggio via radio, probabilmente non avremmo sentito parlare di questa strage”, aggiunge Kim Heaton-Heather, capo Missione di Sea-Watch. 117 sommersi e 43 salvati. E un altro fatto certo: “Abbiamo avuto 68 soccorsi due giorni fa, poi questo naufragio con 120 partiti giovedì sera, poi 47 soccorsi da Sea Watch – continua Flavio Di Giacomo dell’Oim – O è più facile partire dalla Libi,a per qualche motivo, o la guardia costiera libica è completamente assente. È evidente che in questo momento in Libia ci sono problemi. Un numero così alto di sbarchi, i coso poco tempo, non li vedevamo da tanto”. Inoltre, secondo l’Unhcr, che cita notizie diffuse da Ong, ci sarebbe stata un’altra tragedia di migranti, nel Mare di Alboràn. I morti, in questo caso, sarebbero 53. Solo un uomo si è salvato, dopo aver trascorso un giorno intero in balia delle onde.

Il Fatto 20.1.19
“Li hanno lasciati morire. Noi ci abbiamo messo 7 ore e domani ci attende un D-day”
A bordo - La testimonianza dell’inviato di “Carta Bianca” imbarcato sulla Sea D-day”
di Giuseppe Borello


Mi sono imbarcato sulla SeaWatch3 il 3 gennaio scorso, nel bel mezzo di un braccio di ferro tra le diplomazie europee per l’accoglienza dei 32 migranti allora a bordo. “Non siamo dei pesci, perché ci lasciano in mare?”, chiedevano. Anche se sono un giornalista che è qui per documentare, a bordo siamo pochi e tutti devono fare tutto, così mi sono ritrovato nella squadra dei salvataggi.
Ero sul primo gommone veloce della Sea Watch che ieri ha soccorso i migranti in mezzo al mare. Erano alla deriva, su un gommone col motore che non andava più: la punta dell’imbarcazione era inclinata. Era evidente che nel giro di poche ore si sarebbe sgonfiata. La barca era stracolma. Quando ci siamo avvicinati gli abbiamo gridato “Siamo europei!”. Era per fargli capire che non eravamo libici. Loro non vogliono essere salvati dai libici. Piuttosto si lanciano in mare rischiando di annegare. Poi è cominciato il salvataggio: 47 persone per lo più dal Sudan, Guinea, Senegal, Gambia Nigeria. Tanti minori.
Tutta un’altra scena rispetto alla notte prima, quando siamo arrivati sul luogo del naufragio in cui hanno perso la vita in 117. Avevamo ricevuto una comunicazione che ci segnalava un avvistamento aereo della nostra Marina di gommoni semiaffondati con persone in mare: erano state lanciate zattere di primo soccorso, invitando ad accorrere le navi in zona. Abbiamo cercato di capire chi li soccorresse. Ma né da Roma né dalla Libia c’era risposta. Dopo 7-8 ore di navigazione con la SeaWatch3 in piena notte abbiamo cercato disperatamente persone da salvare. Ma non restava che un cimitero.
Ho parlato con dei ragazzi senegalesi, soprattutto. La prima cosa che ti dicono è grazie per averci salvato. Sono partiti da Zuwara tra le 3 e le 4 di mattina, per non essere intercettati hanno navigato finché il motore gli ha retto. Raccontano che i libici gli dicevano di stare tranquilli perché il Mediterraneo si può attraversare in tre ore, perché è un mare piccolissimo: gli dicono che i gommoni sono sicurissimi. Costo del viaggio: fino a 5.000 dinari, mille euro circa. In Libia, a Sabrah, molti di loro sono stati rapiti, costretti a chiedere soldi alle famiglie. Li facevano inginocchiare e telefonare a casa, tutto col viva voce così che le famiglie potessero sentire i colpi di kalashnikov che sparavano. Nei campi libici sono stati in media sei mesi. Raccontano che i trafficanti sono pronti per lanciare altri gommoni: i migranti che ho intervistato dicono che è pieno di persone che aspettano il mare calmo per poter intraprendere il viaggio. E sulla Sea Watch siamo in allerta. Viste le condizioni meteo, si prevede un “D-Day”, uno sbarco con mezzi di fortuna tra domani e dopodomani.
Quando partivano dalla costa libica, si vedevano in lontananza delle luci. Erano quelle di una piattaforma petroliferi, ma i trafficanti si prendevano gioco di loro dicendo: “Quella è l’Europa”.
* inviato di “Carta Bianca”
di Giuseppe Borello* | 20 Gennaio 2019

il manifesto 20.1.19
Salvini contro tutti: ong, chiesa e intellettuali
Strage nel Mediterraneo. Il vice premier attacca le ong, alludendo a una loro presenza in mare in concomitanza con i naufragi. Il sindaco di Palermo: «Al ministro Salvini direi: si farà un secondo processo di Norimberga e non potrà dire che non sapeva»
di Adriana Pollice


«Tornano in mare davanti alla Libia le navi delle Ong, gli scafisti ricominciano i loro sporchi traffici, le persone tornano a morire. Ma il cattivo sono io. Mah»: è la riflessione che Matteo Salvini ieri ha messo a commento della diretta Facebook.
BREVI DIVAGAZIONI sull’universo con un tema centrale: porti chiusi anche a costo di altri morti nel Mediterraneo. Un tema difficile sviluppato in un ambiente bucolico: felpa del gruppo sportivo della polizia in omaggio al pomeriggio di relax, gli utenti collegati oltre alla propaganda hanno potuto consumare anche un tour virtuale nell’orto tra cani, oche, galline, il tramonto sullo sfondo. Gran finale con saluti personalizzati, come nelle radio anni ’80.
La notizia ieri erano i dispersi dell’ennesimo gommone affondato per i ritardi nei soccorsi della Guardia costiera di Tripoli, mentre in 47 si erano salvati grazie alla Ong tedesca Sea Watch. Il presidente Sergio Mattarella nel pomeriggio ha espresso «profondo dolore per la tragedia che si è consumata nel Mediterraneo». Il leader leghista ha attaccato via social:
«Finché i porti europei rimarranno aperti, finché qualcuno continuerà ad aiutare i trafficanti, purtroppo gli scafisti continueranno a fare affari e a uccidere. Magari cominceranno le litanie “aprite, spalancate, accogliete”: no, no, no. Cuori aperti per chi scappa dalla guerra ma porti chiusi per Ong e trafficanti».
IL BERSAGLIO sono le organizzazioni non governative: «Una Ong ha recuperato decine di persone. Si scordino di ricominciare la solita manfrina del porto in Italia. Si scordino di ricominciare come a Natale e Capodanno. La difesa dei confini nazionali è un dovere costituzionale». E ancora: «Sarà una coincidenza che da tre giorni c’è una nave di una Ong olandese e tedesca che gira davanti alle coste della Libia e gli scafisti tornano a far partire barchini e barconi, che poi affondano. Se uno schifoso trafficante sa che se mette in mare questi disperati c’è qualcuno che li aiuterà, continuerà a far quattrini. Quelli che si fingono buoni si rivelano aiutanti dei cattivi». Per poi concludere: «Vada a Belino e faccia il giro lungo passando da Rotterdam, facendoli scendere ad Amburgo».
UN UTENTE, Michele, gli scrive: «Sono morte 112 persone in mare, di certo santo lei non è». Salvini replica: «Nei loro paesi, con vie regolari, con associazioni e Ong per bene si distinguono coloro che scappano dalla guerra, e sono pochi, da coloro che non hanno diritto a partire». Il ministro dell’Interno snocciola i numeri: nei primi 19 giorni di gennaio il calo degli arrivi è stato del 94%; più di 2mila sbarchi l’anno scorso, nel 2019 «siamo fermi a quota 100, meno problemi per chi parte e per gli italiani. Risolti i problemi dell’immigrazione – promette Salvini – potremo tagliare le tasse, azzerare la Fornero in modo da lasciare i posti ai giovani. In Italia prima c’erano diritti per tutti, casa per tutti, sanità per tutti». Una frase che sarà suonata come musica alle orecchie di Forza nuova, che ieri ha manifestato a Milano al grido di «casa e lavoro solo agli italiani».
SALVINI SE LA PRENDE anche con la Chiesa: «Adesso cominceranno le litanie degli intellettuali, dei professoroni, di un cardinale. Qualche parroco su qualche giornale scriverà “chi viene a messa non può votare Lega”. Siete superati». L’Osservatore romano ieri titolava «Strage nel Mediterraneo» e padre Alex Zanotelli attaccava: «Abbiamo un governo di barbari, la situazione è insostenibile. I nostri nipoti ci paragoneranno ai nazisti».
E IL PREMIER? Giuseppe Conte era in missione a Matera (da ieri Capitale della cultura 2019). Si è affidato a una diretta Facebook per allinearsi alla dottrina Salvini, evitando però di accusare le Ong: «Sono scioccato , siamo più convinti di prima nel contrastare i trafficanti. Non avrò pace fino a quando non saranno assicurati alla Corte penale internazionale. Quando avrò smesso il mandato di premier, mi dedicherò al diritto penale per perseguirli».
Di Maio accusa Parigi: «Ci sono paesi europei, in particolare la Francia, che tengono sotto scacco le economie africane impoverendole». Diverso il pare di Roberto Fico, «Salvare vite umane è quello che fa una società sana», e della ministra della difesa Elisabetta Trenta che ha commentato: «Il mio più profondo dolore per il naufragio nel quale hanno perso la vita oltre 100 persone. L’Europa non può più restare a guardare». Il sindaco di Palermo Orlando attacca: «Al ministro Salvini direi: si farà un secondo processo di Norimberga e non potrà dire che non sapeva».

Il Fatto 20.1.19
Caccia (a ostacoli) ai 14 latitanti fuggiti in Francia
Condannati - I rifugiati Oltralpe grazie alla “dottrina Mitterrand” e al rifiuto di Parigi di riconoscere le condanne in contumacia
di Alessandro Mantovani e Davide Milosa


Dopo la cattura di Battisti, ora si punta tutto sulla Francia e sui 14 ex terroristi che lì hanno trovato riparo da anni ormai. L’obiettivo del governo è dichiarato. Per questo il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato di voler incontrare a breve il presidente francese Emmanuel Macron. L’ordine del Viminale è accelerare su altre posizioni ritenute perseguibili. Salvini ha fatto sapere ieri che “sul suo tavolo” c’è una lista di 30 ex terroristi sparsi in tutto il mondo e già condannati in Italia per fatti legati agli anni della lotta armata nel nostro Paese. Primi della lista dunque i 14 presenti sul suolo transalpino, dove grazie alla cosiddetta “dottrina Mitterrand” ma anche alla rifiuto dei giudici francesi di riconoscere le condanne pronunciate in contumacia in Italia, hanno trovato un ventennale rifugio. L’arresto di Battisti ha dato fuoco alle polveri. La conferma arriva anche da fonti dell’intelligence che in questo momento si concentra su posizioni meno note dal punto di vista mediatico. Sono al lavoro anche i tecnici del ministero della Giustizia.
Certo, la questione non è così semplice. Sui 14 italiani in Francia molte sono le differenze dal punto di vista della posizione giudiziaria. Su tutti, allo stato, pende una richiesta di estradizione da parte del nostro governo. Richiesta che pur respinta negli anni è stata poi reiterata sulla base di nuove note informative.
Della lista fa parte certamente Narciso Manenti, ex membro di Guerriglia proletaria, che nel 1979 a Bergamo uccise il carabiniere Giuseppe Gurrieri. Pochi giorni fa, dopo l’arresto di Battisti, si è saputo che la Procura di Bergamo il 17 maggio 2017 ha firmato una nuova richiesta di cattura. Allo stato la Francia non ha risposto. Sul caso è tornata a lavorare l’Interpol che ha chiesto i nuovi atti depositati. Manenti oggi fa l’elettricista a domicilio è vive a Châlette-sur-Loing nella valle della Loira. Un segnale chiaro quello del governo italiano, ma non di facile attuazione. Il mandato di cattura europeo è sì oggi uno strumento di grande efficacia nell’area Schengen ma in Francia, come anche in Italia, non è applicabile per fatti precedenti al 2004. Un ostacolo non di poco conto visto che stiamo parlando di casi tutti molto datati. Vi sono poi posizioni che risultano già prescritte. E sono, ad esempio, quelle di Simonetta Giorgieri, già condannata per il sequestro Moro e latitante in Francia dal 1980, poi associata alle recenti indagini delle nuove Br-Pcc. E anche quella di Carla Vendetti.
Diversa la questione per Marina Petrella, brigatista coinvolta nel sequestro Moro. La sua estradizione fu bloccata dall’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, per motivi di salute. Se questi motivi dovessero venir meno, ma sarà difficile, potrebbe essere estradata. Della prescrizione a breve beneficerà anche Giorgio Pietrostefani, tra i fondatori di Lotta continua e condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario dell’ufficio politico della QQuestura milanese, Luigi Calabresi (17 maggio 1972). Posizione pressoché simile per l’ex Br Enzo Calvitti, condannato per il tentato omicidio di un funzionario di polizia e per Maurizio Di Marzio, anche lui ex Br, condannato a 15 anni per una serie di attentati.
Partita differente quella che riguarda Alvaro Lojacono, 63 anni, killer delle Br, condannato all’ergastolo per la strage di via Fani ma anche a 16 anni per l’omicidio dell’estremista di destra Mikis Mantakas nel 1975 a Roma. Oggi Lojacono è cittadino svizzero e ha preso il cognome della madre, Baragiola. La Svizzera non estrada i suoi cittadini e nemmeno i residenti permanenti. Nei giorni scorsi, intervistato da un quotidiano elvetico, si è detto pronto a scontare l’ergastolo in Svizzera. L’Italia così potrebbe chiedere già la prossima settimana di processarlo. C’è però un problema: Lojacono ha già scontato 17 anni. Se condannato dovrebbe scontare appena 3 anni, visto che in Svizzera non è prevista una detenzione superiore ai 20 anni.
Ci sono poi i latitanti in stile Battisti, quelli cioè che hanno scelto il Sudamerica. Alessio Casimirri, ergastolo per il sequestro Moro, non è estradabile essendo a tutti gli effetti cittadino nicaraguense. Qui si è sposato e oggi gestisce due ristoranti a Managua. Poi ci sono le posizioni che la nostra polizia tratta come veri latitanti. Ovvero, si sa il nome ma non la localizzazione. È il caso di Oscar Tagliaferri, ex Prima linea, condannato per omicidio e associazione sovversiva fuggito in Perù e del quale si sono perse le tracce. C’è, infine, l’altra metà della luna, ovvero i terroristi di destra, come l’ex Nar Vittorio Spadavecchia, condannato per banda armata e rifugiato a Londra. Nessun omicidio contestato e anche per questo il governo italiano non ha reiterato la richiesta di estradizione (già negata due anni fa), visto che il reato è ormai sulla strada della prescrizione. Insomma, se la battaglia su Battisti è stata un successo, proseguire la guerra non è facile.
di Alessandro Mantovani e Davide Milosa

il manifesto 20.1.19
La Women’s march a Roma contro la violenza Ieri la manifestazione a Roma
di Alessandra Pigliaru


“Neoliberismo, sfruttamento, violenza: sono tutti sinonimi del patriarcato”. In tante si sono trovate ieri in piazza Santi Apostoli a Roma per il terzo anno della Women’s march che nella capitale, come nel mondo, catalizza associazioni, comunità e gruppi di donne (e uomini) che intendono dire no al sopruso vorace di una politica machista e coercitiva. A Roma prensente anche la Casa internazionale delle Donne, insieme alla rete dei centri antiviolenza Di.Re. che, sostengono questa marcia della libertà femminile contro ogni forma di razzismo, sessismo e neofascismo. Elizabeth Farren, organizzatrice e parte della women’s march global, presente in piazza insieme a Loretta Bondi della Casa internazionale di Roma e molte altre che, quotidianamente e capillarmente, lavorano sui territori. In particolare le donne dei centri antiviolenza che, non lo si ripeterà mai abbastanza, fanno un lavoro imprescindibile accanto a chi decide di intraprendere un percorso di fuoriuscita dalla violenza e che pur tuttavia non vengono sostenute abbastanza da un punto di vista economico.
Nel 2017, dopo l’elezione di Donald Trump, negli Stati Uniti è stata organizzata la prima Women’s March che ha raccolto milioni di donne rappresentando una forma generativa di politica. Se in queste ore, al netto delle polemiche –  da approfondire e verificare nei loro punti poco chiari – riguardo le accuse di antisemitismo che alcune organizzatrici hanno ricevuto, ancora molte donne si ritrovano nelle strade del mondo a dire no alla violenza neoliberista e patriarcale, è segno che nei tempi impietosi che il mondo attraversa, la parola delle donne diventa azione immediata con un protagonismo di eccezionale e impareggiabile forza.

Il Fatto 20.1.19
I “diavoli” pedofili erano finti, le tragedie sono vere
1997-1998 - Il podcast di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli riapre un caso dimenticato: i bambini modenesi spinti ad accusare i loro genitori   
Un inferno in terra – Dopo le deposizioni dei bambini, nella Bassa modenese si sono distrutte tante famiglie – Ansa
di Selvaggia Lucarelli


“Poi c’era il prete… nel senso di dire che lui faceva la messa, però dedicata al diavolo… allora è andato a prendere l’ostia, è venuto lì al cimitero e ci ha detto ‘Gesù non esiste’… Poi ci ha parlato del diavolo, che la notte ti viene a prendere… Lui ci metteva sulla tomba e ci faceva fare delle cose come ballare, fare dei gesti… Noi avevamo anche dei gatti e noi li uccidevamo. Mio padre il sangue dei gatti ce lo faceva bere a noi. Poi a certi bambini gli aprivano qua e veniva fuori tutto il sangue, si vedevano delle sacche. Dopo ce li facevano uccidere. Io ne ho dovuti uccidere cinque…”.
Il racconto è quello di un bambino. Un bambino vero, che è sottoposto a un vero interrogatorio. Sono veri gli assistenti sociali e i pm che l’hanno ascoltato tante volte. È vero che la sua atroce testimonianza, come quella di tanti altri bambini, ha portato in galera molte persone. Genitori, preti, amici, nonni. Che 16 bambini sono stati allontanati per sempre dalle loro famiglie. Che qualcuno, in questa storia, è morto suicida, che qualcuno è morto di dolore. Quello che non è vero è ciò che il bambino racconta. Non ci sono mai stati calici da cui bere sangue di gatto, bambini giustiziati, preti satanisti, padri pedofili.
Quello che è vero è che queste testimonianze, tra il 1997 e il 1998, hanno dato vita a uno dei fatti di cronaca e a una serie di errori giudiziari tra i più osceni e incredibili della storia di questo Paese: la vicenda dei diavoli della Bassa Modenese. Una vicenda torbida di cui si sapeva poco e si ricordava poco, finché la tigna investigativa dei giornalisti Pablo Trincia e Alessia Rafanelli non ha riaperto il caso stravolgendo convinzioni impolverate, cercando i protagonisti, sbobinando 80 ore di interrogatori, leggendo carte processuali, calpestando campi e cimiteri della Bassa. Il tutto è finito nel podcast Veleno di Repubblica scaricato da centinaia di migliaia di persone che ha dato voce e coraggio ai protagonisti di una storia ingiusta, una storia che ora – dopo 20 anni – pretende giustizia.
I fatti. Nel 1997, in un paesino di poche migliaia di abitanti, Massa Finalese, un bambino di tre anni viene allontanato dalla sua famiglia naturale, i Galliera. Gli assistenti sociali lo affidano prima a un istituto e poi a un’altra famiglia, anche se il bambino, ogni tanto, trascorre dei fine settimana con i veri genitori, suo fratello Igor e la sorella Barbara. Questo fino al 23 febbraio 1997, l’ultimo giorno in cui il piccolo, che ormai ha sette anni, vedrà la sua famiglia naturale. Perché? Perché ha cominciato a raccontare prima alla maestra, poi agli assistenti sociali che suo padre, sua madre, suo fratello abusano di lui. I genitori vengono arrestati.
Il bambino racconta altre cose orribili. Dice che mamma e papà lo vendevano a un’amica, Rosa, che assieme a suo marito lo costringeva a picchiarla con un bastone e un attizzatoio, che poi scattavano delle polaroid. Arrestati anche loro. Ma è solo l’inizio. Il bimbo aggiunge che anche due sue amichette subiscono abusi con la complicità delle famiglie. Entrambe vengono visitate da una ginecologa della clinica Mangiagalli di Milano, Cristina Maggioni, che conferma i sospetti. Vengono allontanate dai genitori che finiscono prima in carcere e poi ai domiciliari. La mamma di una delle due, Francesca, non regge il trauma e si butta dal quinto piano dopo aver telefonato all’altra famiglia finita in carcere con lei per dire: “Vi ho voluto tanto bene, mi dispiace”. Il bambino coinvolge anche il prete, don Giorgio Govoni. Dice che lui fa le messe nere nei cimiteri. Che sfilano tutti insieme di notte – prete, genitori, bambini – per andare a invocare Satana. Il prete, uno buono, uno che aiutava i poveri, morirà di infarto nel maggio del 2000 nello studio del suo avvocato, dopo che il pm aveva chiesto una condanna di 14 anni.
Altri bambini faranno i nomi di amichetti, nonni, cugini, genitori. Venti persone finiranno in carcere, sedici bambini verranno allontanati dai genitori. Qualcuno morirà di infarto dopo la sentenza, qualcuno si ammalerà di tumore in galera. I racconti dei bimbi sono terrificanti: sangue di gatto dato da bere ai piccoli, neonati giustiziati da bambini nei cimiteri, stupri collettivi, i genitori travestiti chi da tigre, chi da pantera, chi da vampiro, bimbi rinchiusi nelle bare, costretti a picchiarsi tra di loro. Il peggiore film horror che possiate immaginare. Già, film. Perché nella realtà nessuno troverà mai il cadavere di neonato, nonostante sia stato perfino dragato un fiume. Nessun bambino andrà mai a scuola con un livido. Non troveranno mai tracce di messe sataniche, nessuna perquisizione a casa degli imputati restituirà anche una sola prova di filmati, violenze, foto, rituali. Per sfilare travestiti da tigri e vampiri, in un paese di 4.000 abitanti con gatti e neonati, senza essere mai stati notati da nessuno, non sarebbero bastate neppure le nebbie modenesi.
Ci vorranno 17 anni di processi per arrivare a molte assoluzioni. Alcuni invece sono stati condannati anche in cassazione, qualcuno nel frattempo è morto. C’è chi ai tempi è scappato in Francia per la paura che gli togliessero pure il figlio che stava per nascere. Tutti si sono sempre dichiarati innocenti. Nessuno ha mai più avuto indietro i propri figli.
Quello su cui si è sempre fondata l’accusa, oltre alle visite mediche, è la testimonianza dei bambini. Ed è su questo che il lavoro di Trincia e della Rafanelli si sofferma. Gli audio delle testimonianze dei bambini alla psicologa dei servizi sociali dell’epoca Valeria Donati sono sconcertanti. C’è il bambino che non ha voglia di confessare chissà quali atrocità e gli viene detto che se non parla “il mare si allontana”, ovvero andrà al mare a divertirsi chissà quando. Ci sono poi le testimonianze di alcuni di questi ragazzini, rintracciati dai giornalisti, che oggi sono adulti e che si dicono certi di essere stati indotti a inventarsi tutto. C’è la psicologa in questione, che viene contattata e non risponde alle domande, minacciando di denunciare i giornalisti per molestie. Sulla psicologa, ai tempi 29enne, si addensano i principali dubbi dell’inchiesta: all’epoca era responsabile del Centro aiuti per il bambino, giudicata inesperta da alcuni giudici e artefice di una suggestione collettiva, di una folle caccia alle streghe da alcuni dei genitori e figli coinvolti. Dubbi che durante i vari processi hanno riguardato pure l’operato della dottoressa Maggioni, colei che verificava gli abusi. Durante un dibattimento alcuni colleghi le fecero notare che in una delle foto da lei esibite per dimostrare la lacerazione dell’imene per via dello stupro di una delle vittime, l’imene era assolutamente visibile. La Maggioni replicò che l’imene può riformarsi con l’arrivo del mestruo.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta sono accadute molte cose. Le famiglie coinvolte chiedono la riapertura del processo e i giusti risarcimenti. Tanti genitori si sono ritrovati e abbracciati, un gruppo di sopravvissuti che è finito in un inferno, l’unico vero in tutta questa vicenda. C’è anche chi ha rivisto la figlia, dopo uno strappo lungo vent’anni, ma c’è chi i figli non li rivedrà mai più. Perché quei figli sono ormai lontani, perché hanno paura, perché vogliono dimenticare. Perché magari vorrebbero rivedere la mamma, ma la mamma è volata giù dal quinto piano per non dover sopravvivere all’orrore di una storia che deve ancora chiudersi.

il manifesto 20.1.19
La protesta anti Orbán riparte da Budapest
Ungheria. La capitale si risveglia contro il governo autoritario. Tanti gli studenti in corteo
di Massimo Congiu


Ieri pomeriggio il centro di Budapest ha visto di nuovo sfilare i manifestanti anti Orbán. Come già alla fine dell’anno scorso, quando sindacati e studenti erano scesi in piazza per protestare contro la «legge schiavitù» e contro un sistema che vuole controllare anche la vita accademica. Ma il malcontento e la voglia di cambiamento del corteo che ha attraversato il Ponte delle Catene, per riunirsi sul lungo-Danubio di Buda sfidando il freddo, riguarda una situazione generale fatta di erosione di diritti civili e sociali.
Al centro della protesta un sistema che ha voluto una costituzione autoritaria e nazionalista, che ha riscritto il Codice del Lavoro in una forma non favorevole ai prestatori d’opera, che ha detto la sua in fatto di libertà di stampa con la «legge bavaglio» e che ha messo le mani su scuola, magistratura, vita accademica, gestione degli affari economici. Dal 2010 porta avanti un progetto di controllo sempre più esteso dei settori chiave della vita pubblica e di «neutralizzazione» delle voci dissenzienti. L’evidenza dei veri problemi del paese che riguardano, ad esempio, sanità, scuola, scarsità di manodopera qualificata, povertà diffusa, viene coperta da una propaganda assillante. Un martellamento sulle conquiste del governo a beneficio del popolo e sui livelli di guardia necessari per difendere la patria cui concorre il periodico ricorso a consultazioni nazionali per chiedere all’opinione pubblica se sia meglio stanziare soldi per gli immigrati o per le famiglie ungheresi e se sia bene che l’Unione europea e le multinazionali decidano le sorti del paese.
Questo ricorso al lavaggio del cervello e questa continua allerta contro presunti pericoli che vengono sempre da fuori, ha evidentemente esasperato un bel po’ di gente e fatto cambiare idea a precedenti sostenitori del partito Fidesz che sta al governo da quasi nove anni. Non sono pochi quelli che continuano a sostenerlo, è vero, ma per altri il premier ha tirato un po’ troppo la corda. «Ne abbiamo abbastanza», si leggeva ieri sullo striscione portato in giro per il centro cittadino dalla testa del corteo, «solidarietà tra studenti e lavoratori», scandivano gli universitari.
Presenti anche rappresentanze di partiti d’opposizione di centro-sinistra e della destra di Jobbik, tutti con i loro stand sistemati in fila su quella parte di lungofiume. C’era anche una piccola rappresentanza italo-ungherese sostenitrice della sinistra europea.
All’iniziativa hanno partecipato alcuni scrittori che si sono mobilitati in segno di solidarietà verso i lavoratori, gli studenti, i sindacati, gli insegnanti costretti a lavorare in un sistema centralizzato, verso le famiglie povere e i senzatetto, verso le organizzazioni della società civile colpite dai provvedimenti del governo e verso la cultura e l’arte che, fanno notare gli scrittori, non vengono risparmiate da questo esecutivo. Si manifesta, questo sì, ma non appaiono ancora abbastanza chiare le prospettive di crescita e di sbocco di questa mobilitazione.

il manifesto 20.1.19
La protesta anti Orbán riparte da Budapest
Ungheria. La capitale si risveglia contro il governo autoritario. Tanti gli studenti di Massimo Congiu


Ieri pomeriggio il centro di Budapest ha visto di nuovo sfilare i manifestanti anti Orbán. Come già alla fine dell’anno scorso, quando sindacati e studenti erano scesi in piazza per protestare contro la «legge schiavitù» e contro un sistema che vuole controllare anche la vita accademica. Ma il malcontento e la voglia di cambiamento del corteo che ha attraversato il Ponte delle Catene, per riunirsi sul lungo-Danubio di Buda sfidando il freddo, riguarda una situazione generale fatta di erosione di diritti civili e sociali.
Al centro della protesta un sistema che ha voluto una costituzione autoritaria e nazionalista, che ha riscritto il Codice del Lavoro in una forma non favorevole ai prestatori d’opera, che ha detto la sua in fatto di libertà di stampa con la «legge bavaglio» e che ha messo le mani su scuola, magistratura, vita accademica, gestione degli affari economici. Dal 2010 porta avanti un progetto di controllo sempre più esteso dei settori chiave della vita pubblica e di «neutralizzazione» delle voci dissenzienti. L’evidenza dei veri problemi del paese che riguardano, ad esempio, sanità, scuola, scarsità di manodopera qualificata, povertà diffusa, viene coperta da una propaganda assillante. Un martellamento sulle conquiste del governo a beneficio del popolo e sui livelli di guardia necessari per difendere la patria cui concorre il periodico ricorso a consultazioni nazionali per chiedere all’opinione pubblica se sia meglio stanziare soldi per gli immigrati o per le famiglie ungheresi e se sia bene che l’Unione europea e le multinazionali decidano le sorti del paese.
Questo ricorso al lavaggio del cervello e questa continua allerta contro presunti pericoli che vengono sempre da fuori, ha evidentemente esasperato un bel po’ di gente e fatto cambiare idea a precedenti sostenitori del partito Fidesz che sta al governo da quasi nove anni. Non sono pochi quelli che continuano a sostenerlo, è vero, ma per altri il premier ha tirato un po’ troppo la corda. «Ne abbiamo abbastanza», si leggeva ieri sullo striscione portato in giro per il centro cittadino dalla testa del corteo, «solidarietà tra studenti e lavoratori», scandivano gli universitari.
Presenti anche rappresentanze di partiti d’opposizione di centro-sinistra e della destra di Jobbik, tutti con i loro stand sistemati in fila su quella parte di lungofiume. C’era anche una piccola rappresentanza italo-ungherese sostenitrice della sinistra europea.
All’iniziativa hanno partecipato alcuni scrittori che si sono mobilitati in segno di solidarietà verso i lavoratori, gli studenti, i sindacati, gli insegnanti costretti a lavorare in un sistema centralizzato, verso le famiglie povere e i senzatetto, verso le organizzazioni della società civile colpite dai provvedimenti del governo e verso la cultura e l’arte che, fanno notare gli scrittori, non vengono risparmiate da questo esecutivo. Si manifesta, questo sì, ma non appaiono ancora abbastanza chiare le prospettive di crescita e di sbocco di questa mobilitazione.

il manifesto 20.1.19
Madrid antifranchista e sessantottina ricorda il suo Pinelli
Spagna. Una targa da oggi commemora lo studente Enrique Ruano nel luogo in cui venne ucciso (altro che suicidio) 50 anni fa. Un’iniziativa figlia della legge sulla memoria storica voluta da Zapatero e invisa alla destra
di Jacopo Rosatelli


MADRID Morire dopo un volo dalla finestra mentre si è sotto custodia della polizia.
Non capitò solo all’anarchico Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto nella Questura milanese dopo la strage di Piazza Fontana, ma anche ad Enrique Ruano, studente di giurisprudenza dell’Università di Madrid, militante antifranchista. Proprio nello stesso anno, il 1969. Paesi diversi, democrazia da una parte e dittatura dall’altra, ma pratiche simili, e un identico esito giudiziario: nessun colpevole.
IL GIOVANE SPAGNOLO FU UCCISO esattamente cinquant’anni fa, e oggi il comune di Madrid scoprirà una targa in sua memoria nel luogo esatto in cui avvene l’omicidio, al numero civico 68 della centrale calle Príncipe de Vergara. Non una sede delle forze di sicurezza, ma un normale palazzo in cui il ventunenne Ruano fu condotto dalla polizia politica, la famigerata Brigada Politico-Social, nel corso della perquisizione di un appartamento ritenuto un «covo». Si trovava agli arresti già dal 17 gennaio, colpevole di avere affisso per le strade della capitale materiale di propaganda del Frente de liberacion popular, organizzazione clandestina di orientamento marxista non dogmatico, federalista e autogestionaria, con radici nella sinistra cristiana.
Ovviamente la versione ufficiale fu quella di suicidio. Per renderla più verosimile le autorità manipolarono i diari di Ruano, dandoli in pasto alla stampa per diffondere la falsa notizia che il ragazzo nutrisse da tempo il proposito di togliersi la vita. A manovrare la campagna di disinformazione il ministro Manuel Fraga, la cui vita politica è continuata ben oltre la scomparsa di Franco nel 1975: il Partido popular è una sua creatura. Le menzogne di Stato non servirono, però, a convincere l’opposizione democratica: la protesta nei campus universitari di tutto il Paese crebbe al punto da indurre il governo a decretare, il 24 gennaio, lo stato d’eccezione per tre mesi.
IL REGIME era in un momento delicato, le manifestazioni di dissenso crescevano anche nella Chiesa, sino ad allora uno dei pilastri fondamentali della dittatura, e si preparava la designazione di Juan Carlos di Borbone quale successore del «generalissimo» a capo dello stato. Per quanto dall’estero sembrasse scricchiolante, l’edificio del potere costruito dopo la guerra civile era ancora saldamente in piedi. E continuava ad uccidere.
Ruano apparteneva allo stesso milieu «sessantottino» di molti protagonisti dell’ultima fase della lotta per la libertà che, successivamente, rivestiranno ruoli importanti nella Spagna democratica.
LA SINDACA DI MADRID Manuela Carmena è una di loro. Ad accomunarli anche la scelta universitaria: dalle facoltà di giurisprudenza di quegli anni venne fuori una leva di giovani avvocati giuslavoristi impegnati ad allargare gli spazi di affermazione dei diritti dentro e contro il regime.
Carmena, affiliata al Pce clandestino, fondò con alcuni di quelli che erano stati i più stretti compagni di Ruano uno studio legale nella centralissima calle de Atocha che divenne punto di riferimento per i lavoratori della capitale, ma anche oggetto della violenza dei fascisti: in piena transizione democratica, il 23 gennaio del 1977, un commando vi fece irruzione e uccise cinque persone. Sopravvisse per miracolo Dolores González Ruiz, che nella mattanza perse il marito Javier Sauquillo, come lei socio dello studio. Un destino particolarmente drammatico, quasi incredibile, quello dell’avvocata González Ruiz, Lola per i suoi compagni: ai tempi dell’università era la fidanzata di Ruano.
LA TARGA COMMEMORATIVA che sarà visibile da oggi è figlia di una nuova sensibilità verso il passato antifranchista le cui origini più remote sono nella legge sulla memoria storica voluta dodici anni fa da José Luis Zapatero, e quelle più recenti nell’impegno del governo di Pedro Sánchez e, soprattutto, di Podemos e Izquierda unida. Una svolta rispetto al precedente «oblio istituzionalizzato» che non è mai andata giù alla destra spagnola, a quella istituzionale e «moderata» del Pp e, tanto meno, a quella più radicale che ora si riconosce nel nuovo partito Vox.
Un importante atto di politica della memoria, quello di oggi, che però non cancella le responsabilità che i poteri pubblici hanno avuto anche in epoca democratica nel garantire l’impunità degli assassini.
I TRE POLIZIOTTI che avevano in custodia Ruano al momento della sua morte furono processati nel 1996 – caso più unico che raro, vista la legge di amnistia vigente – dal tribunale di Madrid, che però li assolse, pur esprimendo nella sentenza «tristezza per la morte di una persona che lottava per i diritti fondamentali oggi riconosciuti dalla Costituzione». I giudici si limitarono a riconoscere «un funzionamento anormale dell’amministrazione dello stato» che poteva dare diritto a un risarcimento. Una decisione confermata definitivamente, l’anno dopo, dal Tribunal Supremo.

Corriere La Lettura 20.1.19
Anche Marco Polo
investe su Rialto
di Carlo Vulpio


Non sarà la laguna a inghiottire Venezia, e nemmeno l’orda continua dei turisti a farla sprofondare. Da queste due calamità, in qualche modo, Venezia si salverà. Non potrà far nulla invece se si spegnerà la sua vitalità. Se continuerà cioè il suo declino demografico e ancor più se con il corpo della città se ne andrà anche la sua anima. E l’anima di Venezia è Rialto. Il mercato di Rialto. Che secondo Marin Sanudo — il diarista più attento e completo di Venezia, costretto dal governo della Serenissima a cedere i suoi scritti a Pietro Bembo, più bravo di lui a scrivere in latino — era «di tutto il mondo la più ricchissima parte», cuore di un sistema internazionale di affari, e che per Fernand Braudel era il centro di una «economia-mondo».
Rialto, cioè Rivoaltus, cioè il nucleo originario di Venezia sul Canal Grande, era il punto di approdo e di partenza delle più importanti rotte commerciali tra l’Occidente e l’Oriente fin dal X secolo. Rialto ha fatto di Venezia — la città-stato più libera e cosmopolita tra le città-stato italiane — una città-porto in cui l’accoglienza di mercanti, navi e lavoratori stranieri non era soltanto la regola, ma è stato il principio fondante della città e l’origine della sua fortuna. Tanto che in una Europa quasi interamente agricola i veneziani risultavano «strani», perché — come racconta Frederic Lane nella sua superba Storia di Venezia (Einaudi) — «non seminavano e non raccoglievano, ma si procuravano il cibo in cambio di trasporti e di sale».
Nel commercio del sale in particolare, ma, di fatto, anche in quello dei cereali e delle spezie, Venezia riuscì a imporre il proprio controllo nel mare Adriatico, che dalla «linea» Ancona-Zara in su diventò vero e proprio monopolio. Attuato non tanto attraverso l’impiego della forza militare della propria flotta, alla quale pure non di rado ricorreva per fare rispettare gli accordi, quanto attraverso la capacità di individuare rotte e mercati e di saperne mantenere un controllo efficiente e affidabile. Mentre «gli altri» puntavano alle conquiste territoriali, Venezia badava a impadronirsi delle vie commerciali marittime quando ancora queste venivano viste come qualcosa di «virtuale» rispetto al valore «reale» della terra.
Ma qual era la peculiarità del mercato di Rialto, e perché lungo mille anni per tutti i mercanti e gli uomini di affari, grandi e piccoli, è valsa la massima «Se non vai a Rialto sei tagliato fuori»?
Innanzi tutto perché il monopolio veneziano consisteva in due obblighi: che gli scambi all’ingrosso avvenissero a Rialto, dove i veneziani erano i soli mediatori, e che le merci straniere giungessero qui solo su navi veneziane o su navi del Paese di origine delle merci, quindi senza alcun altro intermediario. In secondo luogo, perché Rialto non era soltanto un mercato di ogni genere di merce, ma era una importantissima piazza di affari, in cui nel tempo si erano affermati e perfezionati gli strumenti basilari del diritto commerciale e della contabilità: i codici marittimi, la partita doppia, la polizza di carico, lo scrivano di bordo, le assicurazioni marittime, la cambiale e la banca di giro, che consentiva di effettuare i pagamenti sui libri dei banchieri mediante il trasferimento di crediti invece che in contanti.
Era così essenziale non rimanere «tagliati fuori» da Rialto che anche Marco Polo a un certo punto della sua vita prestò ben 400 ducati, all’epoca una somma ingente, a uno dei tanti mercanti veneziani che da viaggiatori erano diventati residenti o sedentari, affinché li investisse a Rialto e dopo un anno glieli restituisse con un profitto legato all’andamento degli affari. La prova documentale di questo business è un atto notarile del 2 settembre 1317, che è stato scovato recentemente nell’Archivio di Stato di Venezia da Luca Molà, docente di Storia del Rinascimento all’università di Warwick. Molà ha anche trovato una transazione conclusa dallo stesso Marco Polo il 19 luglio 1317 in seguito a una controversia relativa a una proprietà immobiliare. Si tratta di due documenti inediti, pubblicati per la prima volta da «la Lettura», che hanno un grande valore, se si considera che le testimonianze d’archivio in cui compare direttamente Marco Polo, da vivo, erano finora non più di una decina. Oggi il mercato di Rialto, sotto l’arcata del ponte omonimo, conserva intatto il suo fascino ma, appunto, vive, o meglio sopravvive, solo di questo.
La sua vitalità, e dunque la sua ricchezza, si affievolisce di giorno in giorno. I banchi del pesce, della frutta e della verdura, delle spezie, si sono più che dimezzati. Il trionfo di colori delle merci, la sovrapposizione delle voci della gente che compra e dei banconisti che vendono, l’incontro tra tutti coloro che non hanno nulla da comprare, e tuttavia si danno appuntamento al mercato per sapere cosa succede e riferire cosa si viene a sapere, sono tutte immagini sbiadite che rischiano di scomparire e rimanere soltanto nei ricordi, o nei rimpianti.
A Venezia però qualcosa di bello è accaduto. La gente, la famosa gente, i residenti, rivogliono la loro Rialto e non accettano più di essere soltanto le figurine di una cartolina, o di un set cinematografico, o del Carnevale, mentre pian piano l’eutanasia del mercato isterilisce la città e spegne anche loro.
L’associazione «Rialto Nuovo», finora 4.500 aderenti, cioè il 10 per cento della popolazione, insomma un «partito», vuole che la Loggia della Pescheria, palazzina neogotica dei primi del Novecento, e le Fabbriche Nuove, costruzione di Jacopo Sansovino del 1550 che ospitava i Tribunali, cioè i due edifici sorti nel luogo in cui da mille anni vive il mercato di Rialto, vengano recuperati e l’attività commerciale di Rialto rilanciata. E lo chiede non attraverso la inconcludente caciara populista che sembra aver scocciato persino i piccioni di piazza San Marco, ma sostenendo il progetto di tre accademici che amano Venezia. Uno è Molà, di cui abbiamo già detto. Gli altri due sono Donatella Calabi, docente di Storia della Città, e Paolo Morachiello, docente di Storia dell’Architettura, entrambi allo Iuav, coautori di Rialto: le fabbriche e il ponte, 1514-1591 (Einaudi), affascinante «biografia» del ponte e di una città sempre alle prese con due maree, quella «piccola», lunare, che fa variare di 90 centimetri il livello dell’acqua, e quella provocata da venti, piogge, fiumi e correnti dell’Adriatico settentrionale, altri 90 centimetri d’acqua in su o in giù.
Fu, questo, uno dei rompicapi più difficili da risolvere quando, dopo l’incendio del ponte in legno nel 1514, si decise di ricostruirlo in pietra e ai due progetti delle «archistar» di allora, il fiorentino Jacopo Tatti detto il Sansovino e il vicentino Andrea Palladio, venne preferito quello più funzionale e non meno bello, a una sola arcata, del proto (cioè, il perito) del Provveditore al sale Antonio da Ponte, che con quel nome non poteva certo arrendersi alla illustre concorrenza. I lavori per il nuovo ponte durarono due anni, dal 1589 al 1591 (tanto per capirci sui tempi necessari a rifare i ponti distrutti) e il costo totale fu di 240 mila ducati.
L’idea del progetto Calabi-Morachiello-Molà per il mercato di Rialto è di creare nella Loggia della Pescheria, che è vuota da sei anni, e di proprietà del Comune e ha già come destinazione d’uso quella di «edificio museale», un «Museo di Venezia nel Commercio Internazionale», che faccia conoscere e sappia raccontare anche ai bambini la grandezza commerciale e culturale di Venezia. Mentre nelle Fabbriche Nuove, di proprietà demaniale, al piano terra si riorganizzerebbe e rilancerebbe il mercato ittico e al primo piano si allestirebbe un padiglione gastronomico in cui degustare il pesce, fornito dal mercato sottostante e cucinato secondo le ricette tradizionali veneziane. Esattamente come avviene a Barcellona, a Parigi, ad Amburgo e come si apprestano a fare anche a Londra. Tutte grandi e belle città, ma dalle quali Venezia può solo essere invidiata.
Il Comune, la Regione, le imprese, oltre al mondo della cultura nazionale e internazionale, sembrano tutti interessati a questo progetto, che comporterebbe una spesa complessiva di circa sei milioni di euro. Il primo febbraio questa «storia materiale» di Rialto e il progetto di recupero verranno presentati al pubblico nell’aula magna dell’Ateneo Veneto, che vedrà «intellettuali» e «popolo» finalmente non scollegati, con la band Ground Zero dei pescivendoli-musicisti di Rialto — all’alba sono al mercato del pesce e la sera diventano gruppo musicale — che intonerà la canzone-simbolo della rinascita di Rialto. «Venexia xe un pesse/ Rialto el suo cuor/ e col xe ferma/ Venexia muor», dice il ritornello. Che naturalmente non traduciamo.

Corriere La Lettura 20.1.19
Edgar Morin: la bellezza è conoscenza
di Nuccio Ordine


«Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un piacere simile si dice bello»: Immanuel Kant, nelle prime pagine della Critica del giudizio (1790), spiega con chiarezza che solo «il gusto del bello è un piacere disinteressato e libero». E questa riflessione del filosofo tedesco è illuminante in una società come la nostra dove ogni azione, ogni gesto, ogni parola deve rispondere a un profitto.
La bellezza, al contrario, ci insegna che esistono piaceri (o dispiaceri) che afferiscono esclusivamente alla sfera del «gratuito» e del «disinteressato». Due parole ormai desuete, in un lessico quotidiano sempre più dominato dall’ossessione del guadagno e dall’angoscia di non «sprecare» il tempo.
Letteratura, musica, filosofia, arte ci aiutano a capire che esistono cose fondamentali — senza le quali non potremmo vivere — che sfuggono alla logica utilitaristica e che servono esclusivamente ad arricchire lo spirito. Montaigne, in una bellissima pagina dei suoi Saggi, ci ricorda che «è il godere» e «non il possedere» a «renderci felici». Spetta alla bellezza, insomma, testimoniare che si può gioire senza avere benefici economici o pratici. Contemplare un monumento, ammirare un quadro, ascoltare un concerto, leggere un romanzo o una poesia, significa vivere un’esperienza in cui conta solo la nostra adesione disinteressata. Per essere contenti (e, talvolta, estasiati) non c’è bisogno di portarsi a casa Las meninas di Velázquez o di possedere il Partenone. Così come a nessuno verrebbe in mente di chiedersi quale vantaggio pratico si potrebbe ricavare dall’ascolto del sublime Erbarme dich mein Gott della Passione secondo Matteo di Bach o dalla lettura dei Quattro quartetti di T. S. Eliot.
Si tratta di questioni decisive in una società in cui l’intero sistema educativo, la ricerca scientifica e le nostre stesse relazioni personali sono inquinate dalla dittatura del profitto e della rapidità, dalla miope visione che sia utile solo ciò che produce soldi e benefici pratici. La bellezza non occupa purtroppo il ruolo centrale che dovrebbe avere. Quando, non molto tempo fa, la furia distruttrice di ignoranti barbari fondamentalisti si accaniva sui monumenti di Palmira (Siria) o sui preziosi manoscritti delle biblioteche di Timbuctù (Mali) — e l’elenco potrebbe arricchirsi di centinaia di altri scempi perpetrati, in contesti diversi e con differenti modalità e in differenti epoche — ci saremmo aspettati che le grandi potenze inviassero in soccorso i loro eserciti. Pronte a mobilitarsi per un pozzo di petrolio, le abbiamo viste indifferenti alla distruzione di templi e statue, di documenti antichi e preziosi manufatti artistici. Eppure si tratta di un patrimonio che, per il suo valore universale, riguarda l’intera umanità: il Colosseo non appartiene a un popolo o una nazione, ma a tutti gli esseri umani.
Non solo. La necessità di proteggere la bellezza si fonda anche su un’altra ragione: mentre un pozzo si può ricostruire in una qualsiasi altra località ricca di giacimenti, le opere d’arte sono uniche e irriproducibili. Ridurre in polvere i due splendidi bronzi di Riace (che si possono ammirare nel Museo archeologico di Reggio Calabria) significherebbe annientare, per sempre, capolavori che nessuno potrà più riprodurre alla stessa maniera. Restare indifferenti di fronte alla distruzione irreversibile della bellezza, significa essere moralmente «complici» di chi la distrugge.
Ma esiste anche una bellezza pre-estetica che è espressione della natura. Un fiore, un paesaggio, un tramonto, la maestosità delle onde oceaniche, una stella cadente, le ali colorate di una farfalla o il canto di un uccello possono produrre un’emozione estetica straordinaria. Contribuiscono — al pari di un romanzo, di un concerto, di un quadro, di un monumento — a creare una potente alternativa all’aridità della «parte prosaica» delle nostra vita (quelle cose che facciamo per un puro fine utilitaristico e pratico) per coltivare invece quella «parte poetica» che, attraverso i diversi livelli dell’emozione estetica, produce momenti di autentico godimento, accrescendo la nostra sensibilità e rendendoci migliori.
Proprio all’intreccio tra vita e sentimento estetico, tra cultura e natura, è dedicato il recente saggio di Edgar Morin Sull’estetica (Raffaello Cortina editore). Tra i più brillanti filosofi viventi, Morin ha il dono di rendere semplici le cose difficili e, soprattutto, di fecondare con il suo entusiasmo i temi di cui si occupa. Così, questo appassionato giovanotto di 97 anni, ci regala acute riflessioni sulle molteplici espressioni dell’estetica. Un’analisi delle emozioni che provengono «da forme, colori, suoni» e «anche da racconti, spettacoli, poemi, idee»: tutto ciò, insomma, che riguarda «il sentimento di piacere e di ammirazione» (fino alle sue espressioni più intense, come la meraviglia e la felicità) provocate «da un’opera d’arte ma anche da uno spettacolo naturale».
Morin, attraverso un affascinante viaggio articolato in otto brevi capitoli, affronta questioni di grande importanza: ci parla del «sentimento estetico» (l’universalità e, nello stesso tempo, la relatività della bellezza; il confine tra bello e brutto), discute le relazioni tra magia e arte (il legame con le religioni e con lo sciamanismo, la catarsi nel tragico e nei riti tribali, ma anche il riflesso laico del sacro nella bellezza di una chiesa, di un tempio o di un affresco), esamina il rapporto tra l’artista e la civiltà del denaro (il passaggio dal mecenatismo al mercato e all’industrializzazione dell’opera d’arte trasformata in merce), indaga la dialettica tra «vecchio» e «nuovo» (il rigetto degli antichi canoni e la creazione di modelli alternativi), scandaglia l’estetica allargata ad altre arti (cinema, fotografia, fumetto, serie televisiva, pubblicità), approfondisce il «mistero» della musica (come espressione altissima della «nostra vita affettiva», anche nei generi come la canzone o gli inni patriottici o i canti legati alle lotte politiche).
Per Morin, nelle sue molteplici espressioni estetiche la bellezza non suscita solo emozioni, ma è anche un importante strumento di conoscenza. Ci fa capire che l’umanità «è al contempo una e diversa» e che «i singoli individui recano in sé qualcosa di universale». E che la comprensione umana ci aiuta a riconoscere l’identità comune «nell’altro, nello straniero, nel diverso» attraverso la condivisa «possibilità di provare dolore e felicità» e, nello stesso tempo, ci permette di cogliere la differenza presente «nel carattere, nelle credenze, nei costumi».
Ecco perché, in fin de conti, sono sempre più convinto che sia compito fondamentale degli esseri umani preservare la bellezza per permettere alla bellezza di rendere più umana l’umanità.


Corriere La Lettura 20.1.19
Eredi di Neanderthal?
Si capisce dal cranio
di Fabio Macciardi e Giorgio Manzi


«Volevamo identificare nel Dna umano le basi genetiche e i relativi percorsi biologici che portano alla “globularità” del nostro cervello», tipica di Homo sapiens, dice Simon Fisher del Max Planck Institute di Nijmegen in Olanda, uno dei principali autori della ricerca internazionale pubblicata alla fine del 2018 sulle pagine della prestigiosa rivista «Current Biology». A lui, al suo collega Philipp Gunz del Max Planck Institute di Lipsia in Germania — e a diversi altri ricercatori (fra cui non mancano alcuni italiani, compresi gli autori di questo articolo) — si deve un pionieristico studio sulle correlazioni fra morfologia encefalica e corredo genetico; la prima ricerca mai tentata su campioni altrettanto significativi, ma soprattutto la prima che si sia fatta partendo dal presupposto che i Neanderthal — o, meglio, alcune componenti genetiche che abbiamo acquisito dai nostri cugini estinti — possano aiutarci a capire come siamo e come lo siamo diventati.
Chi siano stati i Neanderthal è ben noto. Evolutisi in Europa nel corso di centinaia di migliaia di anni e molto caratterizzati sul piano morfologico — per le teste a forma di… palla da rugby e le corporature tarchiate da… piloni di mischia del rugby — erano ben adattati al clima glaciale e vivevano in piccole bande di cacciatori-raccoglitori paleolitici. Si estinsero intorno a 40 mila anni fa, quando nel difficile contesto ambientale dell’ultima glaciazione si affacciarono da Oriente le popolazioni di una specie molto simile, ma più abile a procurarsi lo stesso cibo, a sfruttare le stesse risorse, a sopravvivere negli stessi contesti: Homo sapiens. Fu così che allora, da est verso ovest, le tante piccole popolazioni dei Neanderthal si andarono via via spegnendo come fiammelle e, parallelamente, quelle dei nostri diretti antenati diventarono un incendio che si diffuse in tutta Europa. Nel frattempo, qualcosa di simile accadeva in Asia, in Australia e nelle Americhe, mentre in decine di millenni precedenti lo stesso era già accaduto in Africa e poi nel Medio Oriente. Così i Neanderthal (e non solo loro) si estinsero.
Da una decina d’anni, però, sappiamo o pensiamo di sapere che i Neanderthal non si siano estinti del tutto. Da quando è stato possibile studiare il Dna di questi nostri cugini del Paleolitico, abbiamo scoperto frammenti del loro genoma dispersi all’interno del nostro. L’interpretazione che ne è stata e viene comunemente data è che in una fase particolare della diffusione di Homo sapiens dall’Africa verso l’Eurasia, quando le nostre popolazioni vennero per la prima volta in contatto con le più periferiche popolazioni di Neanderthal — nell’area oggi chiamata Medio Oriente (un orizzonte compreso fra Egitto, Turchia e Iran, per capirci) — avvennero incroci con la nascita di ibridi almeno parzialmente fertili, tali da comportare quella che tecnicamente si chiama «introgressione genetica». Le analisi indicano anche che l’introgressione sia stata rilevante, ma solo in questa fase e in quest’area, e che il materiale genetico dei Neanderthal si sia successivamente come polverizzato nelle popolazioni di Homo sapiens in diffusione, tanto che ciascuno di noi (tranne gli africani, unici rappresentanti «puri» della specie!) porta frazioni diverse di Dna esogeno (Neanderthal) comprese fra l’1 e il 4 per cento.
Ma torniamo ora alla ricerca di Fisher, Gunz e colleghi pubblicata su «Current Biology». Il focus dell’analisi è puntato sull’organo nobile che più ci caratterizza: il cervello. Una caratteristica distintiva di noi Homo sapiens è quella di avere un cervello grande e rotondeggiante (o «globulare», come si usa dire) e lo stesso vale per il nostro cranio. I Neanderthal avevano cranio e cervello altrettanto grandi, ma con una conformazione allungata dall’avanti all’indietro (tipo «palla da rugby», come dicevamo). I risultati della nuova ricerca hanno mostrato che individui attuali nel cui genoma si ritrovano particolari frammenti di Dna di Neanderthal hanno teste leggermente più allungate di altri, rivelandoci qualcosa sull’evoluzione della forma e della funzione del cervello moderno. Vediamo di capire meglio che cosa.
Sviluppando un’analisi complessa che ha messo a confronto crani fossili e moderni, i ricercatori hanno dapprima costruito un «indice di globularizzazione» e lo hanno poi applicato a migliaia di soggetti per cui erano disponibili immagini del cervello acquisite con tecniche di risonanza magnetica. Questa prima analisi ha confermato che l’evoluzione del nostro cervello ha privilegiato l’espansione di aree frontali, parietali e temporali, ma ha anche dimostrato che la globularizzazione tipica di Homo sapiens dipende da un’espansione di importanti strutture presenti all’interno del cervello, come anche del cervelletto.
C’è poi una seconda parte dell’analisi, forse la più interessante e certamente la più innovativa. Utilizzando i dati genetici disponibili per gli stessi soggetti presi in esame precedentemente, i ricercatori hanno valutato l’ipotesi che varianti del Dna di probabile origine neanderthaliana siano coinvolte nel determinare la forma del cervello e del cranio nell’ambito della variabilità moderna, scoprendo che alcune di queste varianti genetiche sono fortemente associate a una forma più allungata, ovvero meno globulare. Ma non basta: l’analisi ha anche mostrato che la globularizzazione sarebbe controllata da geni che hanno un ruolo importante nello sviluppo embrionale intrauterino e nelle prime fasi di vita neonatale. Per due di questi geni in particolare, identificati con gli acronimi Ubr4 e Phlpp1, è stato anche possibile ipotizzare un ruolo funzionale specifico, nel quadro di un complesso sistema genetico che regola la neurogenesi (il differenziamento e il successivo sviluppo delle cellule cerebrali).
Questo primo esempio di paleoneurologia molecolare ha dunque integrato fra loro dati di paleoantropologia e genomica comparata con immagini cerebrali e genetica funzionale. L’integrazione di dati e metodi evoluzionistici con quelli del neurosviluppo apre nuove prospettive per la conoscenza non solo dei fattori che controllano l’evoluzione del cervello ma, in parallelo, anche per quei meccanismi funzionali che sono ancor oggi essenziali per lo sviluppo encefalico e la sua funzione poi in età adulta.
La forma del nostro cervello (e del nostro cranio) non può certo essere interpretata solo in base a considerazioni anatomiche. L’effetto delle varianti genetiche ancestrali — come di quelle moderne — non riguarda solo eventi di ordine evolutivo, ma condiziona anche funzioni complesse, come l’organizzazione dei movimenti e, più in generale, le nostre capacità di coordinazione e apprendimento. Stiamo davvero cominciando a capire come noi, donne e uomini anatomicamente moderni, siamo il risultato di meccanismi che abbiamo ereditato da un tempo profondo e da altre specie. Le indagini dei prossimi anni in questo campo si annunciano di grande interesse.

Corriere La Lettura 20.1.19
Che fine ha fatto  il finale ?
di Aldo Grasso


C’è quello chiuso, l’aperto, persino quello circolare. E magari è meglio dire: c’era. Perché l’atto conclusivo
di una narrazione (un libro, un film
o soprattutto, oggi, una puntata o una serie tv) rischia di non essere più
lo stesso dopo la soluzione adottata
da «Black Mirror», con un episodio dove è lo spettatore a intervenire scegliendo tra diverse soluzioni.
Ma forse era meglio «Martin Eden»
Il film interattivo Bandersnatch, nuovo capitolo di Black Mirror, la serie inglese creata e prodotta da Charlie Brooker, ha riacceso la discussione sui finali. All’uscita del labirinto distopico lo spettatore deve arrivarci facendo scelte giuste, altrimenti la narrazione non procede. Sbagliando il tasto, il racconto/vita s’inceppa e diventa estremamente complesso. Si realizza così il vecchio sogno di una narrativa che nasce dalla complicità fra autore e lettore?
La prima a manifestare perplessità è stata Mariarosa Mancuso che sul «Foglio» ha scritto: «Già sono antipatici i finali aperti: aspettiamo la fine di una storia e invece del The End (magari con quel che ne sarà dei personaggi vent’anni dopo) arriva un fotogramma fisso e ambiguo. Chi apre le storie, per favore, dovrebbe avere la cortesia di chiuderle. Senza confidare nella gentilezza del lettore: “Scusa, son rimaste un paio di cose in sospeso, vedi tu se Romeo e Giulietta vivranno felici e contenti oppure no”».
Bandersnatch sembra seguire i canoni narratologici dei videogame. Secondo gli esperti del settore, la struttura narrativa ideale per i videogame è la sequenzialità, perché permette a una o più linee narrative di estendersi su più episodi (magari secondo lo schema classico della morfologia delle fiabe). Lo scopo dell’arco narrativo è portare un personaggio da un punto all’altro di una trama disseminata di ostacoli che costringono a cambiare strategia. Il videogamer così è attivo, non subisce la storia ma riesce a darle una forma nuova attraverso le proprie scelte. Un gioco, appunto.
Si parla molto di incipit (presso Skira, è da poco uscito Incipit, edizione aggiornata di Era una notte buia e tempestosa, una raccolta di duemila inizi di romanzi; anche Fruttero & Lucentini si sono divertiti a compilare un libro di incipit, quasi un trivia game) ma poco di explicit.
Se l’incipit è quasi sempre la chiave di volta di un romanzo o di un film (tant’è vero che spesso i titoli di testa vengono usati in questa funzione), è altrettanto vero che l’explicit (explicitus est liber, è terminato il libro) è lo stigma attraverso cui il regista o lo scrittore consegna definitivamente il suo lavoro al pubblico. Il modello di chiusura sancisce sia un’appartenenza alla struttura linguistica del genere (è il caso per esempio del «lieto fine») sia un’autonomia creativa che attinge altrove regole e tendenze. In letteratura, per esempio, possiamo trovarci di fronte al colpo di scena: «L’uomo inspiegabilmente sparito dall’ex teatro anatomico, con porta chiusa a chiave e inferriate alle finestre (“Era qui ancora oggi! Dev’essere fuggito! Ma fuggito… come?”) non è infatti l’assassino, ma la vittima», Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde; al rilancio della storia: «Domani, domani tutto finirà», Il giocatore; al metafinale: «Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta», I promessi sposi.
Ben prima di Bandersnatch, prefigurando una società dominata dal videoregistratore, Umberto Eco aveva immaginato la costruzione casalinga di film attraverso un pacchetto di combinazioni, uno per ogni regista: Do your movie yourself, 1972. L’aspetto più divertente era, appunto, il finale.
Alcuni esempi. Finale alla Antonioni: «Sta lì. Tocca a lungo un oggetto. Si allontana poi si ferma perplessa, fa due passi indietro e si allontana di nuovo. Non si allontana ma la camera carrella indietro. Guarda la camera con volto inespressivo toccandosi il foulard». Finale alla Olmi: «Senza pensare più nulla. Senza più scopi nella vita. Con un nuovo scopo nella vita. Facendo una novena a Papa Giovanni. Diventando tagliaboschi (guida alpina, vagabondo, minatore, portatore d’acqua)». Finale alla Visconti: «Assiste all’intero ciclo dell’Anello del Nibelungo. Suona canzoni borgognone su una guimbarda. Si denuda al culmine della festa mostrando in effetti di essere un uomo e quindi si evira. Muore di consunzione drappeggiandosi in arazzi Gobelin. Inghiotte cera liquida e viene sepolta al Museo Grévin. Si fa tagliare la gola da un tornitore pronunciando oscure profezie. Attende l’acqua alta a S. Marco e annega».
Pensiamo ad alcuni famosi explicit cinematografici. Al finale di A qualcuno piace caldo, dove una sola battuta s’incarica di sigillare la commedia e, insieme, di deragliarne il senso: «Nessuno è perfetto». Al finale di Intrigo internazionale dove la preparazione di un vagone letto lascia intendere che la storia tra Cary Grant ed Eva Marie Saint continuerà ancora, nel migliore dei modi. Avventura galante che richiama uno dei finali più allusivi e conturbanti, quello di Accadde una notte, con Clark Gable e Claudette Colbert, dove una coperta, simboleggiante le mura di Gerico, cade per terra a sancire la sineddoche più erotica della storia del cinema. Al finale de Il sorpasso di Dino Risi: Bruno Cortona e Roberto, dopo la sequenza del ballo (Don’t play that song), ripartono in macchina, eseguono una serie di rischiosi sorpassi incitati da Roberto in un impeto di euforia, fino alla curva finale, con il salto della Lancia Aurelia nel burrone. Un poliziotto chiede a Bruno: «Era un suo parente?». E lui: «Si chiamava Roberto... Il cognome non lo so, l’ho conosciuto ieri mattina...». Le onde del mare lambiscono la carcassa dell’auto.
I finali simbolici sono insopportabili. Il dolciastro onirismo di Cesare Zavattini in Miracolo a Milano, con i barboni che si levano in volo a cavallo delle scope; il carico cristologico della manta morta sulla spiaggia (il «mostro») de La dolce vita (proprio con questa chiusa, Fellini ha originato tutta una cattiva letteratura sull’impossibilità della salvezza da parte di Marcello, l’impossibilità di leggere la teofania che gli si presenta dopo una notte di perdizione); l’intellettualismo letterario de La notte di Michelangelo Antonioni con Giovanni e Lidia che fanno i conti esistenziali nel parco della villa: lei, dopo avergli letto una vecchia e affettata lettera che lui, giustamente, non ricorda nemmeno di aver scritto, ribadisce di non amarlo più, mentre Giovanni cerca di riaccendere la vecchia passione. Faranno disperatamente l’amore mentre la cinepresa, con una carrellata, li abbandona al loro destino.
Non sappiamo quale finale cinematografico Eco preferisse, quello letterario sì. È la chiusa di Martin Eden, quando il protagonista si suicida buttandosi in mare: «Era caduto nelle tenebre e come lo seppe, cessò di saperlo».
Il romanzo classico ci ha regalato tre tipi di chiusura: il finale chiuso (è il più difficile, dice la parola definitiva sulla storia e sull’autore, che necessariamente deve essere un grande autore); il finale aperto (molto in voga nei romanzi di genere, quasi sempre prevede un seguito); il finale circolare (il lettore torna al punto di partenza, concludendo la storia da dov’era cominciata).
Il finale circolare e soprattutto il finale aperto sono stati presi a prestito dalla serialità, che già aveva saccheggiato il feuilleton. Proprio il grande feuilleton, tipo Il Circolo Pickwick di Charles Dickens o I misteri di Parigi di Eugène Sue, è un genere cerniera di grande interesse: rappresenta il momento in cui l’autore, in quanto artista, cede le armi e le «pretese» autoriali, e il romanzo diventa una sorta di catena di montaggio per la produzione di gratificazioni incessanti e rinnovabili (la più celebre delle quali è la promessa di rivelazioni che normalmente chiude un episodio e procede all’apertura di altre nuove strade, il «continua», il finale che promette altri finali). Il romanzo d’appendice non si preoccupa soltanto di seguire i dettami del buon narrare ma introduce, puntata dopo puntata, artifici di comodo che ritroveremo poi nelle saghe di fumetti e nelle serie televisive: come opera in progress, nasce a puntate, a tappe, e ogni tappa ha bisogno di una sosta, di un finale.
Se le serie delle origini hanno una struttura semplice, articolano ogni episodio in tre atti (incipit, svolgimento con climax, scioglimento finale), a partire dagli anni Ottanta, specialmente con Hill Street Blues (1981-1987, in Italia Hill Street giorno e notte), la narrazione comincia a stratificarsi come una millefoglie. I creatori Steven Bochco e Michael Kozoll utilizzano un’ampia comunità di personaggi, dando una visione corale della professione del detective. Hill Street Blues è un poliziesco che sfugge ad alcune categorie di genere, tanto da utilizzare molti spunti della sitcom, del documentario e della soap. Il telefilm inventa la trama multipla (l’avventura non è più sequenziale ma si frantuma in mille rivoli, ogni personaggio è portatore di storie pubbliche e private che si intrecciano fra di loro) e dà il via alla stagione d’oro della serialità, caratterizzata appunto dalla ramificazione narrativa e affettiva, da storie che si innestano su altre storie, da indagini che non necessariamente devono chiudersi, da ritmi velocizzati, da una caratterizzazione dei protagonisti e delle vicende, da una tv che si emancipa definitivamente dal cinema creando ganci interepisodici, finali su finali, una fabbrica di finali.
L’espediente retorico più usato è quello che gli americani chiamano cliffhanger (chi rimane sospeso sull’orlo del burrone): la tecnica di interrompere l’azione nel punto di tensione massima in modo che il lettore o lo spettatore sia invogliato a sapere coma andrà a finire (tutto era già stato inventato da Le mille e una notte).
Una delle accuse più frequenti che si fa alla serialità (nel 2018 negli Usa sono state prodotte e trasmesse circa 500 serie tv, in un trend di costante crescita anno dopo anno!) è di smarrire i finali, di andare avanti solo perché non si sa come terminare. Il caso più clamoroso resta quello di Lost, il cui finale misterioso è stato oggetto di mille interpretazioni, alcune delle quali anche molto negative. Anche se, in quel caso, la narrazione ha continuato a giocare con il tempo: dopo le parentesi sul passato e quelle sul futuro delle prime stagioni, l’ultimo atto di Lost ha scelto di dar spazio ai what if, al racconto di una realtà parallela e alternativa alla vita sull’isola, moltiplicando all’infinito l’explicit.
Il finale meglio riuscito?
Dopo un lungo regolamento di conti e la morte dei suoi fedelissimi, il boss Tony uccide il capo della banda rivale di New York, Phil Leopardo, e con noncuranza cena con la famiglia nel consueto ristorante. Gli avversari si radunano per la vendetta, entrano nel locale, caricano le pistole. Un epilogo di fuoco. D’improvviso, il buio. The Sopranos finisce così, e non poteva finire diversamente.

Corriere La Lettura 20.1.19
Arte La Pietà Rondanini
Michelangelo scalpella
il marmo che non serve
di Arturo Carlo Quintavalle


Non finito, per Michelangelo, vuol dire incompiuto come nella tradizione accademica? Prendiamo la Pietà Rondanini (oggi conservata al Castello Sforzesco di Milano), che si data fra 1552 e 1564, un pezzo al quale lo scultore lavora fino a pochi giorni dalla morte. L’opera reca tracce evidenti di due fasi diverse: una prima scultura, più grande, della quale resta ancora il braccio staccato del Cristo e nella quale il volto della Madonna era forse rivolto verso l’alto, e una seconda, più piccola, dove la composizione riutilizza le gambe semiflesse del Cristo giunte allo stadio della politura mentre tutto il resto è abbozzato, trattato a scalpello e gradina.
Altro caso, i Prigioni, parti del monumento a Papa Giulio II, schiavi legati che escono dalla roccia, due quasi del tutto rifiniti oggi al Louvre, gli altri alla Galleria dell’Accademia di Firenze che, apparentemente incompleti, mostrano lo sforzo della Forma di uscire dalla pietra.
Michelangelo non ha avuto il tempo di concludere le opere o c’è una spiegazione diversa? In un sonetto del 1544 scrive: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto/ c’un marmo solo in sé non circoscriva/ col suo superchio, e solo a quello arriva/ la man che ubbidisce all’intelletto». Dunque nella pietra si scopre l’Assoluto, come suggeriva il neoplatonico Marsilio Ficino. Vendere un’opera per noi non finita, donarla come farà l’artista con la Pietà, è proporre la creazione che irrompe fuori della materia.

Il Sole Domenica 20.1.19
Giallo. La riedizione del romanzo di Gadda con note di Pinotti si avvale di documenti inediti e fa emergere la storia, tragicomica, dell’accidentata carriera dello scrittore
«Pasticciaccio» col vestito tutto nuovo
di Salvatore Silvano Nigro


La teoria dei generi letterari e la tradizione critica hanno cromatizzato, con il giallo, il nero e il rosa, i romanzi polizieschi, gotici o dell’orrore, sentimentali. Fra tutti, il genere più controverso è il «giallo» che (insieme al «rosa») viene generalmente relegato alla periferia della letteratura; nella zona sconnessa riconosciutagli da Edmund Wilson, in The Shores of Light del 1952: «Questo tipo di lettura altro non è che una specie di vizio, che per la sua stupidità e il minor nocumento si pone a mezza via tra il vizio del fumo e quello delle parole incrociate»; tra «l’alcool, o il tabacco», aveva già scritto il poeta Wyston Hug Auden. Wilson polemizzava con W. Somerset Maugham, sostenitore del genere poliziesco: «Gli autori di polizieschi hanno una storia da raccontare e la raccontano in modo succinto. Devono catturare e trattenere l’attenzione, quindi devono entrare rapidamente nel vivo del racconto (…) Orbene, i romanzieri “seri” dei nostri giorni hanno molto spesso poco o niente da raccontare e si sono anzi abituati a credere che il racconto, la storia, sia un aspetto trascurabile dell’arte (…) Insomma, gli autori di polizieschi vengono letti per i loro meriti, malgrado i difetti spesso evidenti: i romanzieri “seri”, al confronto, sono poco letti a causa dei loro difetti, malgrado i pregi spesso evidenti» (Lo spirito errabondo, Adelphi 2018). La velocità del giallo corre lungo un binario obbligato: omicidio, indagini, sospetti, scoperta e condanna del colpevole. Deve far leva sulla «bramosia intensissima» del lettore, desideroso di arrivare alla fine del libro e magari precorrere, nello scioglimento dell’enigma, quel battitore di piste che è il detective. Il giallo vuole essere «divorato» dal lettore, al contrario dell’opera d’arte che si impone per essere «letta». Questa è la conclusione del dibattito, alla quale giunse Wilson, molto semplificando: visto che non tenne conto dei possibili gialli anomali, che la tecnica del sottoprodotto letterario di tipo poliziesco assumono, in un superbo e nobilissimo progetto d’arte portato oltre il «genere», fin dentro la grande letteratura. Ed è il caso di Gadda, «che ha scritto», dice Sciascia, «il più assoluto “giallo” che sia mai stato scritto, un “giallo” senza soluzione, un pasticciaccio». Il capolavoro pingue e straripante di Gadda è fondato su un sistema di convulse dilazioni, che adescano il lettore nei grovigli delle indagini, con personaggi che entrano e che escono o tornano, fino a non pretendere più di tener dietro a tutto: mentre gode delle situazioni abnormi, e tra vari andirivieni, ritardi e deviazioni, arriva al cosiddetto scioglimento del «cruciverba narrativo» che consiste nella scoperta che dall'intrico non si esce; e «quasi» non si vuole uscire. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, aggiunge Sciascia, «forse, come libro (…) è già concluso: ma come “giallo” è propriamente interrotto. «Forse» e «quasi», certamente.
Grande e massimo «stilista del deforme», come ebbe a definirlo Manganelli, Gadda racconta nel Pasticciaccio «affari tenebrosi»: ricalcando, con ilare ironia, il titolo Une ténébreuse affaire di Balzac. Il plurale della formula gaddiana che, virgolettata, torna nel romanzo come citazione da una cronaca («i giornali avevano molto parlato del “tenebroso” delitto di via Valadier»), è imposta dalla doppia indagine condotta dal commissario-capo della Squadra Mobile di Roma, Ciccio Ingravallo, (spalleggiato dagli agenti «Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondone, e Pompeo detto lo Sgranfia»): su un furto di gioielli consumato ai danni della contessa Menegazzi, e sullo sgozzamento della signora Liliana Balducci; reati avvenuti a Roma, nel marzo del 1927, nel «palazzo dell’oro» o dei pescecani: un «casermone color pidocchio», in via Merulana, che la «serietà tiberina» del popolo vociferava essere colmo più di «oro» che di «monnezza». Sul putridume della città, che olezza di piscio e petrolio, incombe lo sgorbio grottesco e osceno di Mussolini: del «Truce in cattedra», del «Testa di Morto in stiffelius, o in tight»; la «maschia boce» del «buce». Ha scritto Calvino: «Roma, vischioso calderone di popoli, dialetti, gerghi, lingue scritte, civiltà, sozzure, magnificenze, non è mai stata così totalmente Roma come nel Pasticciaccio di Gadda, dove la coscienza razionalizzatrice e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta carnivora». Non manca la campagna romana, con il Soratte sullo sfondo: la montagna cantata da Orazio, dipinta da Massimo d’Azeglio, descritta da Curzio Malaparte.
Questo romanzo di sfarzoso plurilinguismo, e di un grottesco mescolamento degli stili, governato dalla belliana «puttanicizia» (e il Belli è espressamente citato), è intensamente visivo. Vi dirompe un pittoresco linguaggio dei gesti («Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli»), e un ritrattismo animato da nasazzi, zinne, muliebri baffetti blu, bollicine agli angoli delle labbra, e altri disgusti. A non parlare di una generalizzata aderenza alla grande pittura cinque-secentesca, e non solo. Gadda arriva a smembrare il ritratto di Cosimo de’ Medici dipinto da Pontormo. Disloca il particolare della ceppaia dinastica della famiglia medicea. E lo applica a significare il rapporto di cuginanza tra Giuliano (in un primo momento sospettato da don Ciccio di essere il carnefice ricercato) e Liliana: «Giuliano… un bel pollone dritto dritto, venuto su tutto dalla medesima ceppaia»; «Giuliano, verga splendita della ceppaia». Successivamente fossilizza la vecchia «Migliarini Veronica» nelle sembianze di Cosimo: «Si stava ingobbita sulla sedia, impietrata (…): teneva una mano nella mano, da parer Còsimo pater patriae nel ritratto del Pontormo».
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana uscì da Garzanti nel 1957. Viene ora rimesso a nuovo da Giorgio Pinotti, in una mirabile edizione pubblicata da Adelphi (pagg. 370, € 18,00). La magnifica Nota al testo di Pinotti, condotta con mano sicura e incisività di stile, si avvale di numerosi documenti inediti rinvenuti nell’Archivio Liberati, letti con sagacia interpretativa. E racconta il “romanzo”, vero e tragicomico, della carriera accidentata di uno scrittore «anticipista» e «remorante»: costretto a barcamenarsi, tra anticipi e prestiti, tra editori esigenti e talvolta iracondi e gelosi l’uno dell’altro, ai quali promette anticipazioni e puntate della sua opera; e intanto si arrovella, riscrive e trafelato, esausto e ansioso, ricorregge, e si rende cerimoniosamente e vigliaccamente inadempiente. Nelle remore, perlustra e fotografa l’agro romano, per orientarsi nell’ambientazione; pensa a sottoporre i suoi «cenci» a «risciacquatura nel Tevere», come un tempo il suo Manzoni nell’Arno; e per trovare una soluzione alla «coda serpentesca» del suo «coccodrillone», imposta una Sceneggiatura per il finale, un Finale imperfetto, delle Note costruttive, correzioni e completamenti. Ha un problema, Gadda: rendere meno marcata, nella conclusione aperta, la scissione «fra il sapere del lettore e la cecità di Ingravallo; smontare gli indizi sulla colpevole dello sgozzamento e «fuorviare, appunto, il lettore».
Non si trova il dattiloscritto del Pasticciaccio. Ma sappiamo che fu battuto a macchina dalla sua fidata Signorina Metta. Si chiamava Anita. Ma Gadda preferiva chiamarla Aninha, per meglio associarla alla battagliera moglie di Garibaldi. E battagliava ogni giorno, la Signorina, che era la segretaria della redazione romana della casa editrice Garzanti, con l’autore che interveniva in continuazione sul testo e le faceva ribattere tutto, mentre l’editore si dava in preda alle Furie. Gadda era ossessionato soprattutto dai nomi dei personaggi. Temeva che qualcuno si riconoscesse. Pretendeva di cambiarli in continuazione. Il suo santo era don Abbondio. La Signorina Metta divenne più tardi la segretaria di redazione della sede romana della Laterza. E lì la conobbe chi scrive: minuta e dolcemente collaborativa. Ormai si faceva chiamare Aninha.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
A cura di Giorgio Pinotti, Adelphi,
Milano, pagg. 370, € 18

Il Sole Domenica 20.1.19
Dispacci dall’Urss. Il duello a distanza tra Walter Duranty e Gareth Jones, cronisti nella Russia degli anni ’30 colpita dalla grande carestia
Il reporter che rivelò le bugie di Stalin
di Anne Applebaum


Negli anni Trenta i membri della stampa estera a Mosca conducevano un’esistenza precaria. Per vivere in Urss, e anche per svolgere il loro lavoro, avevano bisogno del permesso dello Stato. Senza una firma e il timbro ufficiale del dipartimento stampa, l'ufficio centrale del telegrafo non inviava all’estero alcun dispaccio. Per ottenere quel permesso, i giornalisti contrattavano sistematicamente con i censori del commissariato del popolo agli Esteri su quali parole potevano essere usate e cercavano di mantenersi in buoni rapporti con Konstantin Umanskij, il funzionario sovietico responsabile del corpo stampa estera. William Henry Chamberlin, allora corrispondente da Mosca del «Christian Science Monitor», scrisse che il corrispondente estero che rifiutava di ammorbidire i suoi articoli «lavora sotto una spada di Damocle: la minaccia dell’espulsione dal paese o del rifiuto dell'autorizzazione a rientrarvi, il che è ovviamente la stessa cosa».
Chi si prestava particolarmente bene al gioco, come Walter Duranty, poteva ricevere premi extra. Duranty fu corrispondente del «New York Times» a Mosca dal 1922 al 1936, un ruolo che, per un certo periodo, lo rese relativamente ricco e famoso. Nato in Gran Bretagna, non aveva legami con la sinistra ideologica; la sua posizione era quella di un «realista» testardo e scettico, che cercava di ascoltare sempre le due versioni di una storia. (...)
Tale posizione rese Duranty utilissimo al regime, che fece del suo meglio per assicurarsi che a Mosca vivesse bene. Disponeva di un grande appartamento, aveva un’auto e un’amante, le porte gli si aprivano più che a qualunque altro corrispondente, e per due volte gli furono concesse ambite interviste a Stalin. Ma la motivazione principale dei suoi lusinghieri servizi sull’Urss fu, sembra, l’attenzione che essi gli conquistarono. I suoi reportages da Mosca fecero di lui uno dei giornalisti più influenti del tempo. Nel 1932 la sua serie di articoli sui successi della collettivizzazione e sul piano quinquennale gli fece vincere il premio Pulitzer. Poco dopo Roosevelt, allora governatore di New York, invitò Duranty nella sua residenza ufficiale di Albany, dove il candidato democratico alla presidenza lo subissò di domande. «Stavolta ho fatto io le domande. È stato affascinante» avrebbe detto Roosevelt a un altro reporter.
Con l’aggravarsi della carestia Duranty, come i suoi colleghi, dovette rendersi perfettamente conto della volontà del regime di nasconderla. Nel 1933 il commissariato del popolo agli Esteri iniziò a imporre ai corrispondenti di presentare una proposta di itinerario prima di ogni viaggio nelle province, e tutte le richieste di visitare l’Ucraina venivano respinte. I censori iniziarono anche a controllare i dispacci. (...) In una simile atmosfera pochi corrispondenti erano inclini a scrivere della carestia, anche se tutti ne erano al corrente (...).
La riluttanza di Duranty a scrivere della carestia era forse particolarmente forte, e getta dei dubbi sui suoi precedenti, lusinghieri servizi (che gli valsero il Pulitzer). Ma in questo egli non fu il solo. Eugene Lyons, corrispondente da Mosca dell’«United Press» e, in giovinezza, marxista entusiasta, avrebbe scritto anni dopo che tutti gli stranieri in città erano ben consapevoli di quanto stava accadendo in Ucraina, oltre che in Kazakistan e nella regione del Volga: «La verità è che non cercavamo conferme di sorta, perché non avevamo alcun dubbio su quello che accadeva. Vi sono fatti troppo grandi per richiedere conferme di testimoni». […]
Tutti sapevano, eppure nessuno parlava. Da qui la straordinaria reazione sia dell'establishment sovietico sia dei membri della stampa estera a Mosca alla bravata giornalistica di Gareth Jones. Jones era un giovane gallese; all’epoca del suo viaggio in Urss, nel 1933, aveva solo ventisette anni. Forse su ispirazione della madre che, da giovane, era stata governante in casa di John Hughes, imprenditore gallese che aveva fondato la città di Donec’k, aveva studiato russo, oltre che francese e tedesco, all’università di Cambridge. Poi aveva trovato lavoro come segretario privato di David Lloyd George, ex primo ministro britannico. Nello stesso tempo aveva iniziato a scrivere da freelance di politica europea e sovietica. All’inizio del 1932, prima che i viaggi venissero vietati, Jones (accompagnato da Jack Heinz II, erede dell’impero del ketchup) s’era recato nelle campagne sovietiche, dormendo in villaggi su «pavimenti infestati di cimici», ed era stato testimone degli inizi della carestia.
Nella primavera del 1933 tornò a Mosca, questa volta con un visto concessogli soprattutto perché lavorava per Lloyd George (portava la stampigliatura «Besplatno», «Gratis», un segno di favore ufficiale sovietico). Ivan Majskij, l’ambasciatore sovietico a Londra, era particolarmente desideroso di fare impressione sull’ex primo ministro e aveva esercitato pressioni a favore di Jones. Appena arrivato, il giovane girò per la capitale sovietica, incontrando altri corrispondenti stranieri e funzionari. Lyons l’avrebbe ricordato come «serio, meticoloso, piccolo, […] il tipo di uomo che porta un taccuino e, senza vergognarsi, prende nota delle vostre parole mentre parlate». Incontrò anche Umanskij, gli mostrò un invito a rendere visita al console generale tedesco a Charkiv e chiese di potersi recare in Ucraina. Umanskij accondiscese. Così, con l’approvazione ufficiale, Jones partì per il sud.
Salì su un treno a Mosca il 10 marzo, ma, invece di andare direttamente a Charkiv, scese una sessantina di chilometri a nord della città. Caricatosi sulle spalle uno zaino pieno di «molte pagnotte di pane bianco, burro, formaggio, carne e cioccolato comprati con valuta estera», s’incamminò verso Charkiv seguendo i binari della ferrovia. In tre giorni, senza alcuna scorta e nessun controllo ufficiale, attraversò più di venti villaggi e fattorie collettive all'apice della carestia (...).
Jones dormiva sul pavimento in capanne contadine. Condivideva il cibo che aveva con la gente e l’ascoltava. «Hanno cercato di portarmi via le mie icone, ma io ho detto sono un contadino, non un cane» gli disse uno. «Quando credevamo in Dio eravamo felici e vivevamo bene. Quando hanno provato a fare a meno di Dio, siamo diventati affamati». (....)
A Charkiv Jones continuò a tenere appunti. (...) Cercò anche di incontrare un collega di Umanskij, ma non riuscì mai a parlargli. Silenziosamente, uscì dall’Unione Sovietica. Pochi giorni dopo, il 30 marzo, fece la sua comparsa a Berlino a una conferenza stampa (...). Lì dichiarò che tutta l’Unione Sovietica era colpita da una grave carestia, e raccontò: «Ovunque si gridava “non ’'è pane. Stiamo morendo”(....) “Aspettiamo la morte”: con queste parole mi davano il benvenuto. “Vede, abbiamo ancora del foraggio per il bestiame. Vada più a sud. Lì non hanno niente. Molte case sono vuote: la gente è già morta”» . (....)
Sulla scia immediata della conferenza stampa di Jones, Litvinov vietò ancora più rigorosamente ai giornalisti di uscire da Mosca. (...) I giornalisti stranieri a Mosca s’infuriarono ancora di più. Tutti, è chiaro, sapevano che quello che Jones aveva raccontato corrispondeva a verità, e alcuni stavano già cercando un modo per raccontare la stessa storia (...). Gli altri membri della stampa estera, tuttavia, che dipendevano dalla buona volontà ufficiale, serrarono i ranghi contro Jones. Quanto accadde fu scrupolosamente raccontato da Lyons: «Smentire Jones fu il colmo delle cose poco belle che avessimo mai fatto per compiacere la dittatura sovietica, ma lo smentimmo unanimemente». (...)
Indignato, Jones scrisse al direttore del «New York Times» una lettera elencando pazientemente le sue fonti - un enorme numero di interviste alle persone più varie, fra cui oltre venti consoli e diplomatici - e attaccando i giornalisti stranieri a Mosca. (...)
A questo punto la questione fu lasciata cadere. Jones non poteva competere con Duranty, più famoso, più letto e più credibile. Nessuno, inoltre, mise le affermazioni di quest’ultimo in discussione.
Più tardi Lyons, Chamberlin e altri si sarebbero rammaricati di non averlo contestato più duramente. Ma all’epoca nessuno prese le difese di Jones, neanche Muggeridge, fra i pochi corrispondenti da Mosca che avevano avuto il coraggio di esprimere opinioni simili.
Quanto a Jones, fu rapito e assassinato da briganti cinesi nel 1935 mentre era nel Manchukuo per scrivere dei reportages.

Il Sole Domenica 20.1.19
Nelle pieghe della storia. Partendo da un quadro di difficile interpretazione, passando per la «Commedia» e il suo enigmatico Maometto, la filologa Roberta Morosini scopre un’antica scena di propaganda antislamica
Dante, Lippi e lo strano toro volante
di Franco Cardini


Dante, il profeta e il Libro.
La leggenda del toro dalla
Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio
Roberta Morosini
L’Erma di Bretschneider,
Roma, pagg. 376

Nella National Gallery di Londra, fra le altre opere d’arte prestigiose ma anche inquietanti, ce n’è una che ha spesso attratto gli studiosi ma che non è mai stata oggetto di una interpretazione davvero convincente. Al centro, in alto, un baldanzoso toro semirampante si staglia nel cielo: e la linea delle acque marine che si distingue dietro di esso, inquadrata tra due alte cime montuose, suggerisce quasi che sia sorto dalle onde; in basso, un variopinto e festoso tiaso di uomini e di donne lo accoglie adorandolo con danze e suoni di strumenti musicali. La scena è tradizionalmente interpretata come l’Adorazione del vitello d’oro: secondo la narrazione di un episodio dell’Esodo (32, 1-6): il profeta Mosè ha asceso la montagna del Sinai, dove sta ricevendo da Dio le Tavole della Legge; ma, dal momento che la sua assenza si prolunga, gli ebrei si lasciano persuadere da alcuni cattivi consiglieri presenti tra loro che l’attesa sarà vana e ch’è opportuno rivolgersi a un’altra divinità. Fusi quindi gli oggetti d’oro portati dall’Egitto foggiano la statua di un vitello, che adorano. Mosè, all’atto della sua discesa dal Sinai, ordina infuriato che l’immagine sia fusa di nuovo e punisce con una morte atroce i principali istigatori del culto idolatra obbligandoli a ingerire il metallo liquido e ardente.
Il quadro, attribuito a un allievo del Lippi, il cosiddetto Maestro di Memphis, che l’avrebbe eseguito verso il 1502 su un disegno dell’artista, ha invero sempre lasciato perplessi i critici. Anzitutto, per quanto il riferimento ai due picchi montagnosi rinvii con certezza alle due cime del Sinai (il Gebel Musa e il Gebel Katharina), qui si tratta però non già di un vitello d’oro, immagine idolatra, come nell’Esodo, bensì di un toro vero e vivente, per quanto si libri prodigiosamente nell’aria pur non disponendo di ali; inoltre egli porta, perfettamente disegnata sulla spalla sinistra, un’argentea falce di luna (o, come diciamo un po’ impropriamente nei italiani, una «mezzaluna») che richiama inequivocabilmente il «crescente lunare», il hilal, all’inizio del Cinquecento ormai famoso per essere non solo e non tanto uno dei simboli dell’Islam quanto, più specificamente, il simbolo sia di Costantinopoli – che all’atto della redazione del dipinto era ormai da mezzo secolo nelle mani dei turchi ottomani – sia, appunto, dell’impero sultaniale ottomano. La natura e la storia di tale simbolo sono state recentissimamente richiamate con maestria in un capitolo del libro La cattedrale sommersa (Rizzoli, 2018, pagg. 13-26) dalla bizantinista ed iconologa Silvia Ronchey.
Le antichità egizie, già circondate da timorosa venerazione nel Medioevo, avevano conosciuto un crescente interesse fino dalla metà del Quattrocento; e, quando il quadro fu dipinto, regnava ancora sul soglio pontificio Alessandro VI l’arme araldica della cui famiglia, il toro dei Borja, era stato identificato con il toro isideo Apis degli antichi egizi, riconoscibile appunto per una bianca mezzaluna sulla spalla: è così che esso viene raffigurato anche dal Pinturicchio nell’Appartamento Borgia in Vaticano. Ma per quale oscuro motivo il vitello d’oro dell’Esodo poteva venir interpretato con Apis?
Dev’essere stata questa aporia a instradare Roberta Morosini, ordinaria di letteratura e filologia romanza presso la Wake Forest University (Usa) e specialista dei rapporti cristiano-musulmani fra Medioevo e Rinascimento, sulla vie della caccia a un problema complesso che coinvolge il profeta Muhammad, il poeta Dante e, appunto, il pittore Lippi. Ne è nato un libro poderoso e affascinante, Dante, il profeta e il Libro. La leggenda del toro dalla Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio edito da L’Erma di Bretschneider.
Per la verità, quanto ad aporie del tipo che tolgono il sonno agli studiosi, la Morosini era da tempo perseguitata da un’altra: dal momento che nella cultura dotta del Due-Trecento l’Islam veniva ordinariamente considerato – come lo presenta Tommaso d’Aquino nella Summa contra gentiles – come un’eresia cristiana, perché Dante punisce Maometto nel XXVIII dell’Inferno come “seminatore di scismi” anziché come eretico?
Il Maometto di Dante ha dato davvero del filo da torcere agli specialisti: e ci voleva forse uno studioso che ha la rara dote di possedere perfettamente due culture, quella musulmana del suo materno Egitto e quella latino-romanza e medievistica della sua seconda patria, Firenze, per gettare su tutto quel problema una luce nuova. Alludo a Mahmoud Salem Elsheikh, filologo allievo di Contini e accademico della Crusca, che nel geniale saggio Lettura (faziosa) dell’episodio di Muhammad, Inferno, XXVIII («Quaderni di Filologia Romanza», 23, 2015, n.s., 2, pagg. 263-299), ha mostrato come il Muhammad squartato e sventrato abbia, in alcuni testi mistici musulmani, un preciso valore mistico-esegetico. La Morosini invece, seguendo la pista dei testi occidentali, si è imbattuta nel Maometto protagonista di prodigiosi episodi, quali quello di una colomba che sembrava ispirarlo sussurrandogli ignote verità all’orecchio a quello – ed eccoci! – del Corano arcanamente consegnatogli da un toro che reca tra le sue corna il Santo Libro.
Attraverso pagine di stupefacente dottrina e grazie a un’analisi non solo testuale, bensì anche iconologica, tanto estesa quanto approfondita, la Morosini è risalita a ritroso dal quadro della National Gallery a quello ch’è uno dei capolavori (e il più misterioso e meno studiato) del pittore pratese, gli affreschi della «Cappella Carafa» nella chiesa romana di Santa Maria Sopra Minerva densi d’una complessa, intricata simbolica neoplatonica. Ne è nitidamente emersa la possibilità (molto più di un’ipotesi) d’interpretare l’adorazione del toro portatore di mezzaluna come una scena di propaganda antislamica: all’indomani della caduta di Costantinopoli, l’epifania dell’animale portatore del Corano e segnato dalla mezzaluna islamica, che appare nel cielo fra il tripudio dei pagani, è la nuova denunzia del pericolo ottomano e, indirettamente, la proclamazione della necessità d’una nuova crociata. Sulla scia di quanto i papi del tempo avevano chiesto, da Niccolò V e Pio II allo stesso Alessandro VI.
D’altronde, il simbolo è per sua natura polisemico. Il trionfo del toro selenoforo nella Roma dominata dal toro dei Borja è anche il trionfo dello strumento per eccellenza della Tradizione sacrale, il Libro, quel quale lo stesso Corano che in molti testi leggendari l’animale reca tra le corna è simbolo. Libro simbolo di «virtute e canoscenza», due virtù che con l’amore sono i simboli della Trinità. Il mistero del toro divino, una volta s-velato, immediatamente si ri-vela, cioè si rivela di nuovo. Propaganda antimusulmana o elogio del trionfo della sapienza? O entrambe le cose?

Il Sole Domenica 20.1.19
Enrico Letta. Il lavoro dell’ex premier è una rilettura profonda di ciò che è stato, in cui fa i conti con i propri errori. La distanza da rottamazioni e ruspismo, la centralità dei giovani
di Alberto Orioli


Imparare da un’auto-analisi
Ho imparato è un titolo felice. Cauterizza, in una narrativa di auto-analisi più che di sola enunciazione politica, la ferita del brusco cambio della guardia a Palazzo Chigi nel 2014. Enrico Letta, con questo volume che rivendica un modo diverso di declinare la radicalità del pensiero rispetto alla volgarità delle rottamazioni o del ruspismo, sublima, pagina dopo pagina, un lutto politico.
L’ex premier ha deciso di fare altro, un esilio culturale prima che geografico: è a capo della Scuola di affari internazionali dell’Università Sciences Po di Parigi e fondatore della Scuola di politiche, due centri di eccellenza di formazione delle nuove classi dirigenti globali. OraLetta cerca di evitare il rischio di far finire la sua storia istituzionale soltanto nella foto della cerimonia del passaggio della campanella a Palazzo Chigi, dove protagonista assoluta era una esibita e rancorosa frustrazione. Pur se comprensibile, perché frutto del machiavellismo renziano affidato al celebre #enricostaisereno, quella sola istantanea dell’insofferenza avrebbe inficiato il suo intero, ragguardevole cursus honorum.
E il volume diventa innanzitutto una rilettura profonda di ciò che è stato e costringe a fare i conti con gli errori, con la tecnica dell’esame di coscienza di chi è e resta cattolico. C’è lo straniamento di chi non sa più riconoscersi nel nuovo bazar dell’offerta politica, gridata, mutevole e tutta affidata alla propaganda dell’istante. Ma c’è la volontà di chi sa di essere élite sconfitta e intende scendere dalla torre della sapienza presunta per incontrare il Paese vero. A cominciare dai giovani, vera energia per ripensare un futuro diverso. Ai giovani che ha incontrato in questi anni da docente, Letta deve molto, probabilmente la stessa scelta di tornare in campo, sia pure per ora solo come estensore di un sorta di programma-confessione.
Se oggi l’Italia è questa - è la tesi di Letta - è perché prima qualcuno ha sbagliato (compreso l’autore del libro, naturalmente). «Mi impongo di mettere in discussione codici anche personali che giudicavo insuperabili. Studi o dossier che consideravo meno prioritari. Cerco di capire la rabbia e la frustrazione senza tuttavia cedere all’istinto di chiusura e recriminazione che talvolta leggo nelle reazioni di molti miei ex colleghi». È in queste righe il mood del volume. “Pensare l’impensabile” è lo slogan di fondo. Per qualcosa che non potrà restare solo una rilettura intimista di ciò che è stato. Ma che ha tutto il sembiante di un nucleo di pensiero politico ad uso di nuove comunità in cerca di aggregazione e di riconoscibilità (non a caso il libro è anche un esperimento editoriale di “Instabook”: le tesi del volume avranno una vita ulteriore tramite forum via Instagram discusse in un giro d’Italia interattivo). Non si sa se sia un gesto tardivo, ma l’ambizione di Letta è l’avvio di un nuovo «progetto collettivo».
Guai però a cadere nella trappola della nostalgia di un tempo che fu della “buona politica”, migliore e più nobile (per Letta quello ante-populismo non era certo un Eldorado e i politici degni di omaggio restano assai pochi, primo tra tutti il suo maestro Nino Andreatta). Niente «egotismi retroattivi, né livori o ossessioni della rivalsa»: è il tempo dell’apertura e dell’ascolto che, possibilmente, finisca in uno scambio virtuoso pur senza escludere che diventi conflitto e magari scontro. E questa è forse l’ammissione più difficile per il Letta politico, disarcionato proprio perché accusato di aver voluto temporeggiare su temi prioritari ma forieri di inevitabili scontri. L’importante - dice Letta - è non confondere «l’essenza del conflitto a partire dalle ragioni che lo determinano, con la sua pratica». Se ciò è chiaro, si arriva alla mediazione come bussola politica, non alla radicalizzazione esasperata e inconcludente. Il recupero dei valori fondanti (mai negoziabili) e di una competenza che non sia snobismo e si traduca in rappresentanza politica effettiva sono ancoraggi importanti. A questo fine non considera utile la proposta di Carlo Calenda (di cui condivide parte dell’analisi in Orizzonti selvaggi, edito da Feltrinelli) di creare un Fronte repubblicano del tutti contro Lega e M5s. «Uno schema potenzialmente letale», troppo elitario e troppo improntato all’idea del nemico. Di fatto un favore agli avversari che così si ricompattano.
Umiltà è parola che compare spesso. Poi c’è il coraggio, diviso in tre forme: quello della realtà (anche se non ci piace); quello del limite (a partire dai propri); e infine quello dell’immaginazione, il più importante anche perché costa fatica vera. «L’immaginazione conta più della conoscenza» era, non a caso, uno degli slogan preferiti da Albert Einstein.
In questo libro la cornice umana e psicologica è forse più importante dei contenuti che intende veicolare. Che tuttavia non mancano, anche se in gran parte soltanto sbozzati, data l’ambizione della loro rilevanza. «L’Italia mondiale» è quella che Letta vede proiettata nel mondo, frutto anche di una rilettura critica della globalizzazione, e ridisegnata sulla base di un nuovo modello di sviluppo improntato alla sostenibilità, ambientale ma soprattutto sociale così come suggerisce anche Papa Francesco. Nel suo percorso ci sono anche i sindacalisti negli organi direttivi dell’impresa: una mittbestimmung all’italiana, la partecipazione come antitesi della disintermediazione sociale, cara a Renzi e ai Cinque Stelle.
Naturalmente l’Europa come «spazio privilegiato della speranza umana» (definizione del Preambolo della Costituzione europea poi naufragata) resta l’approdo centrale, soprattutto in un mondo che cambia fisionomia con inattesa rapidità: decisivo il 2019 con Brexit, il nuovo ruolo della Germania,le elezioni europee più sentite di sempre, la prima fila dei leader tutta da rinnovare (a partire dalla Bce). L’immigrazione è il fenomeno chiave del nostro secolo e Letta suggerisce una gestione effettivamente (e finalmente) europea anche con un supervicepresidente dedicato a questo. In chiave nazionale invece propone una declinazione degli ingressi legati al mercato del lavoro sul modello canadese. L’innovazione più dirompente e più discutibile è tutta politica: una legislatura di tre anni (e non cinque) per adeguare le decisioni e il ritmo della politica alla metrica del nuovo tempo imposto dalla società dell’online e del tempo reale.
C’è una trama; ci sarà tempo per svolgimenti più dettagliati. Per ora Letta si è messo in cammino con l’idea che, quando soffia forte il vento, più che muri occorre costruire mulini per sfruttarne l’energia. È un proverbio cinese, da non confondere con il Don Chisciotte di Cervantes. Altrimenti siamo daccapo.
Ho imparato Enrico Letta
Il Mulino, Bologna, pagg. 188, € 15

Il Sole Domenica 20.1.19
Una Camera per il Duce
19 gennaio 1939. Con l’abolizione della Camera dei deputati, ultimo residuo dello Stato liberale, si portò a compimento il processo totalitario iniziato con l’avvento del fascismo
di Emilio Gentile


«Lo Stato totalitario non è più un semplice postulato teorico, per superare le contraddizioni della democrazia parlamentare ... E appunto la felice e costruttiva esperienza della nostra Assemblea porta nuova luce sull’istituto legislativo, mediante il quale ... la profonda trasformazione operata dal Fascismo nella struttura sociale del Paese viene a mano a mano acquisita allo ordinamento giuridico».
Con queste parole Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, definiva il significato storico della nuova assemblea costituzionale da lui presieduta, istituita il 19 gennaio 1939, in seguito alla soppressione della Camera dei deputati per volontà del duce, che portò così a compimento il processo totalitario di demolizione dello Stato liberale, iniziata fin dall’avvento del fascismo al potere. Nel corso di diciassette anni, il duce attuò gradualmente ma costantemente la radicale trasformazione dello Stato monarchico, abolendo il regime rappresentativo che aveva governato il regno d’Italia dal 1861.
Il partito fascista, fin dalla sua ascesa al potere, aveva brutalmente negato la sovranità popolare, mentre praticamente distruggeva con la violenza squadrista i partiti avversari. Dopo il 1925, avviò la costruzione del regime totalitario, come fu definito dagli antifascisti, esautorando i poteri del Parlamento per concentrarli nella persona di Mussolini come capo del governo. Nel novembre 1926, quando i deputati antifascisti furono dichiarati decaduti e i loro partiti messi al bando come nemici della nazione, lo Stato italiano divenne regime a partito unico. Due anni dopo, il 17 maggio 1928, una riforma della rappresentanza politica istituì il collegio unico per l’elezione dei deputati, e assegnò al Gran Consiglio, che era l’organo supremo del partito fascista creato da Mussolini alla fine del 1922, la prerogativa di formare una lista di candidati alla Camera, che gli elettori potevano solo approvare o respingere in blocco. Il Gran Consiglio fu trasformato in supremo organo costituzionale del regime fascista, con la facoltà di tenere aggiornata la lista di eventuali successori alla carica di capo del governo, cioè di eventuali successori di Mussolini, e di intervenire nella successione al trono, menomando così gravemente l’istituto monarchico.
La sopravvivenza della forma plebiscitaria per le elezioni della Camera, nel 1929 e nel 1934, non era una residua parvenza di sovranità popolare. Nessuna eventuale maggioranza di elettori contrari alla lista del Gran Consiglio avrebbe comportato una qualsiasi crisi del regime totalitario. Mussolini lo aveva detto chiaro e netto alla vigilia del plebiscito del 1929: «Ho appena bisogno di ricordare tuttavia, che una rivoluzione può farsi consacrare da un plebiscito, giammai rovesciare». Il fascismo si compiaceva di ostentare il consenso popolare, ma fondava esclusivamente sulla forza la sua esistenza.
La soppressione della Camera dei deputati, sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, fu l’atto finale della demolizione. Con l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni fu annientato qualsiasi residuo della rappresentanza popolare. La nuova Camera non era elettiva, ma formata dai membri del Consiglio nazionale del partito fascista e del Consiglio nazionale delle corporazioni, i quali assumevano la qualità di consiglieri nazionali della nuova Camera con «decreto del DUCE del Fascismo, Capo del Governo». Per i consiglieri nazionali, il limite minimo di età era stabilito a venticinque anni. Essi godevano delle prerogative precedentemente riconosciute ai deputati dallo Statuto, ma decadevano dalla carica nel momento stesso in cui decadevano dalla funzione esercitata nel Consiglio nazionale del partito fascista e in quello delle corporazioni. Insieme ai senatori, i componenti della nuova Camera avevano soltanto il compito di collaborare con il duce e il governo alla formazione delle leggi. Il duce e i gerarchi del Gran Consiglio ne erano membri di diritto.
Vittorio Emanuele III non reagì all’ennesima demolizione delle istituzioni fondamentali dello Stato monarchico, accompagnata dalla continua erosione della sua autorità sovrana da parte del duce. Ma durante la cerimonia di inaugurazione della nuova Camera, il 23 marzo 1939, il re apparve molto di malumore. E il suo malumore dovette acuirsi un paio di anni dopo, alla lettura del resoconto ufficiale sull’attività dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, dove era affermato che l’istituzione della nuova Camera consolidava l’identificazione della «qualifica di Duce o meglio Duce del Fascismo, collegata all’altra di Capo del Governo … cioè la guida, il Capo supremo del Regime, che si identifica ormai indissolubilmente con lo Stato». Il che equivaleva a dire, per proprietà transitiva, che il duce si identificava ormai con il capo dello Stato.
La Camera dei fasci e delle corporazioni fu abolita dopo il crollo del regime fascista, travolto dalla catastrofe militare, con un regio decreto legge del 2 agosto 1943, che fissava l’elezione di una nuova Camera dei deputati dopo la fine della guerra. Il ripristino della Camera dei deputati e l’istituzione di un Senato elettivo nell’Italia repubblicana sancirono la rivincita della sovranità popolare su uno dei suoi più formidabili nemici, definitivamente debellato dagli Alleati e dalla Resistenza antifascista.
E’ tuttavia probabile che l’anniversario della istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, sollecitando analogie e confronti con i recenti progetti di riforma delle Camere e la crisi attuale delle istituzioni rappresentative, provocherà nuovi appelli alla mobilitazione antifascista contro il fascismo che ritorna, sia pure con nuove sembianze, e persino con i movimenti populisti, che si appellano alla sovranità popolare e reclamano addirittura la democrazia diretta. Però, se esiste un fascismo che perpetuamente ritorna, ciò significa che l’antifascismo, di fronte a un “fascismo eterno” è destinato alla perenne sconfitta. A tali paradossi giunge un uso pubblico della storia, che in realtà non è storia ma “astoriologia”, ed ha con la storia lo stesso rapporto che l’astrologia ha con l’astronomia.

Il Sole Domenica 20.1.19
Regime & arte. Preferenze e censure del Führer indagate in un saggio
La passione insaziabile di Hitler per il cinema
di Tommaso Munari


Se si parla di «Hitler e il cinema», la mente corre subito a Charlie Chaplin che, nei panni del Grande dittatore (1940), volteggia sulle note del Lohengrin, facendo ruotare su un dito e poi rimbalzare sul sedere un mappamondo gonfiabile destinato a scoppiargli fra le mani. È la parodia politica più famosa della storia del cinema. Ma il rapporto tra il Führer e la settima arte indagato dallo storico Bill Niven nel saggio Hitler and Film è ben più complesso e sfaccettato, e oscilla fra due polarità: uso pubblico e passione privata.
Per riscostruirlo nelle sue varie articolazioni, Niven ha fatto ricorso a innumerevoli fonti. Nessuna ignota agli studiosi, tutte (o quasi) inedite per il lettore comune, specialmente quello italiano: dai carteggi fra gli assistenti del Führer e il personale del ministero della propaganda ai diari torrentizi di Joseph Goebbels; dalle memorie autoassolutorie dei registi Veit Harlan e Leni Riefenstahl alle rubriche e riviste di cinema del periodo nazista, fino, naturalmente, alle pellicole di centinaia di film e cinegiornali prodotti dal Reich. Esaminando e incrociando questi materiali, con vigile coscienza della loro gerarchia, l’autore ci rivela un nuovo volto di Adolf Hitler. O meglio, quattro.
Il primo è quello di spettatore privato: accanito, compulsivo, insaziabile. Hitler fu – per dirla con uno spudorato anacronismo – un inguaribile binge-watcher. La vittima ideale di Netflix. Secondo il suo assistente Julius Schaub, quasi ogni sera guardava, da solo o in compagnia, uno o più film; e secondo il suo fotografo personale Heinrich Hoffmann, riguardava ossessivamente i più amati, tra cui I nibelunghi di Fritz Lang (1924).
Quali erano gli altri? Difficile dirlo con certezza, anche se negli archivi federali tedeschi è conservata una raccolta di giudizi del Führer su tutti i film proiettati nel 1938-39 al Berghof, lo chalet sulle Alpi bavaresi dove era solito trascorrere lunghi periodi dell’anno. Giudizi eccessivamente stringati, purtroppo, ma sufficienti, insieme con altri indizi come l’inventario della cineteca del Berghof, a darci un’idea delle sue predilezioni: film epici, storici, comici e cartoni animati, su tutti quelli di Mickey Mouse (dono di Natale di Goebbels del 1937).
Il secondo volto, speculare al primo, è quello di spettatore pubblico. Contrariamente ai suoi ritmi di visione domestica, Hitler frequentava le sale cinematografiche con strategica moderazione. Che fosse in occasione della prima dell’Inferno dei mari di Gustav Ucicky (1933) o di quella della Squadriglia degli eroi di Karl Ritter (1938) o di quella di Un matrimonio movimentato di Wolfgang Liebeneiner (1939), ogni sua apparizione nel palco d’onore dell’immenso Ufa-Palast di Berlino (distrutto da un bombardamento nel 1943) costituiva una mossa propagandistica accuratamente studiata.
Sebbene il controllo preventivo dei film fosse una prerogativa di Goebbels (che non solo proibì ma custodì sotto chiave opere esplosive come Via col vento e Il grande dittatore), Hitler non disdegnò di calarsi nei panni di censore (terzo volto) ogni volta che le circostanze lo richiedevano. Quando ciò accadde, si attenne alla più genuina ideologia nazista: approvò la decisione del suo fidato ministro della propaganda di vietare Abele coll’armonica a bocca di Erich Waschneck (1933), per le sue implicazioni omosessuali; respinse una prima versione della Resa del Sebastopoli di Karl Anton (1936), troppo indulgente nella rappresentazione della rivoluzione bolscevica; ma risparmiò, forse ammaliato dall’interpretazione di Greta Garbo, Margherita Gauthier dell’ebreo George Cukor (1936), che raggiunse trionfalmente le sale tedesche nel 1937.
L’azione del Führer in veste di committente (quarto volto) si concentrò invece attorno a un solo nome: Leni Riefenstahl. Pur essendo osteggiata da Goebbels, il cui diario è prodigo di commenti misogini che la riguardano («Leni è molto brava. Se solo fosse un uomo!», 22 novembre 1934; «è estremamente isterica, una prova in più del fatto che le donne non possono gestire tali compiti», 18 settembre 1936), la giovane regista fu sempre protetta e riverita da Hitler, che le mise a disposizione mezzi illimitati. Questi, uniti a una straordinaria padronanza della tecnica cinematografica, le permisero di realizzare due ipnotici e magniloquenti lungometraggi – Il trionfo della volontà (1935) e Olympia (1938) – che celebravano rispettivamente il Raduno di Norimberga del 1934 e i Giochi olimpici di Berlino del 1936.
Al di là delle agiografie visive della Riefenstahl, non risulta che Hitler abbia commissionato direttamente altri film. Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare il suo ruolo nella produzione delle pellicole antisemite che invasero le sale di proiezione a partire dal 1940. Attraverso un’analisi delle varie stesure della sceneggiatura di S üss l’ebreo, per esempio, Niven dimostra che Veit Harlan aveva modificato i dialoghi del suo film per accordarli all’evoluzione delle idee e delle politiche antiebraiche del Führer.
Benché sia ormai noto a tutti che il cinema è stato lo strumento di propaganda privilegiato dalle dittature, i modi e le forme in cui esso fu impiegato dai vari regimi sono tuttora oggetto di ricerche accademiche (il contributo più recente e originale è il saggio storico-filologico di Ruth Ben-Ghiat Italian Fascism’s Empire Cinema). Per quanto riguarda il regime nazista, l’equilibrio tra analisi e sintesi raggiunto dal libro di Niven, ne fa un testo di riferimento da cui difficilmente si potrà prescindere.
Non bisogna tuttavia dimenticare che i film sono documenti di un’epoca al di là delle intenzioni dei loro autori o committenti. Chi per esempio volesse osservare attraverso la lente del cinema l’incubazione del germe nazista nella Repubblica di Weimar, dovrebbe ricorrere al vecchio ma insuperato saggio di Siegfried Kracauer Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco (1947).
Hitler and Film.
The Führer’s Hidden Passion
Bill Niven
Yale University Press,
London - New Haven,
pagg. XI + 300, $ 30

Il Sole Domenica 20.1.19
Stereotipi da evitare
I confini del fascismo (e antifascismo)
di Angelo Varni


Pare inevitabile che nel dibattito pubblico del nostro Paese, ad ogni significativo passaggio delle vicende politiche, torni a presentarsi il tema del risorgere o meno del fascismo, individuato in una sorta di suo carsico serpeggiare nelle viscere della nostra società lungo i decenni successivi alla cupa fine del regime in camicia nera.
Trovarne le ragioni comporta affrontare la complessità del rapporto ancora irrisolto con le contraddizioni della storia italiana del ventennio tra i due conflitti mondiali fatte, ad un tempo, di repressione e di consenso, di avventurismo bellicoso e di ristrutturazione economica statalista e corporativa, di pacificazione sociale e di violenza eversiva. Con un ritorno, in tal modo, fuori contesto a queste diverse prospettive interpretative, di volta in volta riesumate nelle loro tonalità divergenti, utilizzate a sostenere strumentalmente le posizioni proposte dalle varie parti ideologiche e partitiche nelle contingenze del presente.
A simile modalità non poteva, dunque, sottrarsi l’odierno tempo di così profondi e, per tanti versi, inediti mutamenti nei rapporti tra “politica” e cittadini, di tensioni sociali esplose a seguito di una crisi economica in grado di mutare gli stessi tradizionali equilibri geopolitici, di una globalizzazione alle cui implicazioni dirompenti popoli ed individui non erano in alcun modo preparati, mentre l’“invasione” tecnologica trasforma giorno dopo giorno condizioni di lavoro, abitudini di vita, relazioni interpersonali.
Intende, dunque, proporsi per questo confronto sul riemergere, nella attuale realtà italiana, di comportamenti e di propositi ispirati dal fascismo, il lavoro di Alberto De Bernardi, dal titolo quanto mai esplicito nella sua finalità conoscitiva, di Fascismo e antifascismo.
E netta ed immediata è per l’autore - richiamandosi alla migliore lezione dei maestri sull’irreversibilità della storia - l’avversione all’utilizzo della definizione di fascista al di fuori dei suoi propri limiti temporali, evitando in tal modo di proporlo quale stereotipo rappresentativo di tutti i movimenti reazionari, oppressivi, illiberali, cui opporre un ugualmente indistinto antifascismo espressione di tutti gli aneliti di libertà, di emancipazione, di progresso civile. Così evitando ugualmente di ricorrere ad un uso evocativo e simbolico della storia, più scorciatoia politica dall’indubbia forza emotiva che leva di effettiva comprensione di un presente alla ricerca, invece, di aggiornati strumenti in grado di battersi con efficacia contro possibili nuove stagioni di oscurantismi e di autoritarismi.
Nessun dubbio nell’autore che l’attuale dilagante crisi degli Stati nazionali, soffocati nei loro tradizionali equilibri democratici e di tutela, ad un tempo, di libertà e sviluppo sociale dal prepotere dei mercati, ben poco abbia a che spartire con quanto accadde in Europa al termine della Prima guerra mondiale. Allora fu proprio lo Stato, reso invasivo dalle esigenze belliche, ad imporsi come ente totalizzante posto alla guida in modo organico delle comunità di individui privati di identità, destinate con la forza a perseguire gli obbiettivi indicati da nuovi gruppi dirigenti fortemente ideologizzati e politicizzati.
Uno Stato totale che fu fascismo, da un lato del continente e comunismo dall’altro, che De Bernardi segue passo passo fino all’oggi nel suo evolversi dettato dal fluire della storia, proponendo via via interpretazioni spesso stimolanti, anche se sovente destinate a suscitare dibattiti e dissensi, sempre però ispirate dal generoso assunto che occorra tenere fermo l’auspicio del realizzarsi di una democrazia inclusiva e partecipata, custode delle libertà individuali e collettive, non meno che attenta allo sviluppo e all’emancipazione sociali.
Fascismo e antifascismo.
Storia, memoria e culture politiche
Alberto De Bernardi
Donzelli, Roma, pagg. 168, € 17





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