il manifesto 8.1.19
L’ostentazione del disumano in assenza di opposizione politica
Opposizione
morale e politica. Nella terra di nessuno dei valori, ricostruire
un’articolazione tra l’opposizione morale - che resiste ma stenta a
esistere - e un’opposizione politica che non c’è più e richiede una
ricostruzione ab imis, diventa impellente e vitale
di Marco Revelli
Al
punto più basso dei diritti umani nell’intera storia dell’Italia
repubblicana, di fronte a un governo che alza come bandiera la propria
ostentazione del disumano, dobbiamo constatare l’inedita assenza di
un’opposizione politica. Opposizione morale sì, da parte di qualche
sindaco coraggioso, di qualche vescovo fedele al vangelo, di qualche
persona di buona volontà che non si arrende al deserto che cresce.
Ma
sul piano politico il vuoto. Anzi un pessimo pieno, con una destra (FdI
e FI) che sul terreno delle politiche securitarie e migratorie tende a
scavalcare a destra la peggior destra di governo proponendo blocchi
navali e politiche segregazioniste (leggetevi Libero e Il Giornale se
siete di stomaco forte).
E QUELLA CHE FU LA SINISTRA che sul piano
delle politiche sociali riesce ad essere persino peggio del governo
difendendo austerità e legge Fornero, attaccando l’istituto stesso del
reddito di cittadinanza, mettendosi al seguito degli impresentabili
Commissari europei nell’assumere come dogmi i suicidi vincoli
comunitari; mentre su quello delle politiche migratorie e della difesa
della Costituzione manca totalmente di credibilità, delegittimata dalla
propria stessa storia recente.
Si pensi a quanto accaduto alla
Camera a fine anno, quando le esibizioni circensi di Emanuele Fiano in
difesa della Costituzione platealmente umiliata dalla coalizione
giallo-verde sono apparse a tutti grottesche, perché provenienti da chi
quella stessa Costituzione aveva cercato di fare a pezzi con uno
sciagurato referendum, e l’oltraggio alla discussione parlamentare
l’aveva perpetrato compulsivamente (ricordate?) a colpi di canguri e
voti di fiducia addirittura in materia di legge elettorale e revisione
costituzionale.
O SI RIFLETTA SULL’ATTUALE caccia alle streghe nei
confronti delle Ong, su cui il Pd è costretto a tacere dopo lo
sciagurato «codice Minniti» che di quella damnatio boni aveva inaugurato
la via. O, ancora, ci si soffermi sulla vicenda del cosiddetto decreto
Salvini.
Possibile che nessuno abbia trovato nulla da eccepire
(sia pur con il rispetto dovuto alla persona) alla scelta del Presidente
della Repubblica di firmare senza se e senza ma quel testo indecente,
palesemente in antitesi con i principi fondamentale della nostra Carta.
Se
quel testo fosse stato rinviato alla Camere, o se almeno fosse stato
accompagnato da un messaggio presidenziale con i necessari caveat, i
«sindaci coraggiosi» non sarebbero stati costretti a quel ruolo di
supplenza nella custodia della Costituzione che sarebbe spettato a
figure istituzionali ben più in alto, incassando peraltro dal ceto
politico di quella che illusoriamente continua a considerarsi «sinistra
di governo» non una solidarietà piena, ma timidi balbettii, pieni di
distinguo e di formalistici legalismi, come se il principio della
disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza fossero cose di cui
vergognarsi anziché strumenti necessari in casi di emergenza umanitaria.
La
ragione di tanto fariseismo se l’è lasciata scappare Stefano Folli
sulle pagine del quotidiano d’area, Repubblica, definendo «l’iniziativa
ribelle di Orlando, subito sostenuto dal napoletano de Magistris»
discutibile, anzi deplorevole perché compiuta «in sfregio alle
istituzioni», e pericolosa, perché – qui sta il vero nocciolo del
discorso – creerebbero, con il loro richiamo alla coscienza e il loro
radicalismo, «un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato
che voglia risalire la china».
S’INTUISCE QUI, neppur tanto tra le
righe, il profilo di un progetto politico che sta venendo avanti sotto
traccia, per allusioni e illusioni, e che vedrebbe – in opposizione ai
nuovi populismi – la costruzione di un fronte unito esteso dai
malpancisti di Forza Italia ai vetero-progressisti del Pd, composto da
tutti i pragmatici dell’esistente, dai rappresentanti di tutte le
élites, di tutti gli interessi, da quelli un tempo incarnati dal partito
azienda berlusconiano fino a quelli visibili nel parterre della
Leopolda renziana.
È IN FONDO L’ESPERIMENTO che si sta tentando
nel laboratorio-Torino in vista delle regionali del Piemonte, dove il
governatore uscente Chiamparino sta lavorando a un «fronte del SI»
aperto a tutti i fautori del Tav e in generale delle Grandi opere (al
«partito degli affari», insomma).
E dove il neo-eletto segretario
regionale Pd, Paolo Furia, ha scoperto gli altarini dichiarando, nella
sua prima intervista in carica, che in questa fase politica «è giusto
interloquire con la pancia delusa di Forza Italia» (proprio così, non
con la testa, che sarebbe già inquietante, ma con la pancia, cioè con
l’organo più vorace), soprattutto se «la Lega continuerà a governare con
i 5 Stelle» (che sono selezionati evidentemente come il «nemico
principale», molto meno allarmante dello xenofobo Salvini e dei suoi
pragmatici giannizzeri).
Paolo Furia è considerato esponente della
«sinistra» del Partito (figuriamoci gli altri!). La sua vittoria sul
renziano Mauro Marino è stata salutata come una svolta.
Ciò non
toglie che utilizzerà la nuova adunata del 12 gennaio dei Si Tav – che
con coazione a ripetere si sono dati di nuovo appuntamento in Piazza
Castello, con tanto di madamine, notai e banchieri, industriali e
commercianti – come apertura della lunga campagna elettorale per
“rimontare la china” (come dice Folli).
IL FATTO È CHE NEL CORSO
del lungo ciclo di sistematico taglio delle radici la sinistra ha via
via decostruito l’intero proprio patrimonio culturale, politico e morale
giungendo infine a questo «punto zero» dei valori e dell’identità, in
cui la cultura diventa vizio salottiero e la morale viene stigmatizzata
come moralismo, mentre l’unico metro di giudizio diventa il potere
(potere senza egemonia, potere senza coscienza, infine potere senza
potere, emblema di una sinistra incosciente e inconsistente, priva di
radicamento sociale e di orizzonte ideale).
In questa terra di
nessuno dei valori, ricostruire un’articolazione tra l’opposizione
morale – che resiste ma stenta a esistere – e un’opposizione politica
che non c’è più e richiede una ricostruzione ab imis, diventa impellente
e vitale.
Con molta probabilità, a riempire quello iato tra etica
e politica ci proverà la Chiesa, l’unica a conservare il senso della
«coscienza» e delle obiezioni ad essa connesse, e a non risolvere l’idea
di giustizia nella lettera della legge.
MA SAREBBE IMPRESA piena
di rischi (sarebbe un ritorno di confessionalismo, etico certo, ma pur
sempre confessionale) e non sarebbe indolore anzi, comporterebbe una
concreta possibilità di scisma che allargherebbe il cratere in cui ci
dibattiamo anziché bonificarlo.
Per questo la cultura laica non può
chiamarsi fuori. Rivisitare la vecchia «questione morale» che funzionò a
suo tempo come emblema di diversità, adeguandola al nuovo mondo,
nell’affermazione della centralità dei diritti umani universali e della
fraternità sociale, è una delle vie per uscire dal labirinto della paura
e dell’impotenza in cui ci siamo cacciati. Prima che l’eterno Minotauro
ci divori.