il manifesto 6.1.19
Nei conflitti adolescenziali, i fantasmi della collettività
Prima
ancora di entrare in contrasto con il mondo adulto, i ragazzi ne
denunciano le intenzioni sommerse: «Adolescenti senza tempo», un saggio
di Massimo Ammaniti, da Cortina
oseph Szabo, Teenage & Almost Grown
oseph Szabo, Teenage & Almost Grown
di Franco Lolli
Il
termine adolescenza deriva, com’è noto, dal verbo adolescere, il cui
significato è duplice: crescere, maturare, sviluppare, da un lato, ma
anche ardere, fumare. L’adolescente è, dunque, colui che cresce e
«brucia», colui che – si «infuoca» diventando adulto. Non a caso, il
processo di crescita postpuberale viene definito di infiammazione e di
incandescenza: a prescindere dall’epoca storica e dal luogo in cui il
destino del singolo essere umano si compie. Ma è pur vero – come
giustamente fa notare Massimo Ammaniti nel suo ultimo libro, Adolescenti
senza tempo (Raffaello Cortina,pp. 218, euro14,00) – che sul dato
strutturale di tipo organico intervengono fattori contingenti che
possono alterarne le specifiche qualità.
La riflessione di
Ammaniti sul fenomeno adolescenziale diventa così una opportunità per
riconsiderare il delicato rapporto tra i fattori biologici e quella che
Lacan definiva l’azione del Linguaggio sul vivente, alludendo ai modo in
cui l’Altro (inteso come l’insieme dei valori, delle aspettative, degli
ideali, dei modi di imbastire legame) disturba la predeterminazione del
programma genetico.
Pubertà anticipata
A questo proposito,
Ammaniti sottolinea come la comparsa dei primi segni della pubertà
avvenga nelle società occidentali in netto anticipo rispetto al passato
(10-10 anni e mezzo per le ragazze, 11-11 anni e mezzo per i ragazzi),
come l’utilizzo massiccio delle nuove tecnologie sia in grado di
modificare la struttura cerebrale e favorire lo sviluppo di determinate
abilità (a scapito di altre), come lo stesso meccanismo di ricerca del
piacere (che si lega alla produzione di dopamina) risulti condizionato
dall’uso dei social media, nei quali l’urgenza di ricevere una immediata
approvazione attiva meccanismi di dipendenza che – ci ricorda l’autore –
non sono poi così differenti da quelli causati dal consumo di droghe.
Sebbene
regolato dalle sue inesorabili leggi di funzionamento, l’organismo non
può non entrare in risonanza con l’universo significante nel quale si
trova. All’invariante biologico, ovvero ai requisiti trascendentali
della natura umana, fa da contrappunto la plasticità delle
manifestazioni fenomeniche che ne caratterizzano la comparsa.
In
un’epoca, allora, in cui una specie di catastrofismo diffuso tende a
giudicare, per fare un esempio, l’uso di tablet e smartphone come una
cesura insanabile e irreversibile nel progresso dell’umanità, il
richiamo di Ammaniti al Fedro di Platone e al Racconto d’inverno di
Shakespeare – di cui riporta la nota frase: «Vorrei che non ci fosse
l’età tra i dieci e i ventitré anni o che la gioventù la passasse tutta a
dormire» – ha l’indubbio merito di attenuare la portata drammatica
delle più affermate analisi sull’adolescenza.
In effetti, la
maggiore o minore integrazione dei ragazzi nel mondo degli adulti, la
capacità di uscire più o meno velocemente dall’indefinitezza che li
contraddistingue, l’espansione o la riduzione del tempo necessario per
accedere a una dimensione più stabile, sono tutte variabili mutanti al
mutare della Storia: e destinate, perciò, a ulteriori evoluzioni.
Citando
Platone, Ammaniti ricorda al lettore come preoccupazioni analoghe a
quelle che turbano chi si interessa al rapporto tra tecnologia digitale e
il mondo infantile-adolescenziale, erano già presenti nel mondo greco,
riferite, a quel tempo, allo sviluppo della scrittura, la nuova téchne
accusata di «provocare dimenticanze in chi la usa, perché non viene
esercitata la memoria».
Spie di un disagio sociale
Con
provvidenziale acume, l’autore nota come «probabilmente in un futuro
neppure troppo lontano, anche la téchne digitale potrà entrare a far
parte del patrimonio umano e non verrà più considerata qualcosa di
estraneo». Chi vent’anni fa dava per insuperabile la condizione
dell’adolescente tipica dell’era berlusconiana (l’edonista tutto dedito
al piacere e al godimento senza limiti) avrà dovuto oggi ricredersi
nell’incontrare sempre più spesso adolescenti depressi, spaesati,
angosciati, «appanicati», ansiosi, disorientati, disincantati e
nichilisti, sfiancati dalla più grande crisi economica (e sociale) degli
ultimi decenni. E chi aveva pensato che il tramonto del patriarcato
avesse irrimediabilmente destabilizzato l’esistenza delle generazioni
future, dovrà prendere atto del rigurgito autoritario e identitario che
il mondo occidentale sta affrontando e dei suoi effetti (ancora
sconosciuti) sulla edificazione dell’Io in chi cresce in un clima di
riaffermazione del potere di Dio, della Patria e della Famiglia.
L’adolescente,
in questo senso, sembra avere la capacità di portare alla luce il
fantasma inconscio che agita la collettività, offrendosi come una sorta
di cartina di tornasole dello spirito del tempo, che denuncia le
intenzioni sommerse del mondo adulto, prima ancora di entrarne in
contrasto. Le patologie dell’adolescente sono le patologie della società
in cui vive: il suo disagio è il disagio della comunità di cui è
figlio. L’adolescente ci indica, allora, la forma che assume, di volta
in volta, questo disagio: perché lo vive in presa diretta, senza le
mediazioni che intervengono nell’età adulta.
Sponde comportamentali
Le
osservazioni che Ammaniti raccoglie attraverso l’ascolto dei suoi
giovani pazienti, sembrano segnalare le varie declinazioni
dell’influenza che la società dello spettacolo esercita sui ragazzi: ed
è, in effetti, la riduzione dell’esperienza a scenario di promozione
della propria immagine ciò che più accomuna le varie manifestazioni.
Trattare se stessi come merce desiderabile sovraesponendosi nei selfie
o, all’estremo opposto, ribellarsi a questa deriva alienante
barricandosi in casa e sfuggendo al contatto con gli altri, sono le due
sponde comportamentali tra le quali gli adolescenti sembrano attualmente
rimbalzare. Sullo sfondo, l’imperativo spettacolare che traduce la
realtà in reality: forse l’eredità più pesante che il mondo degli adulti
dell’epoca postmoderna è stato in grado di lasciare ai propri figli.