Corriere 6.1.19
De Chirico pittore-filosofo
L’arte è la lingua dell’universo
Ideò forme geometriche e architettoniche per dare senso alla realtà
Un volume di Riccardo Dottori (La nave di Teseo) dedicato al grande maestro del Novecento
Schopenhauer e Nietzsche furono i punti di riferimento. Su Michelangelo sentenziò: «L’artista più stupido»
di Carlo Vulpio
Enigma,
malinconia, angoscia, inquietudine, rivelazione, sono le parole chiave
per capire l’arte di un grande del Novecento, il pittore, scultore,
musicista, filosofo e poeta Giorgio de Chirico. A patto che ci si
intenda sul termine metafisica, che quelle parole chiave tiene insieme, e
si eviti, come scrive lo stesso de Chirico, «il mastodontico malinteso a
cui potrebbe dar luogo la scomposizione della parola metafisica, dal
greco metà tà fusikà («dopo le cose fisiche»), che farebbe pensare che
quelle cose che si trovano dopo le cose fisiche debbano costituire una
specie di vuoto nirvanico». Invece, la realtà delle cose in sé non è
dietro o oltre l’apparenza, ma è nell’apparenza stessa e — ci si perdoni
l’estrema sintesi — la realtà dell’arte è l’unica a poterla cogliere.
Siamo
di fronte perciò a una realtà metafisica, che non è una anti-realtà, ma
al contrario è una yper-realtà, come la definisce e la spiega Riccardo
Dottori nel suo poderoso e ponderoso saggio Giorgio de Chirico. Immagini
metafisiche (La nave di Teseo). Un’analisi minuziosa, completa,
erudita, ma non per questo meno appassionata e brillante, oltre che ben
scritta, cosa non scontata quando si tratta di accademici, che consegna
al lettore gli strumenti necessari per capire de Chirico e la sua arte
metafisica, che egli volle distinguere subito dall’impressionismo e poi
dal surrealismo, dal futurismo e dal simbolismo.
Riccardo Dottori è
un filosofo della religione, è stato assistente di Hans-Georg Gadamer
all’università di Heidelberg e ha insegnato a lungo Ermeneutica
filosofica all’università Tor Vergata di Roma, e quindi ha raccontato
Giorgio de Chirico non solo ripercorrendone i momenti biografici più
significativi, e quasi indossandone i panni, ma soprattutto non
tralasciando nulla della sua formazione filosofica, letteraria,
artistica.
Ci illustra bene, Dottori, come e per quali vie de
Chirico ha dipinto i quadri di de Chirico, ed è convincente la sua tesi:
l’educazione classica di de Chirico è il perfetto retroterra della sua
arte metafisica, poiché l’artista classico è un metafisico, in quanto
«vede», attraverso la rivelazione e su una dimensione estetica di grado
superiore, che è una dimensione estatica, le forme dell’essere.
Quali
siano queste forme dell’essere alla base dell’arte metafisica così
intesa, lo dice lo stesso de Chirico: «Le prime fondamenta di una grande
estetica metafisica stanno nella costruzione delle città, nella forma
architetturale delle case, delle piazze, dei giardini e dei paesaggi
pubblici, dei porti, delle stazioni ferroviarie. I greci ebbero un certo
scrupolo in tali costruzioni, guidati dal loro senso
estetico-filosofico... In Italia abbiamo moderni e mirabili esempi di
tali costruzioni... ma verrà forse un giorno che tale estetica, lasciata
per ora ai capricci del caso, diventerà una legge e una necessità delle
classi superiori e dei dirigenti la cosa pubblica».
Le cose in
Italia sono andate diversamente, come ovunque tutti possiamo vedere, ma
forse non sarebbe stato così se si fosse ragionato come de Chirico, che,
scrive Dottori, non poneva alla base dell’opera d’arte il solo elemento
psicologico, ma una geometria «che regimenta la presenza umana nello
spazio abitato, che diviene un mondo storico; e questo vuol dire
comprendere la struttura metafisica, cioè geometrico-architettonica
delle piazze d’Italia», piazze che sono l’oggetto di molti quadri di
Giorgio de Chirico, esaminati da Dottori uno per uno.
Ci sono due
de Chirico metafisici — sottolinea Dottori —, quello di prima e quello
dopo la Grande Guerra, del periodo ferrarese, ma, riconosciuto il
«debito» di formazione ad Arnold Böcklin, sono sempre Arthur
Schopenhauer e Friedrich Nietzsche (l’enigma, la rivelazione) i punti di
riferimento incrollabili di Giorgio de Chirico, anche se, rispetto a
Schopenhauer, per de Chirico è la pittura e non la musica «la lingua
universale al massimo grado», ciò che gli fa intraprendere la sfida di
rinnovare il linguaggio pittorico dell’arte del XX secolo, in cui la
poesia parli attraverso le forme geometriche e la matematica, diventando
con la posa in opera «poesia architettonica», cioè realizzazione
dell’estasi metafisica e della rivelazione riservata soltanto al poeta, e
quindi «realtà» metafisica: non un al di là delle cose, ma «il secondo
aspetto» delle cose.
Opere come Il grande metafisico, Le Muse
inquietanti, Malinconia ermetica sono opere di un pittore-filosofo, che
considera Arnold Böcklin «l’unico ad aver dipinto quadri profondi» e
Michelangelo «l’artista più stupido», che definisce Friedrich Nietzsche
«il poeta più profondo, più di Dante e di Goethe» e che a chi gli
chiedeva quali fossero i più validi pittori viventi rispondeva — lo
racconta Vittorio Sgarbi in Novecento (edito sempre da La nave di Teseo)
—: «Nessuno, all’infuori di me». Mentre L’enigma di un pomeriggio
d’autunno è nient’altro che la malinconia, cioè la domanda che inquieta
l’uomo di fronte al non senso della vita, che può acquistare un senso
soltanto attraverso l’arte.
Solo per questa via dunque — un’arte
che non si preoccupi del buon senso e della logica, che sia «strana»,
che si avvicini al sogno e alla mentalità infantile — la malinconia può
diventare dolce, come ne Il canto d’amore, «il più famoso quadro di de
Chirico — sostiene Dottori —, il manifesto della nuova arte del XX
secolo», con quel guanto rosso di gomma appeso alla parete, forse la
mano del destino, che commosse René Magritte fino alle lacrime e gli
fece dire: «Ho visto il pensiero».