il manifesto 5.1.19
La vittoria delle donne indiane contro l’oscurantismo
India.
Due donne mestruate sono entrate per la prima volta in un tempio hindu
in Kerala, supportate dal governo locale di sinistra e da una
mobilitazione che ha infuriato gli estremisti e Modi
di Matteo Miavaldi
Lo
scorso 2 gennaio Bindu Ammini e Kanakadurga, due donne di
rispettivamente 42 e 41 anni, scortate da agenti di polizia in borghese
sono riuscite a entrare nel tempio hindu di Sabarimala, nello stato
indiano meridionale del Kerala.
Si tratta del primo ingresso di
donne in età mestruale nel complesso templare sin dalla sentenza
pronunciata dalla Corte suprema indiana nel mese di settembre, in
risposta alla petizione inviata nel 2006 da sei avvocate della Indian
Young Lawyer’s Association.
NEL PRONUNCIAMENTO, la Corte imponeva
all’amministrazione del tempio di far decadere il divieto di ingresso a
donne in età mestruale imposto per evitare che il dio Ayyappan – secondo
la credenza, impegnato nel voto di celibato hindu – potesse cadere in
tentazione alla presenza di donne tra i 10 e i 50 anni, in età fertile.
Dal
mese di ottobre, numerosi tentativi di ingresso al tempio da parte di
donne in età fertile sono stati respinti da gruppi di fedeli riuniti
sotto l’ombrello della Sangh Parivar, unione di gruppi estremisti hindu
vicina al partito conservatore hindu del primo ministro Narendra Modi,
il Bharatiya Janata Party (Bjp), rendendo di fatto l’applicazione della
sentenza impraticabile.
Alla presa di posizione degli estremisti
hindu il governo locale del Kerala, guidato dalla coalizione di sinistra
del Left Front, il primo gennaio ha risposto organizzando una catena
umana lunga 620 km formata da cinque milioni di donne, a riaffermare i
principi costituzionali di libertà e uguaglianza che dovrebbero vigere
nel Paese. Il giorno seguente, Bindu e Kanakadurga attraversavano la
soglia del tempio, facevano la storia, e mandavano su tutte le furie gli
estremisti hindu keralesi. La Sabarimala Karma Samiti, che gestisce il
tempio di Ayyappan, ha chiuso il luogo di culto per officiare un «rito
purificatorio» e ristabilire la sacralità del sancta sanctorum,
«violato» dalle due donne; intanto, fuori dal tempio, le proteste
organizzate dalla Sangh Parivar, sostenute sia dal Bjp che dall’Indian
National Congress (Inc) di Rahul Gandhi, si riversavano per le strade
del Kerala.
GRUPPI DI MANIFESTANTI hanno attaccato le sedi dei
partiti rivali e vandalizzato automobili, autobus ed edifici
dell’amministrazione pubblica, scontrandosi con gli agenti di polizia
dispiegati dal chief minister del Kerala Pinarayi Vijayan, 74 anni,
figura storica del Partito comunista indiano marxista (Cpi-M).
Secondo
diversi analisti indiani il sostegno offerto da Vijayan alla
mobilitazione femminile del Kerala è stato un colpo da maestro in
termini di politica locale, una sterzata molto ambiziosa che se di certo
pagherà dividendi di consenso nel breve termine, espone il Cpi-M a un
rischio di eccesso di avanguardismo ponendosi in opposizione a istanze
tradizionaliste dure a morire anche in Kerala, stato che gode di livelli
di progresso, apertura e benessere di media molto più alti rispetto al
resto del Paese.
I MILIONI DI DONNE E UOMINI che hanno partecipato
alla catena umana del primo gennaio e il chief minister Vijayan si
rifanno esplicitamente a un periodo glorioso della fine del 19esimo
secolo, il cosiddetto «rinascimento keralese», segnato dall’influenza di
intellettuali riformisti di casta bassa in agitazione contro le élite
brahmaniche di casta alta. In parole povere, progressisti
anti-intoccabilità e anti sistema castale – considerato un abominio
irriformabile, da abolire – contro tradizionalisti conservatori hindu.
Un’eredità
che il Cpi-M ha abbracciato a fasi alterne ma che ora, sotto Vijayan,
sembra più propenso a sposare, ponendosi in prima fila in una lotta per
l’emancipazione femminile che, seppur per ora circoscritta al caso di
Sabarimala, rappresenta una presa di posizione dell’alto valore
simbolico. Se il sostegno del Cpi-M alle istanze delle fedeli hindu
keralesi sia genuino o solo funzionale a un calcolo elettorale in vista
delle prossime elezioni nazionali, previste in primavera, lo si vedrà
nel futuro prossimo, quando il progressismo di Vijayan si scontrerà coi
crucci aritmetici di uno stato dove i voti passano ancora, in buona
parte, dal favore degli ambienti religiosi.
IN KERALA, IN
PARTICOLARE, mediando anche tra le corpose minoranze cristiana,
musulmana e atea, ricordando però un celebre adagio indiano per cui in
India è impossibile dirsi atei, al massimo «atei cristiani, atei
musulmani, atei hindu» e così via.
All’indomani della presa di
posizione del governo keralese, il timore è che la polarizzazione della
popolazione andata in scena negli scontri degli ultimi giorni possa
rilanciare ulteriormente la strategia del divide et impera tipica del
Bjp degli ultimi cinque anni, guidato dal duo Narendra Modi (primo
ministro) e Amit Shah (presidente del Bjp), maestri nel sobillare e
cavalcare a fini elettorali l’odio ora inter-castale, ora
anti-musulmano, ora «anti-maoista», ora anti-progressista.
UNA
PRIMA AVVISAGLIA di questa strategia, che dal Kerala potrebbe venire
proiettata come simbolo pan-indiano in accoppiata alla battaglia per la
costruzione di un grande tempio di Ram sulle ceneri della moschea di
Ayodhya, demolita dagli estremisti hindu negli anni Novanta, è arrivata
proprio per bocca di Narendra Modi durante un’intervista rilasciata alla
agenzia di stampa Ani qualche giorno fa.
A differenza
dell’abolizione del «triplo talaq» – una sorta di divorzio immediato
applicato da una minoranza della comunità islamica indiana, recentemente
giudicato dalla Corte suprema incostituzionale – sostenuta dal governo
«tenendo a mente l’uguaglianza di genere», la questione del tempio di
Sabarimala per Modi ha a che fare con «la tradizione»: «In India
riteniamo che tutti abbiano diritto ad avere giustizia. Ci sono alcuni
templi con delle tradizioni particolari, dove gli uomini non possono
entrare. E gli uomini non ci entrano… Per quanto riguarda Sabarimala, un
giudice donna della Corte suprema aveva fatto alcune dichiarazioni [in
opposizione alla sentenza, ndr]. È necessario analizzarle con
attenzione. Non c’è bisogno di attribuirle a questo o quel partito
politico. In quanto donna, ha avanzato alcuni suggerimenti. E ci
dovrebbe essere una discussione in merito, prima o poi».
LO STESSO
TIMORE di inimicarsi l’elettorato hindu ha spinto l’Inc keralese «dalla
parte sbagliata della Storia», in questi giorni schierato al fianco del
Bjp e degli estremisti hindu a difesa della tradizione.
Una
posizione in controtendenza rispetto alle ultime uscite pubbliche di
Rahul Gandhi, presidente dell’Inc, impegnato a imprimere una svolta
progressista nel «partito di famiglia» sperando di scongiurare l’esito
catastrofico delle nazionali del 2014, quando il partito di Modi
inflisse a Rahul Gandhi la peggiore sconfitta elettorale di sempre.
Tra
calcoli elettorali, deprimenti ipocrisie di bottega e la minaccia di
una nuova ondata ultrahindu questa volta senza nemmeno lo specchietto
per le allodole della crescita economica, l’unico dato positivo rimane
la straordinaria mobilitazione femminile in Kerala. Donne che, nel bel
mezzo di un’India mai così abbruttita dall’oscurantismo bigotto,
reclamano spazi, sfidano la tradizione, fanno sentire la propria voce. E
che, a Sabarimala, hanno vinto.