il manifesto 4.1.19
L’agrobusiness uccide gli indios
Reportage.
«Survival international» si rivolge al presidente Bolsonaro per
impedire il genocidio dei popoli brasiliani. Per rispettare la loro
esistenza, è necessario che la Fondazione nazionale dell’Indio resti al
ministero della Giustizia
di Angelo Ferracuti
Norman
Lewis, reporter straordinario e tra i maggiori autori inglesi del ’900,
viaggiatore dal piglio antropologico e formidabile inviato di guerra,
nel 1969 va nella Foresta Amazzonica e scrive per il Sunday Times un
pezzo che fa il giro del mondo: «Genocide in Brasil». Chi come me negli
ultimi anni è stato più volte nella selva brasiliana, a Catrimani con il
popolo Yanomami, ad Arariboia con i guardiani Guajajara, e al confine
con il Venezuela, non può prescindere da questo prototipo del
giornalismo, una storia che tristemente ripete il suo copione ormai da
oltre mezzo secolo.
Il quotidiano inglese aveva commissionato al
celebre giornalista un’inchiesta ad ampio raggio, partita da un’indagine
dello stesso governo latinoamericano, che aveva messo sotto processo
143 propri funzionari accusati di oltre mille crimini contro gli
indigeni sopravvissuti a una strage paragonabile solo all’Olocausto,
cioè la morte di 6 milioni di indios brasiliani. «Dei 19.000 Munducuru
che si stimava esistessero negli anni Trenta, ne erano rimasti solo
1.200. Il numero totale dei Guaranì si era ridotto da 5.000 a 3.000. Dei
4.000 Caraja ne erano rimasti 400. Dei Cinta larga, che avevano subito
attacchi aerei ed erano stati spinti sulle montagne, ne erano forse
sopravvissuti 500 su 10.000», scrive l’autore di Un’idea del mondo
(Edt), intrecciando dati storici e statistici, e narrando le ignobili
ferocie dello sterminio: «Roghi di massa, fustigazioni, sbudellamenti e
mutilazioni», e ancora: «Ci sarebbero stati casi di indios prima
spalmati di miele su tutto il corpo, e poi lasciati ai morsi delle
formiche fino a morirne». I carnefici protagonisti di quelle pagine sono
gli stessi di oggi, fazenderos, speculatori dell’agro business,
cercatori d’oro, taglialegna abusivi, allora le grandi compagnie della
gomma, magari oggi quelle petrolifere, per non parlare della
deforestazione prodotta dalle multinazionali della soia, Archer Daniels
Midland, Buge e Cargill, che utilizzano i raccolti della distruzione
della foresta per fare mangimi animali, destinati soprattutto al mercato
europeo.
Se uno s’imbatte nell’opera monumentale di una delle
figure più rappresentative e carismatiche della cultura amazzonica, lo
sciamano Yanomami Davi Kopenawa, La caduta del cielo (Nottetempo), si
rende conto della ricchezza spirituale, del valore cosmologico e insieme
ecologico dei popoli nativi, patrimoni di conoscenze e credenze
cancellati dall’orda capitalistica in nome di una presunta supremazia
costruita su un preconcetto razziale.
A seguito di quel celebre
reportage di Lewis che scosse le coscienze britanniche, nacque «Survival
international, movimento mondiale per i popoli indigeni»
(www.survival.it), che definì egli stesso «il più grande successo della
mia vita professionale», il quale proprio in questi giorni lancia un
grande appello affinché la Funai (Fondazione nazionale dell’indio),
l’ente statale preposto a difendere i territori e i popoli, non sia
esautorata e resti nel Ministero della giustizia invece che in quello
dell’Agricoltura, attraverso una lettera indirizzata al nuovo Presidente
Jair Bolsonaro, al Ministro straordinario Onyz Lorenzoni e al Giudice
Sergio Moro.
Nella stessa si legge: «In Brasile vive il maggior
numero di popoli incontattati. Per anni il mondo ha guardato al Brasile
come a un punto di riferimento per il suo lavoro e le sue politiche tese
a rispettare il loro diritto di scegliere liberamente come vivere. Ci
aspettiamo che il vostro governo sia d’esempio nel proteggere la terra
di queste tribù per impedirne il genocidio, permettendo loro di
sopravvivere e prosperare. Anche gli esperti del dipartimento del Funai
per gli Indiani incontattati hanno chiesto che l’agenzia rimanga sotto
il Ministero della Giustizia, sottolineando l’importante esperienza che
il Brasile ha maturato nella protezione delle terre e delle risorse
naturali dei popoli incontattati, e la responsabilità dello Stato nella
difesa di questi territori. (…) Vi esortiamo a rispettare la
costituzione del Brasile e le convenzioni internazionali che il Paese ha
ratificato, e ad assicurare che i territori indigeni siano demarcati e
protetti da interventi esterni e da invasioni illegali, per garantirne
l’uso esclusivo da parte dei popoli indigeni. (…) Per la sopravvivenza
dei popoli indigeni del Brasile, per la protezione dei territori a più
alta biodiversità del Paese, per la salute del nostro pianeta e per
tutta l’umanità».
La parola genocidio è tornata più forte di
quando Lewis la pronunciò, perché molti popoli indigeni brasiliani
rischiano l’estinzione o sono attaccati nelle terre dove vivono, come i
Gamela aggrediti nel loro territorio ancestrale da allevatori spietati, o
i Kawahiva incontattati del Mato Grosso, costretti a vivere in fuga per
salvarsi nella loro foresta, gli Awà nel Maranhão, la resistenza dei
Guaranì, invasi dai coloni, i loro leader vengono brutalmente uccisi e i
loro bambini muoiono di fame, l’epidemia di morbillo che ha colpito gli
Yanomami isolati al confine tra Brasile e Venezuela, una regione invasa
dai cercatori d’oro.
Jair Bolsonaro, «il Trump tropicale», come è
stato definito, sostenuto da uno dei gruppi economici più potenti del
paese, quello dell’agrobusiness, è stato chiaro in campagna elettorale:
«Nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios», ha detto. «Il clima
politico ostile ai popoli indigeni si è rafforzato negli ultimi anni;
il Congresso è, infatti, dominato dalla lobby agro-industriale che fa
parte della cosiddetta «BBB» (boi, bala e biblia), un gruppo di politici
con forti interessi in agricoltura, nella chiesa evangelica e nella
lobby delle armi», mi ha detto Sarah Shenker di Survival quando ci siamo
incontrati nel novembre scorso a Imperatriz. «Se i loro diritti
territoriali non saranno rispettati sarà una tragedia per la loro
sopravvivenza e per quella della foresta Amazzonica – con conseguenze
drammatiche per il nostro pianeta e per i tentativi di mitigare i
cambiamenti climatici e il riscaldamento globale».