il manifesto 3.1.19
Il giorno in cui il mondo imparò a dire «Ya basta»
Le celebrazioni per il 25esimo anniversario dell’Ezln in Chiapas
Messico.
Il primo gennaio la rivoluzione politica e sociale degli zapatisti ha
compiuto 25 anni. Così il Chiapas ha rivendicato spazio per gli
indigeni. E ora lo fa contro Amlo
di Claudia Fanti
Venticinque
anni sono passati da quel primo gennaio del 1994 in cui le comunità
indigene del Chiapas, organizzate nell’Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale, fecero la loro irruzione nel panorama messicano e mondiale,
esprimendo il loro «Ya basta!» e dando avvio alla loro avventura ribelle
di giustizia e libertà.
Quella rivolta indigena contro
l’espressione allora più «moderna» dell’offensiva neoliberista, il Nafta
(il Trattato di Libero Commercio del Nordamerica), era – come ricorda
su La Jornada lo scrittore e poeta messicano Hermann Bellinghausen – «la
prima mobilitazione contro la dittatura dei mercati» e avrebbe
«fecondato le imminenti resistenze globali contro il monopolio del
potere economico mondializzato». Ed era «il primo movimento sociale ad
avere a disposizione le armi della rete e delle sue reti, e ad
approfittarne ampiamente».
Anche i suoi contenuti apparivano
inediti, caratterizzati dalla sostituzione del tradizionale obiettivo di
ogni movimento rivoluzionario, la presa del potere, con quello della
presa di uno spazio – uno spazio di vita degna, di riconoscimento, di
autonomia -, negato da sempre ai popoli indigeni.
Con la
conseguente affermazione di modi diversi di fare politica, estranei
all’occupazione delle istituzioni dello Stato e centrati, al contrario,
sulla creazione dal basso di processi decisionali collettivi secondo il
principio del «comandare obbedendo». Guidato dal suo calendario politico
e da una concezione dell’autonomia come orizzonte strategico e pratica
quotidiana, l’esercito zapatista è riuscito a creare e a consolidare,
lontano dai riflettori, le sue originali forme di autogoverno,
esercitando la giustizia, attivando sistemi di salute e di educazione ai
margini del governo statale e federale, organizzando la produzione e
tessendo reti di solidarietà in tutto il mondo.
A partire da quel
primo gennaio 1994, tra annunci interessati di morte dell’esperienza
rivoluzionaria e successive, puntuali, «resurrezioni», l’Ezln non ha mai
abbandonato la scena nazionale, dalla prima Dichiarazione della Selva
Lacandona fino alla presentazione di Marichuy, in qualità di portavoce
del Consiglio indigeno di governo, come candidata indipendente alle
presidenziali 2018.
Non certo per competere con i politici
professionisti, ma per portare, come avrebbero chiarito i subcomandanti
Moisés e Galeano, «un messaggio di lotta e organizzazione alla gente
povera dei campi e delle città del Messico e del mondo».
Molto ci
sarebbe stato da festeggiare alla commemorazione di questo 25esimo
anniversario, svoltasi nel municipio autonomo de San Pedro Michoacán,
dove sono accorsi zapatisti da tutti e cinque i caracoles del movimento
(le strutture organizzative create nel 2003 e rette dalle Giunte di buon
governo).
Eppure il discorso del subcomandante Moisés è stato
tutt’altro che trionfalista: «Siamo soli – ha detto – come 25 anni fa.
Eravamo soli quando ci siamo sollevati per risvegliare il popolo
messicano e lo siamo oggi. Ma siamo riusciti comunque a portare la
nostra voce ai poveri del Messico, dei campi e delle città». Ma,
soprattutto, Moisés ha ribadito, al di sopra di ogni dubbio, la
posizione zapatista nei confronti del governo di Andrés Manuel López
Obrador, rispetto al quale l’Ezln aveva già pronunciato parole di fuoco:
«Potranno cambiare i capataz, i servitori e i capisquadra, ma il
proprietario continuerà a essere lo stesso».
L’1 gennaio Moisés è
andato oltre, accusando il presidente di mentire e ingannare le comunità
indigene, manipolando i messicani con le sue false consulte e chiedendo
«il permesso alla terra per costruire il suo Tren Maya», quando in
realtà «ciò che vuole è il permesso di distruggere, con le sue grandi
opere, i popoli originari».
E lo fa, per di più, chiamando «Maya»
quel progetto di linea ferroviaria, come se potesse avere a che fare con
i maya un’opera destinata a collegare le principali aree turistiche
della Penisola dello Yucatán a tutto vantaggio del capitale finanziario,
del settore immobiliare e di quello turistico e in perfetta continuità
con la strategia neoliberista di controllo territoriale dei governi
precedenti.