giovedì 3 gennaio 2019

il manifesto 3.1.19
La macchina da presa «imita» l’inafferrabile vitalità del pennello
Al cinema. «Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità», il film di Julian Schnabel sugli ultimi quattro anni di vita dell'artista
di Giona A. Nazzaro

Sulle problematiche relative ai rapporti fra pittura e cinema sono stati scritti numerosi saggi e volumi. Il cinema, ovviamente, si è posto questo problema innumerevoli volte (ed è inutile stare a elencare titoli e opere tanto è vasto l’elenco…).
JULIAN SCHNABEL, pittore e regista, nell’affrontare Van Gogh, uno degli artisti più documentati e raccontati, adotta una soluzione a dir poco sconcertante per dare conto dell’indicibilità del magistero del pittore. Concentrandosi sugli ultimi quattro anni di vita dell’artista, Schnabel si inventa un maldestro action-filming che dovrebbe imitare l’inafferrabile vitalità del pennello mentre si muove sulla tela dando vita a una pittura che Gauguin considerava prossima alla scultura. Affidando il ruolo del protagonista a Willem Dafoe, che per la prima volta nella sua carriera cede alla tentazione di volere dimostrare a tutti i costi di essere un «grande attore», il film si autocortocircuita in un mimetismo impacciato dal quale manca qualsiasi accenno di vitalità e inventiva. Se Dafoe porta sullo schermo la sua interpretazione più scolastica, premiata a Venezia, mettendo da parte tutto quanto lo ha reso uno degli attori più imprendibili di Hollywood, Schnabel è come se rinunciasse al compito stesso della messinscena.
LA MACCHINA da presa vaga senza senso; traccia traiettorie che in confronto quelle del Lars Von Trier dogmatico paiono sobrie e misurate e gioca di banali cromatismi nel tentativo di riportare i colori di Van Gogh sullo schermo. Il sospetto, in fondo, è che questo progetto sia stato pensato male e realizzato peggio. Come se qualcuno avesse sottovalutato la complessità dell’operazione. E non bastasse evocare il magistero di Minnelli e Pialat, o ricordare il magnifico sogno kurosawiano con Scorsese nei panni di Van Gogh, sarebbe bastato magari dare uno sguardo, anche distratto, al documentario Alla ricerca di Van Gogh, dove ci si ritrova davanti all’ineffabile scandalo della copia che imita il magistero dell’originale.
Senza scomodare Benjamin, Schnabel non comprende che evocare l’irripetibilità dell’arte e del gesto, in un paesaggio dominato dalle copie nel quale pure l’originale è indistinguibile dalla sua riproduzione, creando a sua volta il feticcio di un’originalità indicibile (lo svolazzare della sua macchina da presa), è in fondo un’operazione banale, sciocca e profondamente reazionaria. Ecco, il Van Gogh di Schnabel è una mera (im)postura che si offre con le stigmate del film d’arte ma in realtà quella che si spaccia è una crosta che qualsiasi copista avrebbe realizzato con più amore e rispetto.