il manifesto 31.1.19
Mondo denutrito, e il cibo si butta
Il
fatto della settimana. Più di 800 milioni di persone soffrono la fame e
lo spreco alimentare ha raggiunto cifre record, alimentato
dall’agroindustria. In Italia aumentano obesità e malnutrizione, mentre
c’è sempre meno autosufficienza
di Serena Tarabini
Nelle società del benessere siamo abituati al fatto che il cibo si perda e con esso anche il senso del suo valore.
Lo
spreco alimentare è la piaga etica, sociale, ambientale della post
modernità, frutto grottesco e crudele del neoliberismo portato
all’estremo (in Italia, martedì 5 febbraio, è la giornata nazionale
contro lo spreco alimentare). Viene sprecata almeno 4 volte la quantità
di cibo sufficiente a sfamare gli 815 milioni di denutriti ancora
presenti al mondo. Secondo diversi studi la prevenzione degli sprechi
oltre a intervenire nell’immediato sul bilancio economico dei paesi più
deboli, sarebbe garanzia di sicurezza alimentare per i 9,5 miliardi di
persone presto vivranno sulla Terra.
Ma le cifre strabilianti ed
assurde che accompagnano questo fenomeno oltre a determinare gravissime
perdite economiche pesano anche sul nostro fragile pianeta e le sue
risorse, che vengono sottratte inutilmente con abbondante produzione di
emissioni che causano la febbre della Terra. Per non parlare delle
enormi quantità di acqua e fertilizzanti impiegate nella produzione di
cibo che non raggiungerà mai la tavola. Stiamo quindi per assurdo
sfidando i limiti del pianeta in termini di cambiamenti climatici,
perdita di biodiversità, consumo di suolo, acqua ed energia, in gran
parte per non farcene nulla.
Capire come e perché siamo arrivati a
tutto questo necessita una visione d’insieme che prende in
considerazione fattori economici, sociali, politici, culturali e la loro
relazione con l’ambiente. Lo fa lo studio molto articolato realizzato
dal ricercatore ecologo Giulio Vulcano, pubblicato in parte anche da
Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.
Il
principale colpevole è il sistema di produzione alimentare
agro-industriale dentro il quale ci siamo radicati economicamente e
culturalmente, fondato sull’impiego di fonti fossili di energia e
sostanze chimiche di sintesi, sulla finanziarizzazione, i commerci
internazionali, la concentrazione dei mercati e l’occultamento dei costi
ambientali e sociali. Un sistema legato a doppio filo con il modello
capitalista che per sua natura necessita la sovrapproduzione e lo
spreco. Lo spreco alimentare si rivela infatti un fenomeno funzionale
all’espansione del sistema economico e commerciale dominante, che ha
allontanato sempre più i luoghi di produzione dai luoghi del consumo,
disconnettendo le persone fisicamente, economicamente e cognitivamente
dal cibo e dai processi connessi. La filiera è sempre più lunga e fuori
controllo: presenta perdite a ogni passaggio e a un incremento minimo di
un fabbisogno reagisce con eccessi di produzione, facendo aumentare
esponenzialmente gli sprechi e di conseguenza i danni all’ambiente. Un
interessante studio promosso dall’Unep (programma delle Nazioni Unite
per l’ambiente) ha classificato i settori industriali globali in base al
danno ecologico creato al capitale naturale, facendo emergere che tra i
primi 5 settori regionali che creano maggior danno ecologico globale 3
sono agroalimentari: l’allevamento di bestiame in Sudamerica e le
coltivazioni di frumento e riso nell’Asia del Sud. Sempre l’Unep in un
altro studio ha individuato nel cibo a basso prezzo una causa di spreco e
insostenibilità: i prezzi sarebbero ben altri se incorporassero i costi
ambientali e sociali di questo tipo di produzione eccessiva e si
sprecherebbe meno.
Anche in Italia non siamo messi molto bene: la
ricerca evidenzia come lo spreco alimentare è stato per troppo tempo
sottostimato e potrebbe essere di dimensioni più preoccupanti. Obesità e
malnutrizione sono in aumento, come anche le difficoltà di accesso al
cibo; inoltre il nostro paese dimostra sempre meno autosufficienza
alimentare: per alcuni prodotti siamo autonomi solo all’80%, per altri
addirittura al 60%, effetto dell’abbandono progressivo delle terre
agricole e dell’artificializzazione dei suoli. Questo spiega perché lo
spreco nostrano possa arrivare al 63% della produzione iniziale. Cioè
più della metà di quello che produciamo (o introduciamo nel sistema
alimentare) si perde. Ciò nonostante in Italia sia stata approvata una
legge, la 166/2016, che affronta il tema e tra l’altro permette di
donare le eccedenze e ottenere uno sconto sulla tassa dei rifiuti. A
livello europeo la discussione avanza, ma non nella direzione giusta
affrontando solo il problema finale dei rifiuti. La ricerca mostra che
per prevenire lo spreco è necessario limitare la formazione di eccedenze
con una trasformazione strutturale del modello agro-alimentare
industriale prevalente. Il cambio anche culturale e valoriale deve
investire in primis il sistema di produzione, perché gli effetti
negativi ambientali e sociali sono associati soprattutto alle fasi
iniziali più che allo smaltimento dei rifiuti. Deve essere restituita al
cibo la sua naturalità seguendo la strategia dell’autonomia alimentare
per scardinare quegli effetti complessi che finiscono per determinare
insicurezza alimentare nei paesi e nei soggetti economicamente deboli.
Le strade ci sono e la ricerca indica come gli sprechi siano molto
minori in reti alimentari corte, locali, ecologiche, solidali e di
piccola scala: la produzione di rifiuti è 3 volte inferiore, si arriva
addirittura ad 8 quando entrano in gioco pratiche agro-ecologiche,
gruppi di acquisto solidale (Gas) e comunità di produzione (Csa) dove i
consumatori sono anche produttori; chi si approvvigiona solo con reti
alternative spreca in media un decimo in meno. Questi sistemi
alternativi agiscono positivamente su tutti i fronti dello spreco:
riducono le intermediazioni e i passaggi; coordinano meglio capacità
naturali, produzione, consumo e fabbisogni; aumentano la consapevolezza
dei soggetti; garantiscono valori equi; gestiscono più efficacemente il
poco invenduto. Sono prioritarie quindi politiche economiche di sostegno
per facilitare la diffusione di questo tipo di sistemi.