Corriere 31.1.11
Von Braun, fu vera gloria?
Ricostruzioni Documenti inediti gettano ombre sull’artefice delle V2 di Hitler, chiamato poi nella Us Army e alla Nasa
Christopher Lauer smonta il mito del tedesco «padre» dei primi missili
di Paolo Valentino
Berlino
Quando mezzo secolo fa il primo uomo mise piede sulla Luna, il mondo
intero esultò insieme agli americani. Ma più di tutti probabilmente
esultarono i tedeschi. A riempirli d’orgoglio fu soprattutto il ruolo
avuto nell’impresa del secolo da colui che «der Spiegel» aveva definito
«il Cristoforo Colombo del Cosmo». Aveva 57 anni nel 1969, Wernher von
Braun. Ma era già una leggenda. Era lui, nato a Berlino, scienziato e
padre della missilistica moderna, ad aver costruito i giganteschi razzi
che portavano gli astronauti statunitensi nello spazio. Geniale e
carismatico, von Braun aveva anche le physique du rôle di un eroe
mitologico: alto, biondo, gli occhi azzurri, la mascella volitiva.
Il
trionfo dello sbarco sulla Luna sembrò aver definitivamente ragione di
tutte le ombre del suo passato, trasformandolo in una saga. Studente
prodigio, affascinato sin da piccolo dal sogno dei razzi, egli era stato
l’artefice delle V2 di Hitler, i primi missili della storia umana,
l’arma miracolosa che nei vaneggiamenti del Führer avrebbe dovuto
cambiare il corso della guerra. Non servirono a molto, anche per i tanti
difetti tecnici che a tutt’oggi ne fanno il sistema d’arma che ha
ucciso più persone nella fase della produzione che durante il suo breve
impiego sulle città inglesi. Ma il dominio della nuova tecnologia fu il
talismano che dopo la guerra aprì a von Braun e alla sua squadra di
collaboratori le porte dell’America, che lo accolse a braccia aperte.
Prima nei laboratori della US Army, poi in quelli della Nasa, egli
sviluppò fra gli altri un missile a corto raggio usato nella Guerra di
Corea, lo Jupiter che portò nello spazio i primi satelliti americani e
soprattutto il mastodontico Saturno, che lanciava le navicelle Apollo.
Nella retorica dei suoi biografi, von Braun diventò l’incarnazione
dell’uomo di scienza visionario che sogna la cosa giusta, fa quella
sbagliata con un patto faustiano, ma alla fine trionfa lo stesso.
Ma
andò proprio così? Non esattamente, secondo lo studioso tedesco
Christopher Lauer, che ha avuto accesso a documenti inediti (compresa la
tesi di dottorato di von Braun) e che in un saggio pubblicato dalla
«Frankfurter Allgemeine am Sonntag» ridimensiona il mito del «Rakete
Beau», il bello dei missili (sempre copyright «der Spiegel»), gettando
dubbi pesantissimi sui meriti scientifici del nostro. A cominciare dagli
esordi, quando secondo la narrativa ufficiale von Braun neanche
ventenne sarebbe stato notato da Karl Emil Becker e Ernst von Horstig,
due esperti della Reichswehr (l’esercito di Weimar) che all’inizio degli
anni Trenta facevano esperimenti con i primi rudimenti di tecnologia
missilistica. Entusiasti delle capacità e delle intuizioni del ragazzo,
gli avrebbero offerto di prendere la guida di quello strano laboratorio
dell’esercito tedesco.
Poco plausibile, osserva Lauer, rivelando
che in realtà von Horstig, in una nota personale conservata negli
archivi federali e fin qui ignorata, esprimeva un giudizio negativo
sulle sue conoscenze. E che la decisione di offrire un lavoro al giovane
von Braun ebbe ben altre motivazioni: la prima fu il suo rapporto
personale con Rudolf Nebel, ex asso dell’aviazione, ingegnere genialoide
con un’ossessione da praticone per i razzi, di cui costruiva modellini
che faceva esplodere davanti a un pubblico di appassionati in uno spazio
berlinese conosciuto come Raketenflugplatz. Il giovane von Braun era
assiduo frequentatore e aiutava Nebel nei suoi esperimenti. Una foto li
mostra insieme con due missili caricati sulle spalle. Carattere
difficile, Nebel era il guru, Wernher l’adepto. «Volevano agganciare il
primo e per questo si concentrarono sul secondo», scrive Lauer. Ma
soprattutto, a fare la differenza fu il padre di Wernher, Magnus von
Braun, ministro del Reich per l’Agricoltura, per nulla entusiasta della
passione del figlio che lo distoglieva dagli studi, dove non eccelleva. A
lui Horstig propose di far lavorare il ragazzo alla ricerca sui razzi
nella Reichswehr e allo stesso tempo completare il corso universitario.
Per Horstig, sempre in cerca di finanziamenti per progetti in cui
nessuno credeva, avere un appoggio dentro il governo non era poca cosa.
Lauer
getta poi dubbi pesanti sull’autobiografia di von Braun, che racconta
di aver costruito da solo i suoi due primi prototipi, Max und Moritz. In
realtà, da una nota scritta di Horstig e fin qui inedita, si apprende
che al giovane avevano dovuto affiancare un esperto in propellenti
liquidi preso da un’azienda berlinese. Di più, che il nostro non fosse
da solo in grado di costruire un razzo, lo prova una sentenza del
Tribunale di Monaco di Baviera del 1952. Era stato il vecchio guru Nebel
dopo la guerra a querelare von Braun, contestandogli di essersi
autodefinito «l’inventore delle V2». I giudici avevano dato parzialmente
ragione a von Braun, tranne che su un punto: «È sicuro che egli non
sarebbe andato avanti nello sviluppo dei missili se non gli fossero
stati dati dei collaboratori».
Il suo nome è legato ai razzi che 50 anni fa portarono gli americani sulla Luna
E
la dissertazione di laurea? Intanto Lauer dimostra che von Braun mentì
dicendo che il suo relatore era stato Karl Becker, cosa non sostanziata
in nessun archivio. Perché questa bugia? Poi c’è la inusuale velocità
con cui venne approvata, appena tre giorni, quasi che non venisse
neppure letta. Roba da figlio del ministro super-raccomandato, insomma.
Ma più grave, spiega Lauer che invece l’ha letta, è che non contenga
alcun dato concreto, nessuna misura sperimentata e impiegabile rispetto
alla tesi: elementi teorici e pratici per la costruzione di un razzo a
propulsione liquida. Dulcis in fundo, un intero capitolo è interamente
copiato, senza attribuzione, da una rivista dell’Associazione per i
viaggi spaziali.
Il punto sui collaboratori, sottolineato dalla
sentenza di Monaco, è importantissimo. Privo di vere qualificazioni
nella tecnologia missilistica, in realtà von Braun rivelò eccellenti
qualità di manager, capace di coordinare e delegare il lavoro dentro
organizzazioni complesse. E questo spiegherebbe la sua carriera sotto il
nazismo, che gli mise a disposizione centinaia di collaboratori,
ingegneri ed esperti per i progetti militari. Nessuno di questi, nella
base segreta di Peenemünde, aveva interesse a mettere in discussione
l’uomo che consentiva loro di essere lontani dalla guerra e dai
bombardamenti.
Ma i razzi per gli americani li avrà pur costruiti,
si obietterà. Agli occhi dei vincitori, von Braun era la testa dietro
lo sviluppo dei missili tedeschi. Per questo, ancorché nei primi
interrogatori si fosse dichiarato «un convinto nazista», lo vollero e
gli aprirono i loro laboratori. Ma c’è un dettaglio: von Braun impose
che con lui emigrassero verso gli Usa oltre 120 persone, il suo intero
staff. Gesto di umana solidarietà, oppure, suggerisce Lauer, forse egli
non era in grado da solo di spiegare il funzionamento delle V2,
tantomeno di costruirle senza la sua squadra, i suoi scienziati,
ingegneri e specialisti. Che da quel momento gli dovettero gratitudine
eterna, avendoli lui salvati dal carcere o da una vita senza qualità
nella Germania distrutta. Così anche in America continuò a operare la
struttura gerarchizzata di Peenemünde, divisa in dipartimenti guidati da
direttori che rispondevano soltanto a von Braun, prima nella US Army
poi nella stessa Nasa.
Lauer non trae conclusioni definitive. Ma
il mito del padre di tutti i missili non regge. E nel cinquantesimo
dello sbarco lunare, invita storici e curiosi a leggere e analizzare
criticamente la storia di Wernher von Braun. Dove «molte cose non
quadrano».