il manifesto 30.1.19
Brexit, May torna a Bruxelles con un pugno di mosche
Regno
unito. A Westminster è la giornata degli emendamenti. Bocciato il
rinvio dell’articolo 50. Ma sul nodo del confine con l’Irlanda l’Unione
europea non intende cedere
di Leonardo Clausi
LONDRA
È stata la giornata degli emendamenti ieri a Westminster: sette per la
precisione, scelti dallo speaker Bercow e volti a riformare in modi
diversi il piano con cui Theresa May voleva gestire la British Exit dopo
la catastrofica sconfitta parlamentare di quest’ultimo due settimane
fa.
SONO STATI VOTATI ieri in serata, dopo un dibattito fiume
molto acceso. Al momento di andare in stampa quello di Jeremy Corbyn,
volto a mantenere il Paese nell’Unione doganale, veniva sconfitto per
327 voti contro 296. Battuto anche quello della deputata laburista
filoeuropea e centrista Yvette Cooper, che puntava a posticipare la data
limite del 29 marzo almeno fino alla fine dell’anno, in modo da
escludere il paventato no deal che avrebbe ripercussioni ferali
sull’economia e forse sull’ordine pubblico del Paese. Passa invece
quello presentato da alcuni remainer conservatori e labour per escludere
categoricamente lo stesso no deal. In attesa del voto sull’emendamento
presentato dal presidente del 1922 Committee, l’organo conservatore che
organizza l’elezione dei leader Tory Graham Brady, per eliminare del
tutto il backstop e sostituirlo non si sa ancora con cosa, e al quale la
premier aveva annunciato il sostegno del governo. Nessuna traccia di
emendamenti riguardanti un secondo referendum per il quale non c’erano i
numeri.
Theresa May sta tuttora negoziando con se stessa, il suo
partito e il suo parlamento su come cambiare qualcosa che aveva già
concordato con la controparte europea e che due settimane le era valsa
la più umiliante sconfitta di un governo in carica dagli inizi del
Novecento. Ha cercato di comporre la lacerazione dei conservatori
aprendo ancora una volta agli euroscettici duri, di cui è ostaggio fin
dal suo primo giorno a Downing Street. Che l’emendamento Brady passi o
no, ora tornerà a Bruxelles, forse già questa settimana, chiedendo di
riaprire il tavolo su aspetti dell’accordo già ampiamente discussi
nell’arco di diciotto mesi, già sapendo che rischia di cavarne un pugno
di mosche: Juncker, con cui aveva parlato al telefono prima del voto,
glielo aveva ribadito.
L’acuminata spina nel fianco della premier
resta il fantomatico backstop, il dispositivo di sicurezza che, facendo
permanere a tempo indeterminato l’Irlanda del Nord all’interno del
regime commerciale europeo in modo da evitare un confine fisico (con la
potenziale riapertura delle ataviche ostilità terminate nel 1998) fra la
repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, aveva sollevato le ire dei
sovranisti euroscettici del suo partito e degli unionisti nordirlandesi
del Dup da cui dipende il suo governo di minoranza. Più che cambiarlo, i
Tory riottosi non lo vogliono proprio. Ed è vieppiù difficile
immaginare come Bruxelles – e soprattutto Dublino – possano transigere
su una clausola tanto cruciale quando non hanno fatto altro che ripetere
che dell’accordo non andava cambiata una virgola.
May resta dunque intrappolata nel suo peripatetico – e inconcludente – rimbalzare fra Londra e Bruxelles.
La
logica in stato di ebbrezza alla quale ci ha finora abituato questa
saga vuole che – per cavarsi fuori dal buco che si è alacremente scavata
– la premier dovesse convincere i propri deputati a sostenere gli
stessi emendamenti all’accordo che lei medesima non aveva accettato
prima, in modo da dimostrare che Westminster ha raggiunto una coesione
sufficiente da indurre l’Europa a cedere sul nodo del backstop.
Un’apoteosi del paradosso, dopo giorni passati a cincischiare su un
piano B inesistente, sperando che una delle controparti cedesse terreno
man mano che il lugubre spettro del no deal il prossimo 29 marzo, si
faceva più incombente. È questa la ragione per cui May non ha mai voluto
cedere sull’esclusione di un no deal: le serviva come spauracchio per
indurre Bruxelles ad allentare la stretta sul backstop.
E IL
LABOUR? Accantonata momentaneamente la linea delle elezioni anticipate
dopo la sconfitta della sua mozione di sfiducia nei confronti di May,
Jeremy Corbyn aveva spostato il peso del partito dietro all’emendamento
presentato da Cooper, in modo da evitare a tutti i costi una exit senza
accordo. Mentre Westminster dava ancora una volta prova di non essere in
grado di trovare un terreno comune, la folla divisa in fazioni pro e
contro Brexit sventolava bandiere e urlava slogan. La netta sensazione
percepita nel Paese è sempre più quella di un ridisporre affannoso delle
sdraio mentre il Titanic si inabissa.