il manifesto 27.1.19
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia.
Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni
neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo
ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della
dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella
Chi
pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di
Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni – Note I-V.
Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani,
pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il
filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le
restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo»,
nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si
conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di
Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in
particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla
fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la
questione dell’essere e della sua «storia».
er Heidegger l’essere
non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una
sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come
l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è
identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e
nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò
che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua»
storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la
storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già
la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un
ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità
trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il
Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger
chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed
«ente».
Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile
all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione,
aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la
realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a
favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano.
Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso
«presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per
cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua
riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il
destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione
fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei
quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso
impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di
«dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un
significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica
fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del
fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come
il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua
differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire
infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la
«desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo
sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger
colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle
poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il
volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica.
Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del
1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i
bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò
«l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione – aggiunge – non può
che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È
il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica,
della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che –
con una mossa inaspettata – Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una
radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica
ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte
alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo
dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento:
questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo».
Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico
proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la
barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima
indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva
aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi
dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento
esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della
metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto
solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di
autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero
che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se
negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla
possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a
quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta
precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora
chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo
inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e
dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna
concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi – in un veloce
passaggio del diario di qualche anno dopo – viene giudicato da Heidegger
«folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto
l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono
ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica
più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»:
«io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la
ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura»,
inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna
chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il
pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane:
come mai – dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a
ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto – Heidegger insiste, sebbene
tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di
«ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio
perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla
sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento.
Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul
terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta
avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per
lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che
conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio
di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione
sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto
rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al
punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.