domenica 27 gennaio 2019

Corriere La Lettura 27.1.19
L’eroe sfida il demone Non un classico: di più
Una monumentale edizione permette di apprezzare finalmente il Ramayana, poema che come Gilgamesh o il cclo omerico è un pilastro del narrare di ogni tempo
La trama (semplice, lineare) parla di tutti noi mortali in 24 mila strofe
di Emanuele Trevi


Ci sono i cosiddetti «classici», che sono opere capaci di durare nel tempo in virtù della loro bellezza o del loro interesse storico. E poi, a sorreggere l’edificio della memoria, ci sono libri che non sono solo classici. Nella storia umana svolgono la funzione di pilastri e di fonti inesauribili di energie spirituali. Esprimono al massimo grado di verità e di seduzione estetica ciò che è possibile pensare di noi e del nostro destino di mortali. Definirli «attuali» sarebbe un modo ingenuo di offendere e sminuire questi libri, che semmai sono perenni, tanto che si ha l’impressione di intravedere simultaneamente, nelle loro pagine, l’origine e la fine del mondo. I poemi omerici appartengono a questa categoria suprema, come le storie di Gilgamesh, e come il Ramayana, il grande poema epico indiano di cui possiamo finalmente festeggiare un’adeguata edizione italiana.
Fino a oggi, per avere un’idea più o meno fedele delle avventure di Rama e della sua sposa Sita, conveniva rivolgersi piuttosto a uno dei tanti riassunti d’autore del poema, come quello di Rasipuram Narayan, il grande scrittore indiano di lingua inglese, o quello composto a quattro mani da un eminente filosofo, Ananda K.Coomaraswamy, e da un’illuminata monaca buddhista, suor Nivedita. Ma tuffarsi nel mare del testo integrale, con le sue 24 mila strofe, è un’avventura della mente che segna una data indelebile nella vita di ogni lettore.
Chi recita e ascolta le avventure di Rama, ci viene detto in una delle prime strofe, «si libera da ogni pena, lui con i suoi figli e i figli dei suoi figli». La conoscenza di questo meraviglioso poema equivale a un bagno lustrale, a una seconda nascita: come se la storia dell’eroe fosse uno dei grandi fiumi sacri in cui si immergono i fedeli induisti.
Paradossalmente, all’immensità del Ramayana fa da contrappeso, quando ne sfrondiamo le digressioni, una trama relativamente semplice. Così come possiamo comprimere in poche righe la materia dell’Odissea, anche quella del Ramayana, ridotta all’osso, non richiede tante parole: è la storia di Rama, l’eroe perfetto, e della guerra che combatte contro Ravana, potentissimo demonio che gli ha rapito l’amatissima sposa, la splendida e irreprensibile Sita. Ma la vicenda avventurosa, con il suo fascino, non è che il riflesso di una dimensione trascendente. Ravana infatti, pur dotato di una sua regale nobiltà, è un’incarnazione assoluta del Male, una insopportabile malattia del Cosmo. Dov’è lui, «il sole non riscalda più; il vento, per la paura, non soffia più; il fuoco non brucia più», e anche l’Oceano inghirlandato delle sue altissime onde trema per la paura al solo vederlo.
Il fatto è che Ravana si ritiene invincibile perché ha ottenuto da Brahma, il padre di tutte le cose, una condizione che lo mette al sicuro: non potrà essere ucciso né da un dio né da un demone né da un’altra creatura dotata di poteri sovrannaturali. Nell’universo mentale dell’epica induista la parola data è un vincolo che non si può sciogliere, nemmeno un dio potente e benevolo come Brahma può ritirarla. Ma al momento di strappare a Brahma la sua promessa, il superbo Ravana non aveva menzionato gli uomini tra coloro che non avrebbero potuto ucciderlo. È da questa dimenticanza generata dalla superbia che gli dei muovono alla riscossa, chiedendo aiuto a Visnu «splendente di luce infinita», colui che «distrugge le angosce delle creature angosciate».
Sarà Visnu a prendere la natura umana suddividendosi in quattro prìncipi di stirpe reale: Rama e i suoi fratelli. Così che, al termine delle sue gesta e di una lunghissima vita (più di 10 mila anni!) Rama non morirà come un mortale ma verrà riassorbito nella sua natura divina, insomma tornerà a essere Visnu nel mondo degli dèi, dopo aver sconfitto Ravana, recuperato la sua sposa e governato il suo regno come un modello esemplare di giustizia e prosperità.
Si può facilmente intuire da questi rapidi e inadeguati accenni come il Ramayana, dal suo primo nucleo narrativo forse risalente al V secolo prima di Cristo fino alla sua forma definitiva, raggiunta quasi un millennio dopo, sia stato recitato, ascoltato, e infine letto come un testo sacro a tutti gli effetti, vale a dire come una storia che, sotto il sontuoso splendore della sua lingua e l’avvincente ricchezza delle sue avventure, non smette di raccontare la storia di una salvezza che riguarda tanto il singolo individuo quanto il Cosmo nella sua interezza, compresi gli dèi più potenti e venerati. Così come i sacrifici e le loro complesse e minuziose liturgie vediche garantiscono all’uomo una porta d’accesso ai mondi superiori, l’incarnazione di Visnu in Rama certifica il significato trascendente delle avventure epiche, con il loro alternarsi di vittorie e sconfitte, smarrimenti e decisioni propizie.
Non è un caso che il Ramayana si sia diffuso in Asia non solo attraverso le traduzioni in tutte le principali lingue nazionali, ma anche con il concorso delle arti figurative e drammaturgiche che hanno esaltato sia l’attraente varietà delle situazioni narrative del poema, sia i loro onnipresenti significati metafisici. Dai meravigliosi bassorilievi khmer di Angkor, in Cambogia, alle ingenue e coloratissime pitture popolari che adornano, lunghe centinaia di metri, innumerevoli luoghi di culto, passando per il teatro d’ombre indonesiano, le maschere, la decorazione di umili manufatti, l’amore di Rama e Sita ha pervaso di sé un’immensa, ramificata civiltà.
Si può dire che non esista mezzo di espressione umana che non si sia prestato a una nuova versione del grande poema, sempre preservando qualcosa della sua forza originaria. Tra il 1987 e il 1988, i 78 episodi dello sceneggiato diretto da Ramanand Sagar tenne incollati milioni di indiani agli schermi della tv, che molti, prima di ogni nuova puntata, decoravano di ghirlande di fiori e offerte votive, come fosse un nuovo tipo di tempio catodico. E non possiamo non ricordare che, nel millenario processo di diffusione del Ramayana, l’Italia occupa un posto tutt’altro che secondario. Si deve infatti al piemontese Gaspare Gorresio (1808-1891) una monumentale edizione critica del poema, accompagnata dalla prima traduzione in una lingua occidentale, pubblicata tra mille difficoltà, tipografiche ed economiche, tra il 1843 e il 1870 (il primo volume, che contiene anche una finissima introduzione, era dedicato a Carlo Alberto). Quando mancavano i soldi necessari all’impresa, provvedeva direttamente Cavour, che era poco o nulla interessato alla letteratura e in quegli anni, come si sa, aveva ben altre cose a cui pensare. Questa tappa sabauda e risorgimentale delle avventure di Rama e Sita meriterebbe di essere degnamente raccontata. Quel grande filologo ed erudito che era Gorresio riuscì a intuire, nel mare delle tradizioni manoscritte, quale fosse la versione del Ramayana più ricca e più bella, e questa nuova edizione italiana è ancora basata sulle sue ricerche.
A chi si imbarca nella lettura di quest’opera prodigiosa, servono qualche decina di pagine per entrare in confidenza con un mondo narrativo tanto distante nello spazio e nel tempo, e un paio di mesi per venirne a capo. Mi sento di assicurare che non proverà mai, strada facendo, noia o stanchezza, e ne ricaverà l’impressione indelebile di aver trovato un tesoro intatto e inesauribile.