sabato 26 gennaio 2019

il manifesto 26.1.19
Guaidó e Trump più isolati di Maduro: l’Osa si spacca
Venezuela. Sedici paesi americani su 35 non appoggiano il golpe. L’Organizzazione dice no anche alla richiesta di un «ambasciatore» dell’opposizione. Caracas ritira lo staff dagli Usa
di Claudia Fanti


Al momento, il presidente ad interim de facto Juan Guaidó, è, come lo definisce l’intellettuale cileno Manuel Cabieses, nient’altro che un «presidente fantoccio», un «governante senza governo» che non controlla nulla: né l’apparato amministrativo, né le forze armate, né i servizi pubblici. Praticamente un ologramma che vive appena del riconoscimento di Trump e dei governi a lui asserviti.
Ma anche i tanto sbandierati riconoscimenti internazionali fanno un po’ acqua, considerando che giovedì a Washington la mozione per riconoscerlo come presidente legittimo del Venezuela non è riuscita a ottenere la maggioranza tra i paesi membri dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa).
Nel corso di una movimentata sessione del Consiglio permanente dell’Osa, alla presenza del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, solo 16 dei 35 paesi che compongono l’organismo – Argentina, Bahamas, Canada, Brasile, Cile, Costa Rica, Ecuador, Colombia, Stati uniti, Honduras, Guatemala, Haití, Panamá, Paraguay, Perú e Repubblica Dominicana – hanno accettato di sottoscrivere una risoluzione di appoggio a Guaidó con la richiesta di elezioni anticipate. E così anche la nomina da parte del presidente usurpatore di un suo ambasciatore presso l’Osa, Gustavo Tarre, si è risolta in un nulla di fatto.
Intanto, a poche ore dalla scadenza dell’ultimatum di 72 ore dato da Maduro al personale diplomatico statunitense perché abbandoni il paese, il Dipartimento di Stato Usa ha ordinato per ragioni di sicurezza il ritiro dal Venezuela dei suoi funzionari «non essenziali». Il presidente bolivariano, dal canto suo, ha disposto la chiusura di tutte le sedi consolari del Venezuela negli Stati uniti, annunciando l’imminente ritorno del personale diplomatico a Caracas.
Maduro, tuttavia, ha scelto di non alzare i toni, dicendosi «pronto» al dialogo con l’opposizione – malgrado tutti i precedenti tentativi fatti fallire dalle destre – così come proposto in un comunicato congiunto delle cancellerie di Messico e Uruguay, due dei paesi latinoamericani che hanno fin da subito preso le distanze dall’autoproclamazione di Guaidó. Un invito, quello dei due governi, a «ridurre le tensioni» e a evitare una pericolosa «escalation di violenza» attraverso un «nuovo negoziato includente e credibile, nel pieno rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani».
E un appello al dialogo è stato lanciato anche dal segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, che ha messo in guardia dal rischio di «un conflitto disastroso per il popolo del Venezuela e della regione». Proprio all’Onu si era del resto rivolto il ministro degli Esteri venezuelano Jorge Arreaza, denunciando la «permanente ingerenza» degli Usa e dei paesi satelliti per provocare «un cambio di regime per vie non costituzionali», specialmente a partire dall’«infame» decreto con cui nel 2015 l’allora presidente Barack Obama dichiarava il Venezuela «una minaccia straordinaria alla sicurezza degli Stati uniti».
Contro l’operato del governo Usa si è schierato anche Bernie Sanders, secondo cui gli Stati uniti «dovrebbero appoggiare lo stato di diritto e l’autodeterminazione del popolo venezuelano», scrivendo una pagina nuova rispetto alla «lunga storia di interventi inappropriati in America latina».
E dal Brasile, il cui governo è totalmente in linea con l’amministrazione Trump, si è fatto sentire anche Lula: «Con che coraggio parla del Venezuela un governo che fa arrestare il suo maggiore avversario e vince le elezioni con una campagna di fake news su Whatsapp finanziata illegalmente dalle imprese?».