il manifesto 26.1.19
Brexit in un vicolo cieco, sale la tensione
Regno
unito. Con le aziende pronte a lasciare Londra e il nuovo voto del
parlamento che incombe May non trova la soluzione. Il piano B non c’è
di Leonardo Clausi
LONDRA
È il Labour di Corbyn a far registrare un’apertura, o meglio una
dis-chiusura della propria posizione sull’azzoppato deal di Theresa May
per il ritiro dall’Ue: i deputati laburisti con incarichi di governo
(non la fazione centrista di backbenchers) hanno presentato un
emendamento per dare al parlamento voce in capitolo qualora detto
accordo si apra finalmente alla permanenza nell’unione doganale, a una
maggiore vicinanza al mercato unico, come a una maggiore protezione,
post-Brexit, dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente. E include la
richiesta di poter votare su un possibile secondo referendum,
concessione al centrodestra del partito che del secondo referendum ha
fatto una leva anti-Corbyn.
Tutto questo mentre il primo ministro
(taoiseach) irlandese Leo Varadkar ipotizza l’uso dei soldati al confine
in caso di no-deal – in buona sostanza la reintroduzione del finora
unanimemente paventato confine fisico fra le due Irlande – che ha fatto
puntualmente imbestialire il Dup, mentre la solitamente assai felpata
monarca Elisabetta tornava, per la seconda volta dopo il discorso
natalizio alla nazione, a raccomandare l’importanza di un «terreno» e di
un «punto di vista comuni» pur senza citare Brexit direttamente.
LA
TEMPERATURA resta alle stelle, soprattutto dopo l’affondo del capoccia
di Airbus contro Brexit: Tom Enders ha minacciato di levare le tende dal
Paese, in cui costruisce le ali dei suoi velivoli, in caso di no-deal e
ha nuovamente stigmatizzato l’oscurità in cui le imprese sono costrette
a brancolare. Sony ha già annunciato il proprio sgombero per
installarsi in Olanda. Quasi in controcanto, rispondeva ieri loro il
cancelliere Hammond il quale, nella francescana cornice di Davos, ancora
una volta auspicava la disponibilità europea ad ammorbidire le proprie
posizioni pur di salvare May e il suo accordo ed evitare il temuto
no-deal.
Dal canto suo, la premier resta essenzialmente dov’era,
dopo essersi scrupolosamente murata in un vicolo cieco e gettata via la
cazzuola. Sì perché ora che si è assicurata, strappandolo all’ex
primatista David Cameron, il trono nell’anti-olimpo dei leader
britannici dalla Seconda guerra mondiale, lunedì scorso May non è stata
capace di far altro che riproporre per la seconda volta, salvo risibili e
ininfluenti modifiche, lo stesso accordo per l’uscita dall’Ue che il
Parlamento le aveva spietatamente calpestato, sconfiggendolo 230 volte,
la settimana precedente.
Il risultato è stato l’ottenimento del
matematico pugno di mosche: il backstop, la famigerata clausola di
sicurezza per evitare il confine fisico fra le due Irlande che le
retrocederebbe ai tempi bui della guerra civile, non piace né ai
remainers né ai leavers, un dispiacere ecumenico e bipartisan. E siccome
la premier non recede punto sulle richieste degli uni – via il
backstop, oppure pronti a un’uscita traumatica senza accordo (no deal) –
come degli altri – via (ugualmente) il backstop e permanenza
nell’unione doganale stile Norvegia, oppure secondo referendum – non le
resta che aspettare, sperando nel frattempo di poter radunare abbastanza
sostegno (cioè numeri) in aula dietro a una data idea/obiettivo con cui
recarsi di nuovo a Bruxelles non soltanto genuflessa come al solito, ma
con qualcosa di concreto da chiedere all’Ue, ottenerlo e resuscitare il
proprio accordo.
La premier è tenuta stretta in pugno dai
lunatici brexittieri euroscettici di Rees-Mogg e degli unionisti
democratici nordirlandesi del Dup, i quali sosterrebbero in aula il suo
finora fallimentare accordo solo qualora ne ritirasse definitivamente il
backstop, cosa che palesemente non è in grado di fare perché
Juncker/Barnier/Tusk non glielo potrebbero concedere nemmeno volendo. Da
qui il posticipo ulteriore del voto significativo sul suo improbabile
piano B, inizialmente fissato a martedì prossimo e ora ulteriormente
allontanato a una tuttora imprecisata data dei primi di febbraio.
Nel
frattempo alcuni membri dell’Ue si preparano a far fronte agli aspetti
logistici più urgenti degli scambi e del trasporto su ruota e su ali in
caso di mancato accordo e chiedono un atteggiamento più “generoso” da
parte dell’Unione con la Gran Bretagna in caso di no deal. Da parte loro
potrebbero venire incontro a May e fare dei cambiamenti sulla
dichiarazione politica (che si accompagna allo sciagurato accordo) sul
futuro assetto fra le controparti, ma accetterebbero solo un rapporto
del Regno Unito vicino all’Ue tipo quello che ha la Norvegia, o
addirittura la permanenza nell’unione doganale, una posizione cui il
Labour di Corbyn è favorevole: cosa che May ha però sempre escluso.