il manifesto 26.1.19
Ci sarà una Norimberga prima o poi
Salvini e i galoppini a 5 stelle: una sfida alla democrazia
Non siamo pesci. Si impone, oggi, una mobilitazione eccezionale, all’altezza della gravità dei tempi. L’appello «Non siamo pesci» affinché venga immediatamente istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi in mare è un primo passo importante
di Marco Revelli
Un ministro dell’interno che delinque è un oltraggio per il proprio Paese. Un segno di vergogna che ci accompagna ovunque andiamo. Un ministro dell’interno che oltre a delinquere irride la giustizia del proprio Paese, dichiara di infischiarsene dei giudici e promette di reiterare il reato, è qualcosa di peggio. È una sfida vivente alla nostra democrazia e alla Costituzione che la garantisce. Una sfida che deve essere accettata e vinta, pena la caduta irrimediabile in un limbo della civiltà senza uscita.
Forse Matteo Salvini fa il gradasso perché sa che la sua banda lo tutelerà in Parlamento, che con la complicità della sua maggioranza di governo si salverà dal giudizio del Tribunale dei ministri. Possibile. Anzi probabile. Ma sappia che prima o poi ci sarà una Norimberga. Che quei crimini contro l’umanità, consumati o minacciati, non resteranno ingiudicati e impuniti, quando l’umanità ritornerà in sé, e il consenso degli accecati non basterà più a far da scudo agli specialisti del disumano.
Non sono solo i 177 della Diciotti, sequestrati come fossero un carico di bestiame e segregati contro la loro volontà e contro ogni principio politico e morale; e nemmeno i 47 della Sea Watch messi a rischio della vita per un basso calcolo politico e elettorale. Nel conto ci sono anche i 100 ricacciati indietro dal «moderato» Conte, il devoto di padre Pio che ha fatto il miserabile miracolo di spedire nelle piccole Auschwitz libiche chi dichiarava di preferire morire che ritornare in quell’inferno, e che pure pretende di aver compiuto un atto di beneficenza.
Né possono chiamarsi fuori i galoppini 5 Stelle, quelli che gridavano «Onestà Onestà» e ora nicchiano e tacciono sull’immunità parlamentare per quello che ha stracciato il diritto positivo e quello naturale, violando Costituzione e convenzioni internazionali. Per tutto questo i colpevoli dovranno pagare il proprio prezzo alla giustizia, perché non c’è ragione politica o Ragion di Stato che tengano: l’argomento di chi sostiene che tutto ciò rientrava nel campo della discrezionalità di governo è ridicola, come se si vivesse ancora nell’epoca dell’assolutismo, quando il sovrano era legibus solutus e non si fosse ancora affermato lo Stato di diritto, dove un reato – tanto più se penalmente grave come il sequestro di persona o la messa a rischio della vita di decine di innocenti – resta un reato, anche se commesso dal titolare del potere.
Il cerchio perverso dell’abuso di potere va spezzato. Perché se l’ostentazione plateale della brutalità non viene sanzionata, diventa virale. Contagiosa come una febbre maligna. Quanto accadde all’origine del fascismo insegna. Se restasse impunita otterrebbe una legittimazione che apre al consenso.
Per questo si impone, oggi, una mobilitazione eccezionale, all’altezza della gravità dei tempi. L’appello «Non siamo pesci» affinché venga immediatamente istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi in mare è un primo passo importante. Un’occasione – un dovere – per tutti di schierarsi. E oltre l’appello la presa di parola, in ogni ambito della società si operi, dai media alle professioni, dall’università ai tribunali, dall’associazionismo alle realtà territoriali e di lavoro.
il manifesto 26.1.19
La richiesta di rinvio a giudizio di Salvini
La questione giudiziaria e quella morale
di Antonio Gibelli
La richiesta di rinvio a giudizio di Salvini da parte del Tribunale dei ministri ha puntualmente innescato, come per un riflesso condizionato, l’annosa diatriba sul tema «a chi giova» e quella parallela sui rapporti tra giustizia e politica. È una diatriba che registrò un’impennata nel 1994 (quando a pochi mesi dal suo insediamento il capo del governo Berlusconi ricevette il famoso avviso di garanzia), divenendo pressoché endemica per tutta l’epoca in cui il padrone della Fininvest è stato al centro della politica italiana, ma riproponendosi periodicamente anche dopo.
Niente di male che ci si domandi se e come una vicenda giudiziaria influisca sulla vita politica. Per fare un esempio, il quesito intorno agli effetti della vicenda di Tangentopoli sulla storia politica italiana è non solo legittimo ma del tutto pertinente. Il problema nasce quando si sottintende che le iniziative della magistratura siano in tali casi mosse precisamente dall’intenzione di esercitare in un senso o nell’altro questa influenza, cosa che può essere talvolta vera ma non lo è automaticamente. Ancora peggio quando se ne fa discendere il corollario (esplicito o implicito) che i magistrati farebbero bene ad astenersi dall’intraprendere azioni di questo tipo, e ciò allo scopo esattamente opposto di evitare questa influenza: un corollario aberrante, che dimentica l’obbligatorietà dell’azione penale vigente in Italia e che suggerisce al giudice di fare proprio quello che gli si rimprovera: ossia di muoversi in funzione non della legge ma delle dinamiche politiche.
Tutt’altra cosa – questa sì condivisibile – è la critica rivolta alle forze politiche che si affidino all’azione giudiziaria delegando ad essa il compito di metter fuori gioco i loro avversari: che è in effetti quantomeno un’ammissione di impotenza.
Resta invece legittimo discutere politicamente e moralmente sulla natura degli atti compiuti da uomini di governo anche nei termini della loro eventuale valenza criminale, pur rimettendosi su questo punto agli esiti dell’azione penale ma sempre ricordando – come da qualche tempo si sforza con sofferenza di far capire Massimo Cacciari – che esiste una legge umana universale al di sopra del diritto positivo.
Nel caso in questione, è drammatico che la decisione del tribunale sia destinata a potenziare il profilo di Salvini come uomo forte, a espandere il suo consenso e a giovargli nella contesa elettorale tra lui e il suo partner di governo. Ciò non impedisce di dire che il ministro stia commettendo un crimine contro l’umanità, nel senso sostanziale se non tecnico: come chiamare altrimenti il prolungamento delle sofferenze, anche solo dei disagi, di persone in fuga dalla povertà, dalle torture, dalle vessazioni di ogni tipo, già esposte al rischio della vita propria e dei propri figli anche piccoli, talvolta neonati e quindi più fragili, impedendo loro di raggiungere presto, subito, una meta sicura a portata di mano o (come i altri casi) lasciando aperta la possibilità che siano ricondotte là da dove sono fuggite per salvarsi? E cosa dire se questo prolungamento è fatto allo scopo di esercitare una pressione politica su altri stati europei? Non assomiglia tutto ciò a un sequestro di persona a scopo di ricatto?
È esattamente questo che è accaduto nel caso della Diciotti ed è questo che sta nuovamente accadendo sotto i nostri occhi. Chi conosce il mare sa cosa significa la classificazione di “forza 7” nella scala Beufort che va da 0 (mare calmo) a 12 (uragano). Chi consulta il meteo sa che in questi giorni il Mediterraneo e i mari italiani sono battuti da venti forti o fortissimi. La Sea Watch sta cercando un riparo, si avvicina alle coste sottovento per evitare il peggio, si dirige verso aree portuali nella speranza di approdare. Intimarle di dirigersi a Marsiglia mentre si trova nel mare di Sicilia orientale significa costringerla a un’operazione carica di incognite, di rischi e di ulteriori sofferenze e paure.
Sì, diciamo che Salvini sta commettendo un crimine, quali che siano le sue motivazioni: compresa quella di proteggere gli italiani da un’inesistente minaccia.
La Stampa 26.1.19
Nel giorno del giudizio pochi rischi per Matteo
di Marcello Sorgi
Il giorno del giudizio è fissato per mercoledì 30 gennaio, quando il Senato si riunirà per discutere e votare sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini, per il comportamento tenuto ad agosto 2018 verso i naufraghi della nave Diciotti. Ma nell’approssimarsi della scadenza, la baldanza iniziale del vicepremier e leader della Lega ha lasciato spazio a una maggiore prudenza. Salvini non punta più a farsi processare per far crescere anche a scopo propagandistico il caso che lo riguarda, esasperando la linea dura contro i migranti condivisa dai suoi elettori. Preferisce che i senatori dicano «no» al Tribunale dei ministri, concedendogli l’immunità e accettando implicitamente la sua posizione, che nega ai magistrati il diritto di censurare le scelte del governo.
Pur trattandosi di un voto segreto, come sempre sono tradizionalmente quelli che riguardano le persone, i rischi per il ministro dell’Interno sono molto limitati. Scontato, anzi blindato il «no» della Lega. Altrettanto, pur con qualche possibile defezione, quello del Movimento 5 stelle, che non vorrà certo compromettere la stabilità del governo o trovarsi sulla sponda pro-migranti, dopo che giovedì Di Maio era stato il primo a chiedere che la nave Sea Watch con il suo carico di 47 migranti di cui 13 minori (attualmente alla fonda a un miglio dal porto di Siracusa per le proibitive condizioni meteo) facesse rotta su Marsiglia. Sicuro il «soccorso azzurro» di Forza Italia, per solidarietà anti-magistrati. E così quello di Fratelli d’Italia, in trattativa per entrare al governo. Invece punto interrogativo sul Pd, al Senato a forte dominio renziano: votare «sì» in odio a Salvini, giocandosi il faticoso e tormentato approdo alle posizioni garantiste e schierandosi a favore dei migranti offrendo il fianco alla propaganda dei gialllo-verdi? E d’altra parte, come giustificare un eventuale ma improbabile «no»? Più probabile durezza nel dibattito a Palazzo Madama nei confronti del ministro, e poi salomonica uscita dall’aula. Ma appunto, a conti fatti, pur prevedendo un ragionevole numero di franchi tiratori anche per antipatie personali nei confronti di Salvini, il risultato finale è praticamente garantito.
La Stampa 26.1.19
Immigrazione, le toghe avvisano il governo
“L’Italia rischia di arretrare nei diritti umani”
Allarme anche per “la gravità e la frequenza degli episodi disciplinari che hanno coinvolto i magistrati”
di Edoardo Izzo
L’Italia rischia di regredire nell’applicazione dei diritti umani. A preoccuparsene, all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario, è il primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone. In presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e delle più alte cariche dello Stato, l’alto magistrato ha reso omaggio alla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo per la quale «tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti». A 70 anni da quell’impegno assunto dall’intera Comunità internazionale, dobbiamo, ha detto Mammone, «evitare ogni regressione». Questo, ha scandito, «è un compito che si è data la comunità internazionale che ha trovato esplicita formulazione nel recente G20 di Buenos Aires».
Mammone ha considerato dunque suo dovere richiamare «soggetti pubblici e privati» al rispetto di questi principi. «Con l’adesione ai trattati comunitari l’Italia - ha chiarito - è entrata a far parte di un ordinamento più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità anche in riferimento al potere legislativo». Ecco dunque riaffermata nella solenne cerimonia «l’intangibilità dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione». E tra questi il primo presidente della Cassazione ha inserito quello della «dignità» di ogni individuo, contenuto nella Costituzione come nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che nella Penisola è ugualmente vigente. «Principi alla cui osservanza - ha ribadito - lo Stato italiano è tenuto». Mammone ha denunciato anche la ricaduta negativa che la politica migratoria restrittiva ha sui tribunali, compreso il Palazzaccio che si è visto sommergere «in maniera inattesa dai ricorsi civili in Cassazione (+21,7%) sulle richieste d’asilo». Per il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, invece «suscita allarme la gravità e la frequenza degli episodi disciplinari che di recente hanno visto coinvolti diversi magistrati: l’aumento è del 22,2%». «Il numero totale delle notizie di interesse disciplinare pervenute nel 2018 è stato di 1.637, cifra che reca un significativo incremento rispetto a quelle pervenute nel 2017: pari a 1.340», ha spiegato il pg Fuzio. E ciò determina «un indebolimento della fiducia dei cittadini nell’indipendenza ed imparzialità della funzione giurisdizionale, ma il sistema disciplinare sa e deve essere severo, al pari di quello penale, perché deve tutelare direttamente un interesse essenziale per lo stato di diritto».
«Dal mio punto di vista, oggi ci troviamo ad inaugurare un anno giudiziario che deve necessariamente e improrogabilmente rappresentare una svolta per la Giustizia italiana, sia per quanto concerne alcuni interventi immediati e urgenti, sia per quanto attiene alla realizzazione delle fondamenta per un armonico piano di miglioramento strutturale di tutto il sistema-giustizia», ha dichiarato da parte sua il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede aggiungendo che è necessario «restituire centralità alle istanze e ai diritti dei cittadini, nei confronti dei quali la giustizia deve recuperare la sua credibilità». «La giustizia, finalmente, rappresenta una priorità di questo Paese: si consideri che il bilancio di previsione per il 2019 nell’area giustizia prevede un aumento rispetto all’anno precedente di oltre 324 milioni», ha rivendicato infine il guardasigilli.
il manifesto 26.1.19
Dagli all’ideologo
L'editoriale. Maurizio Landini e «la Repubblica»
di Rossana Rossanda
In questi giorni, la Repubblica, il giornale di Scalfari e di Mario Calabresi ha dato notizia che il nuovo segretario della più grande confederazione sindacale italiana, la Cgil, è diventato Maurizio Landini, già segretario della Federazione impiegati e operai metallurgici (Fiom) ma la Repubblica preferisce definirlo ideologo.
L’ideologia non è un’idea ma un complesso di idee, più o meno come una cultura o un’identità culturale, qualcosa di cui è bene diffidare.
Da qualche tempo la parola ha assunto una connotazione negativa, che in passato non aveva: si dice per significare idee false, diffuse, volgari.
La Repubblica ha dunque pensato bene di mettere in guardia dal loro segretario i cinque milioni di iscritti del più grande sindacato italiano, appena eletto; non so se sia il modo più corretto di dare una notizia.
Avrebbero trovato più affidabile l’altro sfidante, Vincenzo Colla.
Certo era quello che avrebbe preferito il dirigente della Fca, Marchionne, deceduto lo scorso anno, che con Landini non desiderava neppure discutere.
La Stampa 26.1.19
Landini schiera la Cgil: “Salvini e Di Maio non hanno mai lavorato”
Al primo discorso da segretario cita la Resistenza contro il fascismo e va a visitare il Cara di Bari: Lega e M5S ci stanno portando indietro
Maurizio Landini, neo segretario della Cgil, in visita al centro accoglienza per immigrati Cara di Bari Palese
di Fabio Martini
Roma E ora nelle piazze e nell’arena mediatica c’è un nuovo personaggio: il tribuno del popolo. Pronto a urlare più forte e a scavalcare i popolarissimi demagoghi del governo. Nel suo primo, sanguigno discorso da segretario generale della Cgil, Maurizio Landini ha arringato la platea dei delegati del congresso di Bari con parole d’ordine immaginifiche («siamo il sindacato di strada»), con battute semplici e taglienti contro il governo, come quando ha detto: «Il problema di questo Paese è avere due vice premier che non hanno mai lavorato: pensano di occuparsi di povertà e lavoro senza essere mai stati poveri e senza aver mai lavorato!».
In maglioncino rosso, parlando a braccio, Landini è stato sfottente e strafottente anche nell’attacco a Salvini: «Il ministro è stato eletto in Calabria, dove mi è capitato di visitare la baraccopoli di San Ferdinando. Lì ci sono condizioni inaccettabili, ma come si fa, quando uno vede queste cose, ad alzarsi la mattina, mettere la Nutella sulla fetta biscottata, poi dire due cavolate, fare un tweet e non porsi il problema che c’è un sistema economico e del lavoro fondato su forme di sfruttamento?». La platea dei delegati, abituati al lessico privo di pathos di Susanna Camusso, si sono alzati in piedi, in eloquenti standing ovation.
Nell’era delle fake news, supporta La Stampa e l’informazione di qualità
È la prima volta, da quando esiste l’esecutivo giallo-verde, che appare sulla scena pubblica una personalità che abbia la tempra per fare la voce più grossa di quella del governo, di impegnarsi a fare quel “più uno”, che rappresenta una collaudata tecnica politica e sindacale. Una tecnica non da tutti: da mesi Pd e Forza Italia ogni sera ai Tg fanno la voce grossa ma senza risultati a guardare le intenzioni di voto, mentre Maurizio Landini ritiene di aver il “fisico” per essere credibile e per essere creduto.
E lo ha dimostrato nel suo discorso di insediamento, giocando su quello slang imperfetto e popolaresco che di solito gli viene naturale. Ad un certo punto ha detto: «Il problema in... quel Paese qui non è solo cercare lavoro». Molti hanno pensato ad una gaffe casuale, ma pochi minuti dopo Landini ha ripetuto: «in quel Paese qui...». Ma stavolta si è fermato: «Era una scommessa con Ivana, l’ho ridetto...».
Non deve essere una cosa studiata, ma proprio come Di Maio, con i suoi congiuntivi sbagliati, ha consentito a tanti giovani di identificarsi con un trentenne che ce l’ha fatta, ora anche l’ex operaio Landini sembra non disdegnare lo stesso “transfert”, da suscitare in tutti quei giovani che però puntano a lavorare rivendicando la dignità dei diritti e delle regole contrattuali.
Pur essendo Landini un sindacalista che ha sempre vagheggiato il primato del sindacato sul partito, i suoi primi gesti pubblici sono stati politici. Ha annunciato al congresso di aver partecipato ad un’assemblea dell’Anpi per «dire che la Resistenza contro il fascismo non è finita e deve continuare» e che si sarebbe recato al Cara di Bari-Palese, per dire che «la politica di accoglienza del governo è sbagliata, Salvini e la Lega ci stanno portando indietro». E quell’idea di occupare anche uno spazio politico, Landini l’ha espressa in uno dei passaggi più applauditi: «Noi siamo il sindacato del cambiamento! Noi siamo quelli che vogliono cambiare il Paese».
Certo, sinora Landini ha sempre esercitato il proprio carisma nella raccogliere e canalizzare il dissenso, ora si troverà a governare un’organizzazione complessa come la Cgil. Da questo punto di vista la giornata finale del congresso di Bari ha dimostrato quanto difficile sia il distacco di Susanna Camusso.
Dopo 9 anni di guida, la segretaria uscente aveva fatto organizzare una coreografia ad hoc per il suo commiato: due personaggi dello spettacolo a duettare con lei - Dario Vergassola e Neri Marcorè - una grande scritta stampata sul fondo azzurro «grazie Susanna» e ad un certo punto sono spuntati anche quattro signore con un pacchettino col fiocco rosso. Il nuovo leader ha chiesto a Camusso di restare in Cgil assumendo due deleghe, quella internazionale e quella di genere. Anche se ora i compagni più vicini a Landini sperano che il nuovo segretario possa esercitare pienamente il ruolo che ha ottenuto con una percentuale bulgara, quasi il 93% di consensi.
il manifesto 26.1.19
Landini debutta: «Il vero cambiamento siamo noi»
Il congresso. Il saluto a Susanna Camusso: «Ti propongo come ambasciatrice del sindacato»
di Massimo Franchi
Bari «Noi siamo il vero cambiamento, non il governo del finto cambiamento». Nel suo primo giorno da segretario generale Cgil Maurizio Landini, maglione rosso, arringa nuovamente la platea dei delegati. «E’ la nostra carta dei Diritti, la piattaforma con Cgil, Cisl e Uil che cambierebbe il paese rimettendo al centro il lavoro, non la manovra recessiva».
NELLA QUARTA E ULTIMA giornata del congresso di Bari dedicata all’addio a Susanna Camusso, chi ne ha preso il testimone spiega le sue prime iniziative assai simboliche. «Appena eletto sono andato a un’assemblea dell’Anpi di Bari per dire che la resistenza contro il fascismo non è finita e dobbiamo continuare perché è un valore fondamentale al quale non possiamo rinunciare, poi ho raccolto l’indicazione di Serena Sorrentino (segretaria dei lavoratori pubblici della Fp) e insieme andiamo al Cara di Bari (visita fatta nel pomeriggio sotto una pioggia battente, ndr), quelli che il governo vorrebbe chiudere, perché sia chiaro che questa Cgil ha nel suo insieme un’altra idea di società».
L’ATTACCO POLITICO ha un destinatario preciso: «Visto che Salvini è stato eletto in Calabria, a me è capitato di visitare la baraccopoli di San Ferdinando. Vivono in condizioni disumane, a livello dello schiavismo. Come si fa ad alzarsi la mattina e mettere la nutella sulle fette biscottate, dire due cavolate, fare un tweet e non porsi il problema che c’è un sistema fondato sullo sfruttamento?» Ma anche Di Maio non viene risparmiato: «Abbiamo due vicepremier che parlano di lavoro senza aver mai lavorato o essere stati poveri», dice rispondendo a una domanda di Dario Vergassola, venuto con Neri Marcorè alla Fiera del levante.
Nel suo discorso Landini lancia due nuove idee per la Cgil. La prima è «il sindacato di strada: andare tra i lavoratori nei cantieri, nelle campagne, come rinnovata pratica sindacale per tutta la Cgil». La seconda è ripartire da «proletari di tutto il mondo, unitevi»: lo slogan del manifesto di Marx «è più attuale che mai»: «non è del secolo scorso ma deve essere la bussola per il sindacato di oggi».
LA GIORNATA COMINCIA con la grande festa per Susanna Camusso. Dopo le tensioni per la possibilità che la segretaria uscente rimanesse nella nuova segreteria, da Landini arriva una doppia delega: «Ti chiedo, ti propongo, due deleghe molto precise: continuare la battaglia che a nome della Cgil hai fatto e che ti ha portato vicina al sindacato mondiale, dobbiamo continuare per vincerla. Susanna, ti chiediamo di andare a rappresentare la Cgil: un’ambasciatrice sindacale che gira per il mondo. Lanciamo l’expo internazionale del lavoro in modo che il mondo guardi lo stato in cui versa il lavoro», propone Landini. La seconda delega è quella legata «al genere e alla cultura del genere».
CAMUSSO PRIMA aveva salutato sulle note di «Bella ciao»: «Vi voglio bene davvero, al lavoro e alla lotta. La nostra organizzazione può essere un sogno di appartenenza, la Carta dei diritti universali ha dato passione ai lavoratori. Caro Maurizio, abbiamo ricostruito un senso comune. Siamo parte di una straordinaria comunità, la Cgil», ha concluso fra applausi e qualche lacrima.
L’elezione di Landini provoca reazioni inaspettate nei 5S. Il governo non era a Bari ma il sottosegretario al Lavoro Claudio Cominardi augura «buon lavoro al nuovo segretario Cgil nella speranza che riesca a far tornare il sindacato alla sua missione originaria, quella della difesa dei lavoratori. Da parte nostra, massima disponibilità a un confronto, purché intellettualmente onesto».
Corriere 26.1.19
Landini: saremo sindacato di strada
Lavoro, vogliamo cambiare il Paese
Il nuovo leader della Cgil: Di Maio e Salvini? Parlano di povertà ma non sanno cos’è
di Enrico Marro
BARI «Al lavoro e alla lotta». Maurizio Landini conclude il XVIII congresso della Cgil, che a Bari lo ha incoronato segretario generale, con le stesse parole con le quali Susanna Camusso ha salutato i delegati da ex segretaria. Un incitamento accolto da un’ovazione. Altre ce ne sono state tutte le volte che Landini ha attaccato il governo e soprattutto il vicepremier Matteo Salvini, sollecitando la base a riempire piazza del Popolo per la manifestazione del 9 febbraio indetta con Cisl e Uil contro la manovra.
«Salvini e Di Maio parlano di povertà e lavoro ma non sono stati mai né poveri né hanno lavorato». Il nuovo leader della Cgil fa già intravedere una Cgil più combattiva, soprattutto sul terreno politico. E, a giudicare dall’entusiasmo dei delegati, è ciò che vuole la base. Landini è stato chiaro: «Chi oggi non è d’accordo con questo governo rischia di non avere dove esprimere queste posizioni».
Da ora questo posto c’è ed è la Cgil, spiega. Ecco perché le prime due cose che il successore di Camusso ha deciso di fare sono: partecipare a un dibattito all’ Anpi, «per dire che la lotta al fascismo non è finita», e la visita al Cara di Bari, il centro di accoglienza per i richiedenti asilo, dove ci sono circa 500 immigrati, per affermare che la Cgil ha un’idea opposta di società rispetto al ministro degli Interni e capo della Lega, ci spiega mentre facciamo con lui il viaggio in macchina dalla fiera del Levante, teatro del congresso, al campo militare che ospita il Cara, nei pressi dell’aeroporto. «Chiudere questi centri è sbagliato, prima vengono le persone».
Landini è consapevole che circa un terzo degli iscritti alla Cgil ha votato per i 5 Stelle e un altro 10% per la Lega, ma il fatto che restino nel sindacato «rosso» significa che «dobbiamo continuare a rappresentare le persone nel merito dei problemi».
Di qui l’incitamento rivolto al congresso della Confederazione, anche questo accolto da un’ovazione, a dare più spazio e più potere ai delegati, ai giovani e alle donne della Cgil. In questo senso Landini promette di «cambiare la Cgil» e indica subito una direzione di marcia: «Il sindacato di strada», sul modello praticato dalla Flai per rappresentare i lavoratori sfruttati nei campi. Insomma un modello di proselitismo che vada a cercare i lavoratori da rappresentare lì dove è più difficile raggiungerli, senza continuare a campare di rendita sulla base degli iscritti storici (i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato del privato e del pubblico) e dei pensionati.
L’ex leader della Fiom sa di aver creato molte aspettative, nella sua Cgil e nella sinistra sociale e politica che in questa fase sembra priva di una bussola, quella che per lui è chiara: «Dobbiamo cambiare la società e riaffermare i diritti delle persone, perché c’è ancora chi sfrutta e chi è sfruttato». Come i migranti che incontra al Cara, come quelli che ha incontrato di recente nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria, Regione dove si è fatto eleggere Salvini: «Ci torni il ministro degli Interni, perché lì c’è lo schiavismo, invece di perdere tempo a farci vedere che gli piace pane e Nutella». Eccolo Landini l’anti-Salvini.
Il Fatto 26.9.18
Calenda e orticelli (e la sinistra sparirà)
di Pietro Grasso
Il pregio del Manifesto di Calenda è aver aperto un dibattito; il difetto averlo impostato su presupposti confusi e discutibili. Un fronte indistinto – che lui definisce liberal-democratico – in una competizione proporzionale sarà facile bersaglio della propaganda gialloverde, facendo loro il regalo di trasformare le elezioni europee in un referendum sull’Europa.
Da giorni ripete “no a quelli LeU”, eppure tra i promotori c’è Enrico Rossi, fondatore di Mdp, che con altri ha dato vita a LeU. Sostiene poi che debba essere escluso chi cerca alleanze nazionali con Lega o M5S. LeU non ha questa intenzione, ma ritengo sia stato un errore politico grave non avviare dopo le elezioni un dialogo col M5S: per vedere le carte di un possibile bluff e per non consegnare larga parte di elettorato grillino alla Lega, come è avvenuto (stessa posizione di Martina, altro entusiasta firmatario). Vista la stima che nutro per Calenda voglio rassicurarlo: non aderirò al suo manifesto.
Nella carta dei valori di Liberi e Uguali c’è un concetto a me caro: cambiare il mondo, non aggiustarlo. È indubbio che il centrosinistra, in Italia come in Europa, abbia adottato ricette neoliberiste: in una spirale perversa la politica è stata sopraffatta dall’economia e questa, a sua volta, dalla finanza. Il risultato ci mostra cittadini indifesi di fronte alla ricchezza e al potere di pochi. Calenda denuncia le diseguaglianze e invoca nuove politiche per la crescita e lo sviluppo, ma avendo avuto ruoli importanti negli anni, dal sostegno all’agenda Monti ai successivi incarichi, l’autocritica non basta ad assegnare patenti di novità, eventualmente di trasformismo. Bastano gli esempi dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, l’acquiescenza ai diktat tecnocratici sull’austerità e il Jobs Act. Puntare poi, come si afferma nel manifesto, sugli Stati Uniti d’Europa significa puntare su un’Europa degli Stati nazionali.
La mia critica all’attuale assetto dell’eurozona parte da qui, da qui l’impegno per una radicale trasformazione dell’Unione, a partire dal modello intergovernativo e dalla revisione dei Trattati. Il primo obiettivo è un welfare comunitario: abbiamo la stessa moneta, regole e istituzioni comuni, dovremmo quindi prenderci cura insieme di chi rimane indietro, per affrontare le diseguaglianze ma soprattutto per redistribuire una ricchezza che tutti concorrono a produrre e di cui pochi godono. Occorre mettere in discussione anche l’assetto attuale delle famiglie europee, essere lievito in ciascuna di esse e coltivare l’ambizione di costruire un’unica sinistra, in Italia e in Europa.
Tra le sinistre c’è chi, da anni, si è uniformato alle ricette liberiste e alle politiche economiche di destra, e chi è rimasto legato alla sola testimonianza, con un impegno encomiabile sul piano personale ma non efficace su quello collettivo.
Come noto, nonostante il deludente risultato, continuo a credere che LeU debba trasformarsi in partito: una forza, indipendentemente dal nome, che abbia consapevolezza della complessità dei problemi e dirigenti non compromessi col passato. È fondamentale organizzare esperienze politiche e civili che mettono al centro della loro azione libertà e uguaglianza, ma tutto si ferma per tentazioni dirigistiche, personalismi, e tatticismi. Si diceva “ognuno guarda il proprio orticello”: ora molti si affannano a curare solo la piantina sul proprio balcone. Penso onestamente che la “nuova forza rosso verde” (il cui ideologo ha già firmato con Calenda) sia velleitaria; non di meno dubito che la sinistra possa risorgere grazie a un nuovo cartello elettorale affidato alla visibilità di singoli individui. Non c’è alcun progetto di lungo respiro, nessuna prospettiva che vada oltre le urne.
Nessuno dei dirigenti attuali, me compreso, è all’altezza di questo compito: non servono i più giovani di una vecchia generazione ma – indipendentemente dall’età – una nuova classe dirigente. Servono parole d’ordine chiare sulle quali fondare non solo un partito ma una comunità e la prospettiva di un Paese migliore per cui battersi: istruzione gratuita fino alla laurea; patrimoniale sui grandi redditi; riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; investimenti pubblici per creare lavoro e trasformare in senso sostenibile il nostro modello economico; difesa dei diritti; salvare le persone: non accettare la politica degli accordi coi torturatori libici, garantire accoglienza e integrazione in Europa.
Non vedo altro orizzonte possibile: con meno di questo la sinistra nel nostro Paese è destinata a scomparire, avendo lavorato alacremente alla propria estinzione.
* Senatore di LeU ed ex presidente del Senato
di Pietro Grasso*
Il Fatto 26.1.19
Papa e migranti, l’incontro segreto di Salvini in Vaticano
In privato - Pranzo dal cardinale Becciu con Giorgetti: con la Cei non parla, ma con la Santa Sede sì. Anche grazie al ministro Fontana
di Carlo Tecce
Dal Vangelo secondo Matteo: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Attorno a un tavolo imbandito per il pranzo, un pasto essenziale e però sufficiente a reggere una delicata conversazione, in Vaticano c’erano il cardinale Angelo Becciu, il ministro Matteo Salvini, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Il porporato sardo di Pattada, tra i più influenti in Curia, ha accolto il vicepremier dei porti chiusi una decina di giorni fa, dopo le tensioni del governo con le istituzioni europee e con la Chiesa per l’attracco vietato ai migranti a bordo delle navi delle Ong. Un incontro al solito riservato – il ministro dell’Interno fa sapere che tace sul tema – che avvicina due mondi all’apparenza inconciliabili.
Salvini ha ignorato con arroganza le suppliche dei vescovi italiani per i 49 salvati dalle Ong (poi in parte affidati ai valdesi), non l’appello – senza riferimenti espliciti all’Italia, ma all’intera comunità europea – di papa Francesco pronunciato all’Angelus dell’Epifania.
Il metodo Salvini – soprattutto le accuse ai paesi europei indifferenti e agli scafisti disumani – riscuote consenso tra laici e clero, tra parrocchie e sacerdoti. Il fenomeno leghista non va sottovaluto, ripetono i consiglieri di Francesco, anche quelli che disprezzano il vicepremier.
Il Carroccio ha sempre curato con discrezione un canale di comunicazione diretto con il Vaticano, mentre il dialogo con la Conferenza episcopale italiana è inesistente. Per ovvie ragioni di opportunità politica e chissà di fede, Salvini non s’è permesso mai di trascurare il pensiero di Jorge Mario Bergoglio e col supporto diplomatico di Lorenzo Fontana, il conservatore ministro per la Famiglia, ha contatti frequenti in Curia. Con la Chiesa che spinge per il ritorno dei cattolici in politica, che si organizza attraverso le iniziative del cardinale Gualtiero Bassetti, il presidente dei vescovi, ai leghisti conviene mediare in privato pur preservando il grugno in pubblico.
Il pranzo ha un significato profondo anche per le dinamiche curiali. Becciu ha ricevuto la porpora da Francesco in maggio e in giugno ha lasciato l’incarico di sostituto agli Affari generali in Segreteria di Stato, era cioè fra i principali interlocutori di Palazzo Chigi, dopo sette anni di servizio cominciati con Joseph Ratzinger e Tarcisio Bertone.
Adesso prefetto della Congregazione per le cause dei santi, Becciu è sempre considerato un referente privilegiato dal governo italiano. Il raccordo col Vaticano spetta al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, al terzo commensale Giorgetti. Il venezuelano Edgar Peña Parra, successore di Becciu, è digiuno di politica italiana, proviene da un triennio di nunziatura in Mozambico. Francesco ha cambiato più poltrone in Curia, ma l’inesperienza può generare soltanto confusione.
Becciu interviene spesso sugli argomenti di attualità, l’ultima volta, per esempio, ha rimproverato il governo per la gestione dell’arresto di Cesare Battisti: “In Italia abbiamo una cultura giuridica di primo grado, non possiamo risvegliare nella gente certi istinti forcaioli. Chi sbaglia merita la condanna, la deve espiare, ma come persona merita rispetto”. Quasi due anni fa, Becciu ha pianificato e ospitato nel suo appartamento il colloquio tra papa Francesco e l’allora premier Gentiloni per “approvare” la linea di Marco Minniti sui migranti, il primo a smorzare le partenze dei barconi dall’Africa, a stringere accordi con le tribù, a creare un codice di condotta per le Ong.
Con accenti più ruvidi e col contestato decreto Sicurezza, Salvini ha proseguito sul tracciato dell’ex ministro di centrosinistra. E Becciu sta ancora lì a ridurre la distanze tra le due sponde del Tevere, a mettere insieme il “Gesù era un profugo” di Francesco e “la pacchia è finita” di Salvini. Qui si entra nel settore miracoli: “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”. L’ha detto Matteo. L’evangelista.
il manifesto 26.1.19
Cucchi, «i depistaggi continuano ancora»
Giustizia. Il comandante della caserma Appia: «Alla Cecchignola una seconda riunione al vertice dell’Arma». L'avvocato Fabio Anselmo: «Stanno emergendo fatti inquietanti e gravi che si stanno verificando al di fuori di questo processo. Possiamo anche voltarci dall’altra parte ma è inaccettabile in uno Stato di diritto»
di Eleonora Martini
Il tentativo di insabbiamento della verità e di depistaggio delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi – riuscito per molti anni – emerge ogni volta più nitido, man mano che avanza l’inchiesta integrativa al processo bis aperta dal pm Giovanni Musarò e che cresce il relativo faldone con prove e testimonianze portate davanti alla I Corte d’Assise di Roma. Tentativi mai interrotti, che continuano a tutt’oggi, come è emerso durante l’udienza di ieri e in particolare come confermato dal capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, che conduce le indagini su questo secondo filone di indagine.
«STEFANO CUCCHI NON VOLEVA stare nelle celle di sicurezza perché aveva paura di essere picchiato di nuovo», avrebbe ammesso il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, in una delle intercettazioni della polizia riferite da Silipo. Colombo Labriola è lo stesso che in altre telefonate ascoltate dagli inquirenti commentava con l’appuntato Gianluca Colicchio l’iscrizione sul registro degli indagati appena ricevuta, e ricostruiva il destino dei falsi verbali prodotti. A conferma del fatto che molti, all’interno della catena di comando dell’Arma, sapessero del pestaggio subito dal giovane geometra romano – arrestato per droga il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto protetto dell’ospedale Pertini – e si mossero per mettere tutto a tacere.
E ieri in aula a riferire di un’altra riunione al vertice tra carabinieri dedicata alla vicenda è stato il maggiore Emilio Bucceri, a quel tempo comandante della stazione Appia dove Stefano venne condotto per il fotosegnalamento e dove venne picchiato, secondo la testimonianza di Francesco Tedesco, uno dei cinque militari imputati nel processo bis. Bucceri non era in servizio quella sera, sostituito dal suo vice, il maresciallo Roberto Mandolini, altro imputato; nel suo caso con l’accusa di falso e calunnia.
NON SOLO DUNQUE la riunione del 30 ottobre, a ridosso della morte di Cucchi, che si tenne nel comando provinciale di Roma, in Piazza San Lorenzo in Lucina, ma anche un’altra, che si svolse alla Cecchignola il 12 novembre 2009. Anche quest’ultima, come la prima, convocata dall’allora comandante provinciale dell’Arma, il generale Vittorio Tomasone, preoccupato questa volta di quanto stava emergendo sui media in merito al caso dell’allora presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, vittima di un’estorsione da parte di quattro carabinieri che sono stati condannati nel novembre scorso.
«L’unica riunione alla quale ho partecipato fu un briefing indetto dall’allora comandante provinciale in una nostra caserma alla Cecchignola – ha riferito Bucceri – C’erano il comandante provinciale e, scendendo la scala gerarchica, i comandanti di gruppo, quelli di compagnia e quelli delle stazioni. Da poco c’era stato anche l’accadimento Marrazzo, dove erano coinvolti dei carabinieri per una vicenda estorsiva e fu fatto riferimento dal generale Tomasone a questi due fatti e alla gestione del personale».
«STATE ATTENTI AL PERSONALE», disse in quell’occasione Tomasone, secondo quanto riportato dal maggiore. Il pm chiede come mai i vertici dell’Arma concedessero tanta attenzione ai casi Marrazzo e Cucchi. «C’era stata risonanza mediatica, per questo erano interessati», risponde Bucceri. Il comandante della stazione Appia ricorda anche le parole con le quali il suo vice Mandolini tentò di addossare alla Polizia penitenziaria la responsabilità del pestaggio: «Mi disse “glielo l’abbiamo consegnato che era sano…Ci vogliono tirare dentro”».
Ieri avrebbe dovuto testimoniare anche il prof. Carlo Masciocchi che ha firmato la perizia con la quale è stata appurata la frattura «recente» della vertebra L3 sul corpo di Cucchi. Frattura che era stata invece negata e perfino «nascosta», secondo la famiglia di Stefano, nelle precedenti perizie medico legali. Masciocchi non ha potuto essere presente e la sua deposizione è stata rinviata. Ma Ilaria Cucchi e il suo avvocato Fabio Anselmo hanno ricordato anche ieri che i tentativi di «insabbiamento continuano, su tutti i fronti».
«Stanno emergendo fatti inquietanti e gravi che si stanno verificando al di fuori di questo processo. Testimoni che vengono avvicinati, depistaggi che si stanno protraendo nel tempo e continuano mentre è in corso questo procedimento». «Possiamo anche voltarci dall’altra parte – conclude Anselmo – ma esprimo tutto il mio rammarico rispetto alla reiterazione di questi episodi in queste forme illecite e inaccettabili in uno Stato di diritto».
Repubblica 26.1.19
Roberto Fico
"Al Sisi mi ha mentito il Cairo copre gli apparati che hanno ucciso Regeni"
La fiaccolata di Amnesty International per i tre anni dalla scomparsa di Giulio
Intervista di Carlo Bonini
l nostro ambasciatore è al Cairo con obiettivi molto chiari: se non si raggiungono bisogna trarne le conseguenze Ricordo a Salvini che con i magistrati egiziani è stallo. E che quando Giulio morì lui ebbe parole molto dure Il caso Regeni esca dal dibattito politico.
È una questione di Stato e io da Stato vado avanti fino alla fine
FIUMICELLO Sul divano di un albergo che guarda la provinciale verso Gorizia il presidente della Camera, Roberto Fico, aspetta una serata per lui più importante di altre. La notte delle fiaccole e della verità per Giulio, accanto a Paola e Claudio Regeni. Pesa le parole perché non cerca mediazioni. Né con il Regime del Cairo: «Al Sisi mi ha mentito». Né con il più ingombrante degli alleati di maggioranza di governo, Matteo Salvini: «Dovrebbe ricordare quello che disse quando il cadavere di Giulio venne ritrovato e sapere che non è più tempo di ipocrisie giudiziarie».
Presidente, tre anni dal 25 gennaio 2016 e ancora nessuna luce in fondo al tunnel. E ora?
«E ora vanno dette alcune cose. La prima: siamo in un assoluto stallo giudiziario. La procura del Cairo non ha dato corso ad alcun atto che preluda anche solo all’avvio di un processo ai responsabili del sequestro, tortura e omicidio di Giulio. Questo la dice lunga su ciò che Al Sisi intende fare. Secondo: sappiamo che i cinque innocenti ammazzati al Cairo nella primavera del 2016 non avevano alcuna responsabilità nel sequestro e nella morte di Giulio. Che sono stati sacrificati per farcelo credere.
Terzo: sappiamo che le responsabilità della morte di Giulio risiedono all’interno degli apparati di quel Paese».
Saperlo dove porta?
«Quello che ho appena detto, lo dissi ad Al Sisi esattamente come lo sto dicendo a voi nel settembre dello scorso anno, guardandolo negli occhi. Lo ricordo ancora: mi aspettava in una grande sala, assiso su una poltrona poggiata su un piedistallo, sotto un grande lampadario. Rimanemmo a parlare per trenta, quaranta minuti. Mi ascoltava, dando la sensazione che la morte di Giulio fosse anche per lui una spina nel fianco. Provò a interrompermi soltanto una volta cercando di introdurre nella vicenda Regeni il tema della stabilizzazione della Libia e dei flussi migratori. Lo fermai e gli dissi che fin quando la questione di Giulio non si fosse risolta non c’era altro argomento che aveva senso discutere. Mi congedò con una promessa. Testualmente: "Rimuoverò ogni ostacolo", mi disse. Bene. Era il settembre 2018.
Siamo al gennaio 2019. Non è accaduto nulla. Quindi quelle di Al Sisi sono state parole false. Non avevo altra scelta, da presidente della Camera, che sospendere immediatamente le relazioni diplomatiche del ramo del Parlamento che presiedo, e con il pieno accordo di tutti capigruppo, con l’Egitto».
Pensa davvero che basti a spaventare il Regime e a convincere al Sisi a mantenere la promessa di verità?
«Sono successe altre tre cose importanti da quella decisione. Il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha convocato l’ambasciatore egiziano in Italia con un atto che, nei protocolli della diplomazia, ha un solo significato: la riapertura di una crisi. È successo anche che il vicepremier e ministro per lo Sviluppo economico, Luigi di Maio, abbia preso pubblicamente posizione dicendo che vengono prima i diritti e poi gli interessi economici, cosa che considero molto importante. Ed è successo anche che il Parlamento europeo abbia approvato una risoluzione che sollecita l’Egitto non solo a impegnarsi per la verità ma a offrire garanzie che tutelino i consulenti legali della famiglia Regeni e del loro avvocato, Alessandra Ballerini, al Cairo.
Un’ultima cosa: ho scritto ai presidenti di tutti i Parlamenti dell’Unione per sollecitarli a uno sforzo comune perché Giulio Regeni non era soltanto un cittadino italiano ma era un cittadino europeo, un ricercatore dell’università di Cambridge.
Insomma, abbiamo riportato Regeni nell’agenda politica nazionale e interazionale. E ora dobbiamo soltanto insistere».
Parlando quale lingua? La sua? Quella di Moavero? O quella di Matteo Salvini che in queste ore ha detto: «Abbiamo chiesto giustizia per Giulio. La prossima volta mi candiderò a presidente dell’Egitto. Non mi sento preso in giro dal Cairo, conto sul buon lavoro dei magistrati italiani ed egiziani e sono fiducioso». Insomma, è lei che dà la linea o Salvini?
«Voglio provare a rispondere a Salvini in modo costruttivo. E ricordargli, tanto per cominciare, che le due magistrature sono in stallo, come sostiene la stessa Procura di Roma, e che la cooperazione non c’è più. E dunque che non c’è proprio nulla di cui fidarsi. Vorrei ricordargli che dopo tre anni, non solo non c’è più fiducia nelle parole dell’Egitto ma non ci può essere. Quanto alla battuta sulla candidatura alla presidenza dell’Egitto, dico solo che seguendo questo filo paradossale di ragionamento non si potrebbero aprire questioni diplomatiche con nessun Paese. E comunque quando Giulio morì mi pare di ricordare che Salvini ebbe parole molto dure e forti. Spero che a quelle parole pronunciate prima di essere al Governo seguano ora coerentemente fatti forti e importanti».
A proposito di fatti, è ipotizzabile che il nostro ambasciatore al Cairo venga nuovamente richiamato a Roma per consultazioni?
«Ritirare l’ambasciatore è una decisione di competenza del ministro degli Esteri, non mia. Osservo solo che l’ambasciatore Gianpaolo Cantini è tornato al Cairo con una lettera di intenti molto chiara e circostanziata, dunque se gli obiettivi indicati in quella lettera non dovessero essere raggiungibili, è evidente che bisognerebbe trarne le conseguenze.
Insomma, lo dico da terza carica dello Stato quale umilmente mi sento: Regeni è una questione che non può avere etichette, divisioni. È una questione che deve vederci viaggiare tutti uniti. Non appartiene a un partito, a una sensibilità, ma allo Stato italiano».
Ma la sensibilità dello Stato italiano, oggi, è rappresentata dall’agenda di Salvini che ha in cima il blocco dei flussi dei migranti? Da questo punto di vista l’Egitto è stata ed è la più efficiente "sentinella" del Mediterraneo. Per non parlare del ruolo di Al Sisi nella transizione libica e il suo ascendente su Haftar, non a caso entrambi protagonisti della conferenza di Palermo con il premier Giuseppe Conte.
«Non bisogna avere gli occhi foderati di prosciutto. L’Egitto è importante per la stabilizzazione della Libia e sulle questione migratorie. Dunque sulla carta è un interlocutore. Ma non può essere un attore credibile e autorevole se non si chiude la ferita di Giulio. L’ho detto recentemente incontrando i nostri imprenditori al Cairo: "Può succedere a voi quello che è successo a Giulio". L’Egitto non è un paese sicuro, non è un paese dove vengono rispettati i diritti umani. Quindi, capisco la cooperazione economica, ma non c’è un euro che valga di più di un diritto».
Sicuro che su questo siate tutti d’accordo nella maggioranza?
«So che molti lo sono. Dopodichè la questione Regeni deve uscire dal dibattito politico. Sul resto può esserci divisione e grande differenza. Su questo no. Io lo dico da terza carica dello Stato. Mi sento Stato. E questa è una questione di Stato. Da Stato vado avanti fino alla fine. Perché non si può sconfiggere chi non si arrende mai. E siccome la famiglia Regeni non si arrenderà mai, lo Stato non si dovrà arrendere».
E dunque, qual è la chiave per rompere l’arrocco di Al Sisi?
«Detto che Al Sisi, e non la giustizia del suo paese, è il solo che può dare mandato a risolvere una volte per tutte le questione, bisogna trovare argomenti che lo convincano che la verità è più conveniente della menzogna».
A proposito di Stato: la terza carica dello Stato cosa pensa della vicenda Diciotti e di un vice premier che denuncia la violazione delle prerogative della politica da parte della magistratura che si fa Stato?
«Capisco la domanda, ma non risponderò oggi, non in questa giornata. Lo farò tra qualche giorno».
il manifesto 26.1.19
«Atlantismo» in bilico, Roma sceglie Pechino. E a marzo arriva Xi Jinping
Cina/Italia. Visita del ministro degli esteri cinese per preparare l'arrivo di Xi Jinping a Roma a marzo: in occasione della visita del presidente cinese l'Italia potrebbe firmare il memorandum d'intesa per la nuova via della seta
di Simone Pieranni
Con il governo Lega-5S le relazioni tra Italia e Cina hanno avuto un’incredibile accelerata. Il motore è stato il Movimento attraverso «missioni» in Cina del ministro Di Maio, del suo entourage e del ministro Tria; Salvini, al contrario, nonostante avesse annunciato una visita in Cina subito dopo le elezioni, di recente ha inanellato una serie di esternazioni decisamente critiche contro Pechino.
Rimane il fatto che in questi giorni a Roma c’è stata la visita del ministro degli esteri cinese Wang Yi; spedizione principalmente rivolta a preparare l’arrivo in Italia di Xi Jinping, il presidente cinese, previsto nella capitale tra il 19 e il 21 marzo.
Ieri alla Farnesina – in occasione della nona riunione del comitato congiunto Italia-Cina – Wang Yi, alla presenza del ministro degli esteri italiano Moavero, ha ribadito gli ottimi rapporti tra Italia e Cina, citando più volte la «nuova via della seta», la cooperazione «win-win» e l’inizio di una «nuova era» anche nelle relazioni diplomatiche.
Proprio il mega progetto di Pechino (One Belt One Road) dovrebbe essere il tema centrale della visita di Xi: l’Italia sarebbe infatti pronta a firmare un memorandum d’intesa sulla nuova via della seta, dopo Grecia, Ungheria e Portogallo.
Per la Cina si tratterebbe di un risultato importante: l’Italia è uno dei paesi fondatori dell’Unione europea, nonché tra i G7, e tradizionalmente a «trazione atlantica».
Una firma del genere – l’Italia è già socia fondatrice dell’Asian Infrastructure Investment Bank, il «cuore propulsivo» economico e finanziario della nuova via della seta – porterebbe se non a una completa giravolta, quanto meno a un cambiamento nella politica estera italiana non di poco conto. Significherebbe cominciare a ragionare ad alleanze mondiali meno dipendenti dalla volontà di Washington: non a caso sono attese firme su accordi che legano la Huawei a vari progetti italiani, alla faccia della campagna feroce che gli Usa stanno conducendo contro il gigante tecnologico cinese.
La firma per il memorandum, secondo rumors, è data per scontato (se non a marzo ad aprile in occasione del secondo incontro internazionale dei Brics a Pechino) ma non tutto è completamente definito.
Ci sono almeno due incognite, o insidie, per il governo italiano: la prima è di natura puramente interna e dipendente dalla relazione ondivaga tra le due forze al governo; la seconda è di natura europea: Xi Jinping prima di atterrare a Roma, sarà a Parigi. Se anche in Francia si dovesse provvedere a una firma del memorandum, l’«effetto» dell’adesione italiana alla nuova via della Seta sarebbe senza dubbio depotenziato. Nonostante questo, almeno in termini di orientamento internazionale del governo, l’adesione italiana alla nuova via della seta sarebbe un punto di svolta rilevante.
A questo proposito, i problemi interni al governo non sono da sottovalutare, considerando le ultime esternazioni di Matteo Salvini favorevoli a Trump e molto critici nei confronti della Cina, con particolare riferimento all’iper attivismo cinese in Africa (fenomeno, invece, completamente dimenticato da Di Maio nell’ambito della polemica sulle ingerenze coloniali francesi in Africa).
Del resto, alcuni mesi fa, quando venne lanciata la Task Force Cina dal ministero dello sviluppo economico, il sottosegretario Michele Geraci aveva specificato che la cooperazione cinese non avrebbe messo assolutamente in discussione la «vocazione atlantica» dell’Italia.
Certo, nel caso della firma durante la visita di Xi Jinping a Roma, bisognerà valutare attentamente le reazioni provenienti dagli Stati uniti, così come quelle interne: per quanto il governo possa tentare di comunicare piena equidistanza, legarsi al progetto della nuova via della seta può portare a vantaggi immediati, ma non si tratterà di un patto a costo zero.
il manifesto 26.1.19
Podemos nei guai, perde un altro pezzo
Spagna, Pablo Iglesias al bivio. Al voto di Madrid, il leader deve decidere: porgere una mano ai fuorisciti o rischiare l'implosione del partito
di Luca Tancredi Barone
Con il ticchettio del conto alla rovescia verso le elezioni europee e amministrative di maggio sempre più incalzante, la crisi di Podemos si aggrava. Dopo che la settimana scorsa il candidato di Podemos a dirigere la comunità (regione) di Madrid, Íñigo Errejón, ha deciso di correre nella lista della sindaca della capitale, Más Madrid, ieri a sorpresa si è dimesso anche il segretario del partito di Madrid, Ramón Espinar, da sempre un fedelissimo di Pablo Iglesias.
Oltre che dagli incarichi di partito, si è dimesso da deputato dell’Assemblea di Madrid e anche da senatore (era il portavoce del partito nella camera alta spagnola). «Quando non hai margine per dirigere e non condividi la direzione che hanno preso le cose, te ne devi andare», spiega l’ex senatore a eldiario.es. In un comunicato scrive anche che «partecipare a un progetto politico implica condividere valori, idee e metterle in marcia». E aggiunge: «Non ci sono le condizioni per portare a termine il progetto di Podemos a Madrid verso dove credo debba dirigersi» dunque, conclude, «farsi da parte è la decisione più responsabile e che credo, in coscienza, debbo prendere».
L’interpretazione che viene data a questo gesto è che Espinar, che aveva perso primarie contro Errejón per ottenere il voto dei militanti ed essere nominato candidato di Podemos, non era d’accordo con Iglesias sul da farsi dopo il «tradimento» di Errejón. I massimi dirigenti del partito avevano subito chiarito che Podemos avrebbe presentato un candidato alternativo e che Espinar stava lavorando a questa ipotesi.
Ma nella riunione del Comitato elettorale, sabato scorso, Espinar era fra quelli che difendevano l’idea di gettare ponti verso Errejón. E che non erano convinti che fosse utile spaccare il partito schierandosi contro la candidatura di Más Madrid. Errejón peraltro continua a chiedere a Podemos di entrare nella lista, un po’ sul modello di quello che accade in altre comunità. Ieri qualcuno già parlava della possibilità che lo stesso Espinar entri nella lista Más Madrid.
La mossa di Errejón ha fatto saltare per aria tutti gli equilibri. E non solo a Madrid. Dieci dei diciassette segretari provinciali hanno partecipato proprio ieri a una riunione convocata dal segretario della Castiglia-La Mancia a Toledo per discutere della delicata situazione politica. Pablo Iglesias ha convocato d’urgenza un Consiglio Cittadino Statale (il massimo organo politico del partito) per sabato 2 febbraio.
La posizione di Iglesias e dei massimi dirigenti del partito a livello nazionale però ora è molto indebolita: se insisterà nell’idea di presentare un candidato alternativo per la comunità di Madrid rischia di far saltare per aria quel che resta del partito; se non lo fa, di fatto decreta la vittoria politica del suo ex amico ed ex avversario politico Errejón.
Se poi Errejón dovesse arrivare a diventare presidente della comunità di Madrid, il destino politico di Pablo Iglesias sarebbe segnato.
il manifesto 26.1.19
Brexit in un vicolo cieco, sale la tensione
Regno unito. Con le aziende pronte a lasciare Londra e il nuovo voto del parlamento che incombe May non trova la soluzione. Il piano B non c’è
di Leonardo Clausi
LONDRA È il Labour di Corbyn a far registrare un’apertura, o meglio una dis-chiusura della propria posizione sull’azzoppato deal di Theresa May per il ritiro dall’Ue: i deputati laburisti con incarichi di governo (non la fazione centrista di backbenchers) hanno presentato un emendamento per dare al parlamento voce in capitolo qualora detto accordo si apra finalmente alla permanenza nell’unione doganale, a una maggiore vicinanza al mercato unico, come a una maggiore protezione, post-Brexit, dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente. E include la richiesta di poter votare su un possibile secondo referendum, concessione al centrodestra del partito che del secondo referendum ha fatto una leva anti-Corbyn.
Tutto questo mentre il primo ministro (taoiseach) irlandese Leo Varadkar ipotizza l’uso dei soldati al confine in caso di no-deal – in buona sostanza la reintroduzione del finora unanimemente paventato confine fisico fra le due Irlande – che ha fatto puntualmente imbestialire il Dup, mentre la solitamente assai felpata monarca Elisabetta tornava, per la seconda volta dopo il discorso natalizio alla nazione, a raccomandare l’importanza di un «terreno» e di un «punto di vista comuni» pur senza citare Brexit direttamente.
LA TEMPERATURA resta alle stelle, soprattutto dopo l’affondo del capoccia di Airbus contro Brexit: Tom Enders ha minacciato di levare le tende dal Paese, in cui costruisce le ali dei suoi velivoli, in caso di no-deal e ha nuovamente stigmatizzato l’oscurità in cui le imprese sono costrette a brancolare. Sony ha già annunciato il proprio sgombero per installarsi in Olanda. Quasi in controcanto, rispondeva ieri loro il cancelliere Hammond il quale, nella francescana cornice di Davos, ancora una volta auspicava la disponibilità europea ad ammorbidire le proprie posizioni pur di salvare May e il suo accordo ed evitare il temuto no-deal.
Dal canto suo, la premier resta essenzialmente dov’era, dopo essersi scrupolosamente murata in un vicolo cieco e gettata via la cazzuola. Sì perché ora che si è assicurata, strappandolo all’ex primatista David Cameron, il trono nell’anti-olimpo dei leader britannici dalla Seconda guerra mondiale, lunedì scorso May non è stata capace di far altro che riproporre per la seconda volta, salvo risibili e ininfluenti modifiche, lo stesso accordo per l’uscita dall’Ue che il Parlamento le aveva spietatamente calpestato, sconfiggendolo 230 volte, la settimana precedente.
Il risultato è stato l’ottenimento del matematico pugno di mosche: il backstop, la famigerata clausola di sicurezza per evitare il confine fisico fra le due Irlande che le retrocederebbe ai tempi bui della guerra civile, non piace né ai remainers né ai leavers, un dispiacere ecumenico e bipartisan. E siccome la premier non recede punto sulle richieste degli uni – via il backstop, oppure pronti a un’uscita traumatica senza accordo (no deal) – come degli altri – via (ugualmente) il backstop e permanenza nell’unione doganale stile Norvegia, oppure secondo referendum – non le resta che aspettare, sperando nel frattempo di poter radunare abbastanza sostegno (cioè numeri) in aula dietro a una data idea/obiettivo con cui recarsi di nuovo a Bruxelles non soltanto genuflessa come al solito, ma con qualcosa di concreto da chiedere all’Ue, ottenerlo e resuscitare il proprio accordo.
La premier è tenuta stretta in pugno dai lunatici brexittieri euroscettici di Rees-Mogg e degli unionisti democratici nordirlandesi del Dup, i quali sosterrebbero in aula il suo finora fallimentare accordo solo qualora ne ritirasse definitivamente il backstop, cosa che palesemente non è in grado di fare perché Juncker/Barnier/Tusk non glielo potrebbero concedere nemmeno volendo. Da qui il posticipo ulteriore del voto significativo sul suo improbabile piano B, inizialmente fissato a martedì prossimo e ora ulteriormente allontanato a una tuttora imprecisata data dei primi di febbraio.
Nel frattempo alcuni membri dell’Ue si preparano a far fronte agli aspetti logistici più urgenti degli scambi e del trasporto su ruota e su ali in caso di mancato accordo e chiedono un atteggiamento più “generoso” da parte dell’Unione con la Gran Bretagna in caso di no deal. Da parte loro potrebbero venire incontro a May e fare dei cambiamenti sulla dichiarazione politica (che si accompagna allo sciagurato accordo) sul futuro assetto fra le controparti, ma accetterebbero solo un rapporto del Regno Unito vicino all’Ue tipo quello che ha la Norvegia, o addirittura la permanenza nell’unione doganale, una posizione cui il Labour di Corbyn è favorevole: cosa che May ha però sempre escluso.
Il Fatto 26.1.19
“I Comuni sfileranno Brexit dalle mani di May”
Paul Mason. Il giornalista vicino a Jeremy Corbyn: “Ci avviamo verso una crisi costituzionale senza precedenti”
intervista di Sabrina Provenzani
Paul Mason, 58 anni, giornalista e saggista, è uno dei più influenti intellettuali di sinistra britannici. Di estrazione popolare, nel febbraio 2016 ha lasciato il ruolo di caporedattore dell’economia di Channel 4 per essere libero dagli obblighi di imparzialità giornalistica. Influente attivista del Labour di Corbyn, si definisce un socialdemocratico radicale.
Cosa c’è alle radici della Brexit?
Il Regno Unito ha sempre avuto una relazione molto distaccata con l’Unione europea e non ha mai voluto fare parte del suo progetto di consolidamento. Quando si è posta l’opzione di uscirne, l’élite di destra, nazionalista, imperialista, colonialista, se ne è impadronita e ha liberato le oscure viscere del Paese, ostile soprattutto all’immigrazione dai Paesi dell’Est Europa. Il voto è il risultato di questa ostilità.
Chi sono gli elettori laburisti che sostengono il Leave?
Si dividono in due categorie: chi vota Labour per abitudine ma è culturalmente di destra. Ma anche autentici laburisti che non hanno accettato un’immigrazione senza controllo e, per alcuni, senza vera integrazione. Per decenni il Regno Unito ha accolto e integrato immigrati dalle ex colonie, ma gli arrivi dall’Europa dell’Est dopo il 2003 sono stati incontrollati. La ragione per sostenere Brexit da sinistra è che una offerta illimitata di lavoratori deprime i salari e consegna ai datori di lavoro milioni di persone senza cittadinanza e quindi senza diritto di voto… ed è una ragione molto convincente per chi già guadagna poco e ha lottato duecento anni per quel diritto.
E questo, al di là del suo personale euroscetticismo, Corbyn non può ignorarlo…
Corbyn non agisce per motivi personali ma sulla base del fatto che i 50 seggi che servono al Labour per formare il governo e porre fine all’austerità e agli attacchi ai lavoratori sono tutti fra i laburisti che hanno votato Leave in Inghilterra e Galles. In Scozia, al contrario, i laburisti sono progressisti e sostengono Remain. E c’è un altro fattore incredibile: nello spazio di una generazione, il vero cuore morale e culturale del Labour si è spostato nei grandi centri cosmopoliti. Tenere tutto insieme è molto complicato.
Quali scenari vede per uscire dall’impasse?
Sappiamo che entrambi i partiti si stanno preparando a elezioni anticipate, malgrado la resistenza di molti Tories. Il 29 gennaio il Parlamento probabilmente approverà degli emendamenti che toglieranno di fatto al governo il controllo sulla Brexit, una crisi costituzionale senza precedenti. Il Labour sembra intenzionato a supportare almeno uno di questi emendamenti, che richiede una estensione dell’art. 50 e un voto che escluda il no deal. Se questo accade, Theresa May convocherà le elezioni.
Quindi Corbyn, esattamente come la May, sta mettendo il partito prima della nazione.
No, sta mettendo la nazione prima dell’Unione europea. Io sono profondamente critico dell’Ue, penso che non possa sopravvivere se non abbandona il neoliberalismo. E penso che, anche se restiamo, dovremmo lottare per riformarla, riscrivendo completamente il Trattato di Lisbona.
il manifesto 26.1.19
Guaidó e Trump più isolati di Maduro: l’Osa si spacca
Venezuela. Sedici paesi americani su 35 non appoggiano il golpe. L’Organizzazione dice no anche alla richiesta di un «ambasciatore» dell’opposizione. Caracas ritira lo staff dagli Usa
di Claudia Fanti
Al momento, il presidente ad interim de facto Juan Guaidó, è, come lo definisce l’intellettuale cileno Manuel Cabieses, nient’altro che un «presidente fantoccio», un «governante senza governo» che non controlla nulla: né l’apparato amministrativo, né le forze armate, né i servizi pubblici. Praticamente un ologramma che vive appena del riconoscimento di Trump e dei governi a lui asserviti.
Ma anche i tanto sbandierati riconoscimenti internazionali fanno un po’ acqua, considerando che giovedì a Washington la mozione per riconoscerlo come presidente legittimo del Venezuela non è riuscita a ottenere la maggioranza tra i paesi membri dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa).
Nel corso di una movimentata sessione del Consiglio permanente dell’Osa, alla presenza del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, solo 16 dei 35 paesi che compongono l’organismo – Argentina, Bahamas, Canada, Brasile, Cile, Costa Rica, Ecuador, Colombia, Stati uniti, Honduras, Guatemala, Haití, Panamá, Paraguay, Perú e Repubblica Dominicana – hanno accettato di sottoscrivere una risoluzione di appoggio a Guaidó con la richiesta di elezioni anticipate. E così anche la nomina da parte del presidente usurpatore di un suo ambasciatore presso l’Osa, Gustavo Tarre, si è risolta in un nulla di fatto.
Intanto, a poche ore dalla scadenza dell’ultimatum di 72 ore dato da Maduro al personale diplomatico statunitense perché abbandoni il paese, il Dipartimento di Stato Usa ha ordinato per ragioni di sicurezza il ritiro dal Venezuela dei suoi funzionari «non essenziali». Il presidente bolivariano, dal canto suo, ha disposto la chiusura di tutte le sedi consolari del Venezuela negli Stati uniti, annunciando l’imminente ritorno del personale diplomatico a Caracas.
Maduro, tuttavia, ha scelto di non alzare i toni, dicendosi «pronto» al dialogo con l’opposizione – malgrado tutti i precedenti tentativi fatti fallire dalle destre – così come proposto in un comunicato congiunto delle cancellerie di Messico e Uruguay, due dei paesi latinoamericani che hanno fin da subito preso le distanze dall’autoproclamazione di Guaidó. Un invito, quello dei due governi, a «ridurre le tensioni» e a evitare una pericolosa «escalation di violenza» attraverso un «nuovo negoziato includente e credibile, nel pieno rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani».
E un appello al dialogo è stato lanciato anche dal segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, che ha messo in guardia dal rischio di «un conflitto disastroso per il popolo del Venezuela e della regione». Proprio all’Onu si era del resto rivolto il ministro degli Esteri venezuelano Jorge Arreaza, denunciando la «permanente ingerenza» degli Usa e dei paesi satelliti per provocare «un cambio di regime per vie non costituzionali», specialmente a partire dall’«infame» decreto con cui nel 2015 l’allora presidente Barack Obama dichiarava il Venezuela «una minaccia straordinaria alla sicurezza degli Stati uniti».
Contro l’operato del governo Usa si è schierato anche Bernie Sanders, secondo cui gli Stati uniti «dovrebbero appoggiare lo stato di diritto e l’autodeterminazione del popolo venezuelano», scrivendo una pagina nuova rispetto alla «lunga storia di interventi inappropriati in America latina».
E dal Brasile, il cui governo è totalmente in linea con l’amministrazione Trump, si è fatto sentire anche Lula: «Con che coraggio parla del Venezuela un governo che fa arrestare il suo maggiore avversario e vince le elezioni con una campagna di fake news su Whatsapp finanziata illegalmente dalle imprese?».
Il Fatto 26.1.19
Due presidenti e zero dialogo. Il Venezuela aspetta il “golpe”
“Usurpatore” - Maduro non cede il potere e l’altro leader mobilita il Paese per creare un governo di transizione. Né dall’Onu né dall’Europa arriverà una soluzione
di Giampiero Gramaglia
Prove di dialogo abortite in Venezuela tra il presidente la cui elezioni è contestata, Nicolás Maduro, e il presidente auto-proclamato, Juan Guaidó. Maduro, da poco insediatosi per un secondo mandato, dopo un voto non democratico per larga parte della comunità internazionale, prospetta un colloquio a Guaidó; Messico e Uruguay si offrono di ospitare l’incontro, di tentare una mediazione. Ma Guaidó, il presidente del Parlamento che mercoledì ha assunto i poteri esecutivi, fa sapere che non intende partecipare a “dialoghi inutili e dilatori”: lui è disposto a negoziare solo tre punti, la “fine dell’usurpazione”, cioè della presidenza di Maduro, e la creazioni di un governo di transizione, che porti al più presto a elezioni democratiche. E a chi lo accusa di “colpo di Stato”, risponde: “Se mi arrestano, quello sì è un golpe”. Elezioni democratiche le chiede anche l’Unione europea, seppure con toni diversi da Paese a Paese, mentre Donald Trump mette tutto il peso degli Stati Uniti dietro a Guaidó, sostenuto da larga parte dei Paesi dell’Organizzazione degli Stati latino-americani, mentre la Russia e la Cina sono i grandi “garanti internazionali” di Maduro. Che di Guaidó dice: “Lo conosco, è un agente dei gringos, che lo hanno formato e lo hanno fatto entrare in politica… Eseguirà i loro ordini…”.
Nel Paese, la tensione resta altissima. Proteste, incidenti, scontri hanno già fatto decine di vittime: un bilancio, provvisorio, stilato da organizzazioni non governative, contava 26 morti all’alba di ieri; la giornata di venerdì sarebbe poi stata meno cruenta. C’è l’impressione che il bilancio avrebbe potuto essere più tragico, la deriva verso la guerra civile più netta. Invece, i militari e gli apparati dello Stato paiono essere fedeli al regime di Maduro, “chavista” e “bolivarista” nel segno dell’eredità di sinistra di Hugo Chavez e della tradizione latino-americana indipendentista e nazionalista. Con Maduro, c’è pure l’apparato giudiziario, alla cui indipendenza non c’è da prestare troppo credito. Guaidó si muove nel Paese, incontra sostenitori, propone una mobilitazione continua, dà appuntamento oggi alla gente per nuove manifestazioni e domani ai militari: promette un’amnistia “a coloro che passeranno dalla parte della Costituzione”, anche a Maduro. Che, dal canto suo, ribadisce di essere “l’unico presidente” di un Venezuela che, di fatto, ne ha due, senza che nessuno riesca a governare un’economia in crisi con inflazione inauditi.
La comunità internazionale si muove in ordine sparso. Da Washington, John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, afferma che i beni Usa in Venezuela sono affidati alla tutela di Guaidó, che starebbe per rinnovare – con quale effetto e con quale autorità, resta da vedere, i vertici dell’industria petrolifera pubblica venezuelana –. E il Brasile offre a Maduro “un corridoio di fuga”.
Nell’Unione europea, dopo la fuga in avanti “pro Guaidó” della Francia, Spagna e Portogallo, che, con l’Italia – però quasi assente –, sono i Paesi più attenti all’America Latina, provano a suggerire una linea comune: chiedono a Maduro d’indire in Venezuela libere elezioni “entro una settimana”, pena il riconoscimento di Guaidó.
Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera europea, si ferma un passo prima: chiede un voto “libero e credibile”, ma non indica scadenze ed evita di evocare il riconoscimento di Guaidó. Maduro non apprezza la mossa di Madrid: “Spagnoli insolenti – dice –, se vogliono se ne vadano”. Da Panama, dove Papa Francesco partecipa alla Giornata mondiale della Gioventù, la Chiesa si schiera per il cambiamento: “Il popolo lo chiede e noi con loro”, dice il vescovo Mariano Parra. L’Onu dovrebbe pronunciarsi questa mattina: una riunione del Consiglio di Sicurezza è convocata al Palazzo di Vetro, gli Usa saranno rappresentati dal segretario di Stato Mike Pompeo. Difficile prevedere un’iniziativa delle Nazioni Unite capace di sbloccare la situazione: incombono i rischi di veti incrociati russo e americano. L’incertezza e la pericolosità della situazione trovano conferma nella partenza da Caracas di parte del personale diplomatico Usa: “È normale, in queste condizioni, accelerare l’uscita del personale non essenziale”, spiega un portavoce dell’Ambasciata.
La Stampa 26.1.19
L’élite dei mediocri
di Mattia Feltri
Domani è il Giorno della Memoria, data in cui si rievoca lo sterminio degli ebrei in Europa negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. La necessità della memoria deriva soprattutto dal motivo che subito dopo la guerra si preferì dimenticare. I reduci del lager non volevano parlare, gli altri non volevano sentire. Molto tempo dopo, Raymond Aron (gigantesco filosofo francese) avrebbe raccontato di una conversazione con Jean-Paul Sartre, era la fine del 1945, in cui si chiedevano perché non fosse uscito un solo articolo di giornale a celebrare il ritorno dei sopravvissuti nella comunità francese. Ma la Francia - con cui ci randelliamo spesso forse perché ci rassomigliamo molto - era troppo impegnata a glorificare la sua eroica resistenza, per renderla un fatto nazionale anziché, com’era, residuale.
Fu proprio Sartre (novembre 1946, Riflessioni sulla questione ebraica) a riarmare la voce: «Esiste un orgoglio appassionato dei mediocri e l’antisemitismo è un tentativo di valorizzare la mediocrità in quanto tale, di creare l’élite dei mediocri». L’antisemitismo, e la conseguente Shoah, non partivano soltanto da alibi pseudoscientifici, ma soprattutto da pulsioni sociali, dalla rabbia degli ultimi che cercavano qualcuno da abbassare sotto di sé, non sapendo elevarsi. Il razzista, proseguì Sartre, è un uomo che ha paura della sua vita, della sua libertà, della sua responsabilità, del mondo che cambia, non vuole meritare niente e pensa che tutto gli sia dovuto per nascita, «e l’ebreo qui è solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro e del giallo». Questo, nel Giorno della Memoria, è giusto ricordare.
il manifesto 26.1.19
Le radici moderne dello sterminio
Novecento. In occasione del Giorno della Memoria, parla lo scrittore tedesco Uwe Timm, autore di «Un mondo migliore» (Sellerio). Nella Germania sconfitta si indaga sulla figura di Alfred Ploetz, il «padre» dell’eugenetica nazista. «Volevo capire come fosse stato possibile che uno degli scienziati nazisti, che era stato socialista in gioventù, fosse passato dall’anelito all’uguaglianza al progetto dell’igiene razziale»
di Guido Caldiron
Uwe Timm è abituato a misurarsi con le contraddizioni della storia tedesca, le zone d’ombra e le linee di confine che hanno segnato profondamente anche le vicende della sua famiglia. Non a caso, tra le opere più note dello scrittore, considerato un esponente significativo della scena intellettuale cresciuta in Germania dopo il Sessantotto, c’è Come mio fratello (Mondadori, 2005), un romanzo dedicato alla vicenda di Karl-Heinz, il fratello maggiore arruolatosi volontario nella divisione Totenkopf delle SS, morto a 19 anni in Ucraina e al modo in cui quella scelta terribile fu vissuta dalla sua famiglia.
Nato ad Amburgo nel 1940, Timm che vive da tempo a Monaco dopo lunghi periodi di studio e lavoro tra Francia gli Stati Uniti e Italia, ha partecipato ai movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta ed è stato a lungo una delle voci più note della sinistra culturale tedesca. Tra le sue opere pubblicate anche nel nostro paese, i romanzi La scoperta della currywurst (Le Lettere, 2003), che torna sulla tragedia del conflitto e del secondo dopoguerra tedesco, L’amico e lo straniero (Mondadori, 2005) e Rosso (Le Lettere, 2005), entrambi incentrati sulla storia e il bilancio del Sessantotto e dei suoi protagonisti in Germania, oltre alla serie di racconti per l’infanzia che hanno come protagonista Mimmo il maialino corridore.
IL SUO NUOVO ROMANZO, Un mondo migliore, pubblicato da Sellerio in occasione del Giorno della Memoria (traduzione di Matteo Galli, pp. 518, euro 15,00) si muove ancora una volta con grazia lungo il confine tra la ricostruzione storica e la disanima interiore, attraverso figure che si misurano con scelte e orizzonti che peseranno a lungo sul destino del mondo intero. I piani narrativi, che il titolo dell’edizione italiana del libro – in tedesco era Ikarien – rende immediatamente, sono due: da un lato la scoperta della Germania all’indomani della caduta del Terzo Reich attraverso gli occhi di Michael Hansen, un giovane militare americano di origine tedesca mandato in missione per indagare sui crimini degli scienziati nazisti, dall’altra la ricostruzione della traiettoria umana e scientifica di Alfred Ploetz, uno dei padri degli «esperimenti» di eugenetica razziale sui quali prenderà forma lo stesso progetto della Soluzione finale.
E sarà proprio indagando su Ploetz, morto nel 1940, attraverso i ricordi di un suo compagno di gioventù, Karl Wagner, imprigionato nel campo di concentramento di Dachau dai nazisti perché vicino ai socialdemocratici, che Hansen scoprirà come il futuro artefice dell’«igiene razziale» hitleriana fosse stato inizialmente un seguace delle teorie del filosofo francese Étienne Cabet, fautore di una società utopica che voleva annullare ogni differenza tra gli esseri umani e al quale si ispireranno diverse «comuni» sorte in particolare negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. Allontanatosi progressivamente dall’utopismo socialista e abbracciata la dottrina nazionalista delle «radici nordiche» della Germania, Ploetz sposterà la sua attenzione dal superamento delle differenze di carattere sociale a quelle biologiche. Nei suoi diari scriverà: «L’uguaglianza può essere raggiunta solo da uno sviluppo superiore generale (…) Ci deve essere una rivoluzione biologica che vada ad integrare quella sociale».
«Il romanzo – spiega Uwe Timm – è nato dalla mia volontà di capire come fosse stato possibile che un uomo come Ploetz, che era stato socialista, una volta dedicatosi alla scienza avesse potuto trasformare il suo anelito all’uguaglianza nel progetto dell’”igiene razziale”, in quella prospettiva eugenetica che dall’eliminazione delle persone con handicap fisici o mentali avrebbe condotto via via fino ad Auschwitz».
Lo scrittore tedesco Uwe Timm
LA DERIVA RAZZISTA, e omicida, di Ploetz, come quella di altri scienziati nazisti, sembra evocare da questo punto di vista alcune delle tesi esposte da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, dove si evidenzia come dall’autodeterminazione razionale degli individui il progetto illuminista si sia risolto talvolta nel suo opposto, come accaduto ad Auschwitz. Non a caso, Timm ricorda che «l’eugenetica interessò inizialmente anche i socialisti perché sembrava porre un interrogativo su come creare una forma di uguaglianza che riguardasse ogni aspetto dell’umanità, non solo quello sociale. E già prima dei nazisti, la sterilizzazione forzata di alcuni cittadini fu praticata in Danimarca come negli Stati Uniti negli anni Venti. E ancora nel dopoguerra fu praticata nella Svezia governata dai socialdemocratici».
Perciò, se è evidente come il nazismo fece di queste pratiche, fino alla progressiva definizione del progetto di sterminio razziale, il cuore stesso dell’«ordine nuovo» che intendeva costituire in tutta Europa, secondo lo scrittore, è l’idea stessa che la scienza possa progredire senza interrogarsi minimamente sulle proprie scelte ad interrogare ancora l’umanità. «All’epoca si volevano creare “bambini ariani” attraverso il progetto Lebensborn, oggi si cerca di manipolare i cromosomi. Tutto ciò deve essere discusso, si deve tracciare una linea rossa. Gli scienziati dovrebbero impegnarsi in una discussione pubblica sulla responsabilità, e quindi anche sulla moralità delle loro scelte. Ploetz. come anche Darwin del resto, pensavano che la scienza avrebbe risolto tutto. Le considerazioni politiche e morali erano state messe completamente da parte. Prima della Seconda guerra mondiale gli scienziati tendevano a credere che tutto avvenisse nell’uomo. Le ragioni sociali, il contesto nel quale si viveva erano considerati solo marginalmente come causa di malattie e infezioni. Si legava tutto alla teoria dell’ereditarietà. Era un approccio fatale che sappiamo a cosa ha condotto».
IL MODO NEL QUALE si è costruita la «modernità» dell’Europa e il suo intreccio con lo sviluppo dello stesso nazionalsocialismo sono del resto da tempo al centro del lavoro di Timm, autore, già nel 1978 di Morenga, un romanzo tuttora inedito nel nostro paese dedicato allo sterminio compiuto dai tedeschi in Namibia contro le popolazioni Herero e Nama all’inizio del Novecento: una vicenda che per certi versi annunciava quanto sarebbe accaduto durante il regime di Hitler. Infatti, come ricorda Timm, «molti dei soldati che avevano combattuto in Namibia finirono nei Freikorps, le milizie antisemite e naziste che dopo il 1918 terrorizzavano le città tedesche a caccia di comunisti. Uno dei generali nazisti, Franz von Epp, era un veterano della Namibia». Da questo punto di vista, «l’Africa fu un laboratorio per le atrocità successive dei nazisti. In base alle teorie socialdarwiniste, vi fu una deumanizzazione mostruosa degli africani. I tedeschi finirono per essere totalmente privi di empatia, ammazzavano e stupravano senza remore o rimorsi. Questo odio verso gli africani era motivato anche da un sentimento di totale estraneità».
IN «UN MONDO MIGLIORE» c’è però spazio anche per il ricordo della prospettiva che con la caduta del nazismo si stava aprendo per i tedeschi. Per Timm che all’epoca aveva solo cinque anni si tratta di tornare con la memoria a giornate nelle quali si intrecciavano incertezze e grandi speranze. Uno dei protagonisti del romanzo, Michael Hansen, che nella storia contribuisce anche alla creazione della rete di biblioteche nelle quali la generazione del dopoguerra scoprirà i classici della narrativa americana così a lungo vietati dal regime, sembra assomigliare a quei soldati di cui lo scrittore conserva un vivido ricordo ancora oggi. «Apparivano così diversi da mio padre, con la sua disciplina prussiana e la sua fissazione per l’ordine. Sembravano sempre rilassati, camminavano con le mani in tasca. E poi avevano un odore diverso dai soldati tedeschi. Non sapevano di stantio, ma di fresco, come le gomme da masticare che ci regalavano insieme alle sigarette e alla cioccolata».
il manifesto 26.1.19
Urge la memoria del presente
di Fabrizio Tonello
Quando si istituiscono i «giorni della memoria» vuol forse dire che la memoria è scomparsa e che non si sa più di cosa si stia parlando? Sarebbe quindi meglio forse abolire subito la legge 211 del 2000?
Quella che istituisce il 27 gennaio come data in cui ricordare la Shoah e le leggi razziali, prendendo atto che gli incontri, i concerti, i monumenti alle vittime delle violenze nazifasciste sono stati un fallimento ?
Domenica risuoneranno in tutta Italia i giusti appelli a «non dimenticare» ciò che accadde nel 1933-45, mentre martedì scorso, vicino a Roma, è iniziato lo sgombero all’alba di una struttura abitativa, usando l’esercito. Separazione delle famiglie. Rifiuto di comunicare dove le vittime dell’operazione vengono deportate. Tutto normale, per gli organi di propaganda del regime nell’Italia del 2019, esattamente come il «mantenimento dell’ordine» nella Germania del 1936 sembrava un necessario accompagnamento delle scintillanti esibizioni degli atleti olimpici. Il problema non è che l’Italia di Salvini sia come la Germania di Hitler, ci mancherebbe: la questione è invece che la retorica del «male assoluto» ha nascosto le radici profonde, e la terribile normalità, della violenza contro i diversi.
La persecuzione antiebraica è stato un crimine unico nelle sue dimensioni ma non nella sua organizzazione burocratica, nella sua puntigliosità persecutoria verso tutte le minoranze: il lager di Dachau – lager vuol dire «campo di sterminio», mentre oggi “fortunatamente” ancora denunciamo i campi di concentramento – fu aperto per ospitare prigionieri comunisti, seguiti da zingari e omosessuali, Auschwitz e Mauthausen vennero dopo. Oggi forse non si dice che bisognerebbe rastrellare i negri (ribattezzati «clandestini» anche quando palesemente non lo sono) e bruciarli (anche se ogni tanto qualche bello spirito lo scrive su Facebook) ma si dichiara tranquillamente ad alta voce che se annegano nel Mediterraneo, o vengono torturati dai nostri (sì, nostri) scherani in Libia, non è colpa di nessuno.
Sugli zingari, esponenti del governo dicono tranquillamente che bisognerebbe «deportarli», anche quando sono italiani. Oggi si parla di Shoah molto più di quanto se ne parlasse negli anni Cinquanta ma, apparentemente, nessuno fa caso ad un ministro a cui piacciono un po’ troppo le divise e il linguaggio da gerarca nazista.
Al ritorno dai lager, i sopravvissuti non volevano parlarne, tanto meno venivano incoraggiati a farlo. Solo lentamente, nel dopoguerra, il tema entrò nel dibattito pubblico, in particolare dopo la pubblicazione del libro di Hannah Arendt La banalità del male, che non a caso fu frainteso all’epoca ed è dimenticato nel suo messaggio politico oggi. Un messaggio politico tanto semplice quanto difficile da accettare: la linea tra civiltà e barbarie, citata in questi giorni dal presidente Mattarella, è più sfumata di quanto ci piacerebbe credere: «Le azioni erano mostruose ma chi le fece era pressoché normale» scrisse appunto Hannah Arendt.
Quelle azioni mostruose ci appaiono oggi lontane vicende di un’epoca incomprensibile in cui non esistevano i telefonini, Facebook, Twitter e Amazon. Al contrario, sono parte costituente della nostra vita quotidiana: nascoste dove si può (come in Cina dove si fabbricano i nostri cellulari o nell’Africa «ricca» dei minerali che li compongono), rivendicate quando non si può nasconderle, come al confine tra Stati Uniti e Messico, dove migliaia di bambini e ragazzi sono stati «persi» dall’amministrazione Trump dopo la separazione dalle famiglie.
La politica del Giorno della Memoria, quindi, ha senso solo se riallaccia fascismo e nazismo alle loro origini violente. Alle loro «persecuzioni contro tutte le minoranze», come ripete Liliana Segre sopravvissuta ad Auschwitz. Se non è in grado di farlo, rischia di distogliere l’attenzione dai crimini quotidiani commessi in nostro nome.
La Stampa 26.1.19
Antisemitismo, nessuno come Svezia e Francia
di Linda Laura Sabbadini
Proprio mentre la giornata della memoria si avvicina, un allarme forte e inquietante viene dal 50% dei cittadini europei che segnalano la presenza dell’antisemitismo nel proprio Paese, come ci dice un’indagine condotta da Eurobarometro. Al primo posto - sembrerà strano - la Svezia (81%) dove una comunità ebraica di appena 18000 persone, in parte discendente dei rari sopravvissuti polacchi alla Shoah, è bersaglio continuo di violenze di matrice integralista. Segue la Francia (72%), ma è alta la preoccupazione anche in Germania (66%). Anche da noi il problema esiste per il 58% degli italiani. Tanti episodi lo confermano: le magliette con la foto di Anna Frank esposte dagli ultrà razzisti, i frequenti insulti antisemiti in rete, l’indecente post sui Savi di Sion del senatore Lannutti, che lo pongono fuori dal consesso democratico e lo rendono di fatto estraneo al nostro Parlamento.
La crisi, lunga e difficile, non è affatto terminata, è gioco facile andare a caccia di capri espiatori, e sugli ebrei grava una stratificazione di pregiudizi e calunnie antica migliaia di anni, che oggi rigermina usando vecchie e nuove sembianze, tutte maquillage dell’antisemitismo: gli ebrei che controllano la finanza mondiale, che si sono inventati la Shoah, cui si nega il diritto a un proprio Stato, Israele, e che negano il diritto ad uno Stato per altri.
L’avvelenamento dell’aria per soffocare le minoranze è sempre stato il preludio di catastrofi immani per tutti. «L’antisemitismo non si esaurisce mai nella sofferenza degli ebrei e basta. La storia ha dimostrato che l’antisemitismo nel mondo ha sempre annunciato sciagure per tutti. Si incomincia col tormentare gli ebrei e si finisce con il tormentare chiunque», disse la prima ministra israeliana Golda Meir.
Le parole d’odio scavano la pietra, lasciarle scorrere senza contrastarle a ogni costo e con ogni mezzo può portare solo al peggio. Da troppo tempo l’odio dilaga sui social, in televisione, nella vita quotidiana, e viene tollerato, non adeguatamente combattuto. Se lo si legittima de facto, chiunque può essere la prossima vittima. L’odio è una fiera sempre affamata. Oggi si scaglia sull’ebreo o sull’immigrato, oppure contro l’omosessuale e la donna, vittima di misoginia. Domani divorerà chiunque altro.
Bisogna ritrovare la forza del reagire con un nuovo slancio vitale, nell’affermazione dei valori e dei sentimenti migliori di tolleranza, empatia e solidarietà. Dobbiamo agire ora, subito, insieme all’Europa, cambiandola e rendendola più giusta, pienamente casa di tutti, anche dei più poveri ed emarginati, sempre più Europa dei diritti.
Il ricordo della Shoah, infamia inaudita della storia, è un monito: questo è il suo significato. Piangiamo i morti, malediciamo gli aguzzini, ma soprattutto parliamo ai vivi, gridiamo contro l’indifferenza. La storia ha insegnato che chi in passato si è voltato dall’altra parte ha contribuito alla vittoria della barbarie. Gridiamo contro la rassegnazione. Reagiamo.
Siamo tanti a voler far vivere la nostra meravigliosa Costituzione nella sua essenza più profonda, racchiusa nell’articolo 3, quello che ci vuole uguali, arricchiti dalle nostre diversità e liberi, là dove si dice che la Repubblica rimuove gli ostacoli «al pieno sviluppo della persona umana», mettendo in primo piano la «pari dignità sociale dei cittadini». Renderlo vero non è aspirazione astratta, dipende da ciascuno di noi. Eli Wiesel, premio Nobel per la Pace, diceva: «Ogni persona è dotata di strani poteri. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino può modificare il cammino della storia». Crediamoci. Dichiariamo «tolleranza zero» contro razzisti e antisemiti, contro gli omofobi e i misogini, non già contro le donne, gli uomini e i loro bambini disperati, alla ricerca di un futuro negato.
Corriere 26.1.19
Indagine sul male
Come e perché si arrivò alla Shoah
di Antonio Ferrari
La collana
In edicola oggi con il quotidiano il primo volume della ricostruzione dedicata allo sterminio degli ebrei nel corso della Seconda guerra mondiale.Una vicenda mostruosa e complessa, dalle origini antiche: la ferocia inaudita degli aguzzini, il coraggio di chi si oppose, i meccanismi infernali dell’Olocausto
La Shoah (parola ebraica che significa catastrofe) è certamente l’evento più complesso e mostruoso avvenuto nel secolo scorso. Complesso perché sui dettagli delle cause scatenanti gli storici stanno ancora studiando e discutendo: un lavoro che produce opere di grande rigore scientifico come quella da oggi in edicola con il «Corriere». Mostruoso nella sua unicità storica: cioè la pianificazione, l’organizzazione e l’esecuzione del genocidio di una parte della razza umana, senza colpe specifiche, se non quella d’essere ebraica. Quasi sei milioni di morti, con l’obiettivo dichiarato di cancellare dall’Europa tutti gli israeliti.
Di questo feroce sterminio di massa si è saputo quasi tutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, alla scoperta dei campi della morte nazisti che si trovavano soprattutto nella Polonia occupata dalle truppe del Terzo Reich. Ma i grandi numeri della barbarie non bastano per descrivere l’orrore della somma infinita di tanti drammi individuali che i pochi superstiti per anni non hanno osato raccontare. Per almeno due motivi: il timore di non essere creduti, come ha raccontato più volte la senatrice a vita Liliana Segre; il desiderio di rimuovere quella tremenda parentesi per potersi ricostruire una vita, tentando di seppellire i mostruosi fantasmi del passato.
La filosofa, storica e scrittrice Hannah Arendt, ebrea tedesca naturalizzata statunitense, nel suo celebre e discusso libro La banalità del male — scritto a commento del processo al criminale nazista Adolf Eichmann — sostiene che «il male non è radicale ma solo estremo», e che non possiede «né la profondità né una dimensione demoniaca». Infatti, «esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie, come un fungo. Soltanto il bene, invece, ha profondità e può essere “integrale”».
Analisi attenta, che spiega la genesi dei mostruosi meccanismi che si realizzano e si moltiplicano per la rabbia collettiva dopo una grave umiliazione, un’ingiustizia, un tradimento. Numerosi storici spiegano l’impetuosa ascesa dell’antisemitismo, nella Germania umiliata alla fine della Prima guerra mondiale, con la disperata caccia a un colpevole, a un «capro espiatorio». Che la propaganda urlata e insistita, diffusa ossessivamente con successo in quanto semplificava e rendeva il problema accessibile a tutti, avesse subito trovato i colpevoli è ormai dimostrato: gli ebrei.
Qui non si tratta di semplice antigiudaismo, come accadde ai tempi dei Greci e dei Romani, e neppure soltanto di antisemitismo a carattere religioso, quanto di autentico razzismo.
Vite distrutte e segnate
I grandi numeri non bastano
per descrivere la somma di tanti drammi che i superstiti per anni non hanno osato raccontare
La Chiesa, con Pio XI, era stata abbastanza intransigente verso il nazismo. Atteggiamento diverso quello di Pio XII, che divenne Papa nel 1939 e che scelse una linea di apparente neutralità. La prudenza forse era dettata dal timore di evitare vessazioni o addirittura persecuzioni contro i cattolici tedeschi. Però va anche ricordato che il Vaticano fu assai turbato dalla decisione del leader slovacco Jozef Tiso, un sacerdote alleato del Führer, di deportare in Germania dal 1942 migliaia di ebrei come forza lavoro. Il nunzio apostolico a Bratislava intimò a monsignor Tiso di interrompere le deportazioni. È assai probabile che l’ordine fosse giunto dal Pontefice, anche se i critici radicali di Pio XII sostengono che la decisione fosse un’iniziativa autonoma del nunzio. Di fatto le deportazioni dalla Slovacchia furono sospese. Sarebbero riprese nel 1944.
Alcuni gerarchi di Hitler avevano proposto di deportare tutti gli ebrei nel Madagascar, ma le sorti della guerra, i costi e la campagna militare contro l’Unione Sovietica (cominciata nel giugno 1941) avevano imposto scelte alternative. Ecco dunque disegnarsi il massimo dell’orrore. Il 20 gennaio del 1942, in un castello lussureggiante nel Parco di Wannsee, alla periferia di Berlino, i gerarchi di Hitler, guidati da Reinhard Heydrich, feroce responsabile dell’apparato repressivo delle SS, decisero e pianificarono la Soluzione finale. Cinicamente, si voleva evitare ai soldati tedeschi lo «stress da fucilazione», quindi ci si orientò su tre iniziative combinate agghiaccianti: «uccisione, eliminazione, sterminio». Dopo il pranzo si discusse della quantità di gas necessaria per annientare ogni giorno il maggior numero di ebrei e altri elementi ritenuti nocivi, tra cui comunisti, rom, disabili, omosessuali. Di quell’orrenda riunione sarebbe rimasto un unico verbale. Heydrich fu ammazzato cinque mesi dopo a Praga da un commando di resistenti cechi.
In numerosi Paesi, non furono pochi coloro che, rischiando la vita, cercarono di salvare gli ebrei. A Budapest l’italiano Perlasca e lo svedese Wallenberg. A Istanbul, il nunzio Angelo Roncalli (futuro Papa Giovanni XXIII), con l’aiuto di un diplomatico del Reich. A Salonicco il console fascista Guelfo Zamboni riuscì a impedire la deportazione di tutti gli ebrei italiani e anche di numerosi ebrei greci, stampando passaporti temporanei «falsi».
Negli ultimi anni il tema della memoria si è finalmente imposto all’attenzione generale, anche grazie alla decisione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di nominare senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, che da decenni porta nelle scuole italiane la sua sofferta testimonianza, invitando a visitare il Memoriale di Milano, in un angolo sotterraneo e nascosto della Stazione Centrale, da dove partivano i treni diretti nei campi di sterminio. È stata la Segre a volere che all’ingresso del Memoriale fosse scolpita, a caratteri cubitali, la parola «Indifferenza». L’indifferenza spesso, anzi quasi sempre, è peggio dell’odio.
Corriere 26.1.19
Pregiudizi ben radicati agevolarono il genocidio
Spesso le popolazioni dei Paesi occupati collaborarono all’opera persecutoria sia pure con alcune importanti eccezioni
Terribili stragi erano già avvenute in passato ma il rancore antisemita moltiplicò la violenza
di Paolo Salom
Occuparsi della Shoah significa, oggi, aver accesso a migliaia di saggi, documenti, testimonianze. Un corpus storico immenso e ben definito che ha resistito persino all’attacco dei negazionisti, confinati dalla forza indiscutibile dei fatti al ruolo di mere comparse dello spaventoso Zeitgeist (lo spirito del tempo) che settanta e più anni fa ha consentito l’inverarsi della distruzione degli ebrei d’Europa. In altre parole, la cancellazione di una civiltà millenaria attraverso il massacro ideato, programmato ed eseguito di ogni suo singolo componente, senza eccezioni se non date da casualità o corruzione.
Sappiamo tutto sul come e sul quando, molto è stato scritto sul perché e forse quest’ultimo è l’unico punto su cui le risposte si accumulano senza mai portare a un esito accettabile in ogni sua parte: dunque, definitivo. Da qui la necessità di continuare a indagare, esaminare nuovi documenti, confrontare lo sterminio degli ebrei con altri episodi della storia che, messi in un unico contesto, hanno davvero la capacità di far vacillare la fiducia nella sostanziale rettitudine dell’esperienza umana. Certo, la crescita di violenza legata allo sviluppo industriale della prima metà dell’Ottocento, fino all’apoteosi della Soluzione finale, ci riporta una predisposizione «naturale» cui potremmo attribuire, con una certa distanza scientifica, le ragioni di episodi che hanno portato alla morte di uomini, donne e bambini senza alcuna apparente logica o necessità.
Per chiarire, è possibile spiegare con una «incompatibilità» culturale — e quindi l’impossibile convivenza — il massacro dei nativi americani durante l’espansione dei coloni americani verso Ovest nel XIX secolo? La logica in quel caso era la «sostituzione» di un popolo con un altro. Per quanto spietato (ferino), l’uomo ha agito spesso così nei secoli. Ovunque. Poi però, se analizziamo le guerre anglo-boere in Sudafrica, o l’espansione guglielmina nell’Africa del Sud-Ovest (poi Namibia), scopriamo i primi esempi di campi di concentramento (l’ideazione appartiene agli spagnoli durante la ribellione cubana, anni Novanta dell’Ottocento) dove rinchiudere in condizioni inumane migliaia di civili neerlandesi e così tagliare i rifornimenti di uomini e mezzi ai ribelli (la Gran Bretagna in Sudafrica); e i primi massacri genocidari di indigeni «di razza inferiore» per far posto a inesistenti coloni «bianchi» attesi quanto Godot dall’Europa centrale (il Reich in Africa del Sud-Ovest).
Altre uccisioni di massa seguiranno. Pochi lustri e l’Europa tutta si ritroverà impegnata nell’«inutile strage». Soldati, in primo luogo, che porranno fine alla vita di altri soldati. Ma che getteranno i semi per massacri laterali che entreranno nella storia come il primo esempio di genocidio: quello degli armeni (1915). Tra tutti, è forse il caso che più si avvicina alla Shoah: un popolo che conviveva da secoli con i turchi viene preso di mira perché rappresenta un «pericolo». Un’incursione di soldati turchi in un villaggio (Van) armeno, che osa difendersi, apre la strada all’omicidio seriale dell’intera classe dirigente della comunità e all’ordine di deportazione di tutti gli altri. Risultato: centinaia di migliaia di morti.
Ora, se questi sono i precedenti, perché stupirsi dell’esito della successiva guerra mondiale? Perché il massacro di sei milioni di ebrei va esaminato in quanto tale e non — questo è l’aspetto cruciale cui appare difficile dare risposta — come la conseguenza di una «naturale predisposizione» alla violenza di massa in certe circostanze?
Punto primo. Gli ebrei sono stati presi di mira dai nazifascisti, ovunque si trovassero a dominare, senza trovare resistenza da parte delle autorità o delle popolazioni locali (eccezioni degne di nota: Danimarca e Bulgaria), spesso invece beneficiando del loro zelante aiuto nella carneficina: segno che esisteva una comune idea di «alterità perniciosa» dei cittadini ebrei. Questo sentimento millenario è definito con la parola antisemitismo ed è capace di sussistere anche in assenza di ebrei.
Punto secondo. Eliminare gli ebrei non è mai stato suggerito dalle necessità della guerra (vere o presunte), al contrario lo sforzo impiegato nell’industria dello sterminio, mai interrotto, ha probabilmente accelerato la fine della Germania. Dunque restiamo con la nostra domanda: perché? Solo continuando a scavare nella coscienza profonda dell’Occidente si può sperare di trovare, finalmente, un percorso capace di rischiarare la notte dell’umanità.
Repubblica 26.1.19
Harro e Libertas storia d’amore e di antinazismo
Altolocati, colti, glamour: i coniugi Schulze-Boysen, uccisi dal regime nel 1942 con altri eroi della Resistenza, vennero bollati come spie comuniste, membri della cosiddetta "Orchestra Rossa". Ora un saggio rende loro giustizia
di Natalia Aspesi
Tutti i miei desideri sono esauditi: resterò giovane nella vostra memoria. Non dovrò separarmi dal mio Harro. Non dovrò più soffrire…». Così Libertas Schulze-Boysen, 29 anni, scrive alla madre, la contessa Tora zu Eulemburg, la sera del 22 dicembre 1942 dal carcere di Plötzensee a Berlino; subito dopo la portano in un locale buio illuminato solo da qualche candela, dove l’aspettano ombre in frac, guanti bianchi e cilindro, il carnefice con due aiutanti. La gettano sulla tavola della ghigliottina e la mannaia fa il suo istantaneo lavoro. Quel giorno furono giustiziati con la velocità imposta direttamente da Hitler, sei condannati dal Tribunale del Popolo e otto uomini e tre donne la cui morte era stata decretata dalla corte marziale del Reich: e per questa occasione lo stesso Führer aveva fatto montare nella camera della morte otto uncini da macelleria destinati allo strangolamento a corda corta, che rendeva più lento il supplizio e a cui furono appesi cinque degli otto uomini condannati: il tenente dell’aeronautica militare Harro Schulze-Boysen, marito di Libertas, il diplomatico Rudolph von Sceliha, il consigliere governativo di primo livello Arvid Harnack, lo scultore Kurt Shumacher e l’ex giornalista e agente di commercio Johyn Graudenz. Il diciannovenne Horst Heimann fu ghigliottinato, l’ultima giustiziata, alle 20.33 di quella sera, fu Elisabeth Schumacher, moglie di Kurt. A quei ganci furono appesi due anni dopo gli alti ufficiali della Wermacht del fallito attentato a Hitler.
Quella che la Gestapo aveva chiamato Orchestra Rossa, «una organizzazione comunista finalizzata all’alto tradimento» fu sterminata nelle successive esecuzioni del 13 maggio e 5 agosto 1943, vittime molte donne, come la danzatrice che si definiva "espressiva" Oda Schottmüller, Rose Schlösinger, moglie dell’interprete al ministero degli Esteri Bodo che al fronte si era suicidato, Liane Berkowitz, diciotto anni, la cui esecuzione fu rimandata a dopo il parto in carcere e Hilde Coppi, moglie di Hans già giustiziato, che fu ghigliottinata dopo aver dato alla luce il figlio Hans, oggi un importante storico della resistenza tedesca. Mildred, la moglie americana di Harnack era stata condannata a sei anni di prigione, ma Hitler pretese un nuovo processo e quindi la condanna a morte.
Nicola Montenz, già autore tra l’altro de L’armonia delle tenebre. Musica e politica nella Germania nazista pubblica adesso, da Archinto, L’eterna primavera, la storia di Libertas e Harro e del loro gruppo antinazista: «Per cinque anni ho raccolto interviste, fotografie, documenti inediti d’archivio e familiari, con l’aiuto prezioso di mia madre che è una germanista appassionata.
Volevo ridare alla coppia e ai loro compagni, giovani, colti, brillanti, di alto livello sociale, il valore del loro sacrificio; ma anche in questo momento ricordare come è facile, se non ci si oppone, scivolare nella deriva politica». Negli anni della Guerra fredda l’Orchestra Rossa divenne il bersaglio di «un disturbante chiacchiericcio dell’aneddotica apocrifa e romanzata», senza fonti attendibili; nella Repubblica Federale tedesca, in Europa e anche negli Usa, quei personaggi trucidati dal nazismo continuarono ad essere considerati spie e traditori per i contatti avuti con
Nella foto grande, Libertas e Harro Schulze-Boysen l’Unione Sovietica. E con Stalin, che però non li riteneva attendibili. Per la stessa ragione la Repubblica Democratica invece li esaltò basandosi sempre sulle versioni della Gestapo. Montenz nega le responsabilità di Libertas nell’arresto dei suoi amici e smonta gran parte delle teorie sulla coppia Schulze-Boysen, che indubbiamente era per i tempi, molto aperta; citando tra i tanti Gilles Perrault, l’autore del saggio L’Orchestra Rossa (Bompiani) che da un ufficiale della Gestapo, per altro ignoto, aveva appreso che Libertas amava le donne e Harro seduceva giovanissimi per convincerli all’antinazismo. Il che, se mai, non sporca il loro eroismo.
Erano una coppia speciale, giovane, bella, molto legata in ogni condivisione, aperta nei rapporti amorosi: che pur con quella tragica fine, non fu del tutto riconosciuta nel suo eroismo: anzi col Muro di Berlino, nella Repubblica Federale tedesca continuò ad essere accusata di possibili legami con Stalin.
Montenz, in cinque anni di ricerche, si è convinto del contrario, con una massa di documenti ritrovati in diversi archivi e interviste a figli e congiunti dei protagonisti.
Harro era figlio di un capitano di marina e nipote di un grand’ammiraglio, conservatore, appassionato di politica, scriveva alla famiglia di tendenze antisemite: «Ho letto Mein Kampf. L’intera teoria razziale è priva di senso. Non esiste alcuna razza tedesca». Ma anche: «Alla fine uno dovrebbe essere immunizzato perché in pochi altri libri ho trovato un simile guazzabuglio di banalità».
Libertas, e già quel nome la presenta, è figlia di un pacifista discendente di banchieri, che ha una fortunata casa di mode e collabora con Richard Strauss e Max Reinhart. È nata a Parigi, ha girato l’Europa.
Quando si incontrano, lei ha 21 anni e lavora come addetta stampa alla sede berlinese della Metro Goldwin Mayer e ha un certo entusiasmo per il nazismo, lui ne ha 25 e lavora nell’aeronautica militare. Hitler è al potere dal gennaio 1933 e Harro, allora direttore di un foglio politico, crede di poter continuare a esprimersi liberamente: ma non è così: lui e un amico di origine ebraiche vengono arrestati e sottoposti a tortura: Harro ne esce vivo, non il suo amico.
Repubblica 26.1.19
Radiografie e battiti del cuore va in mostra il corpo di Hitler
Si inaugura a Carpi il controverso allestimento curato dallo psicoanalista Antonello Fresu
di Marco Belpoliti
Hitler a Carpi? Cosa ci fa la radiografia del capo nazista nella Sala dei Cervi dell’antico Palazzo dei Pio insieme al battito tambureggiante del suo cuore?
Hitler è morto suicida il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il suo corpo fu cosparso di benzina e bruciato, quindi la salma carbonizzata sepolta insieme ai resti di altri cadaveri irriconoscibili. I soldati sovietici cercarono il corpo del dittatore, fino a che rinvennero un osso mandibolare e due ponti dentari; presentati al suo odontotecnico, Fritz Echtmann, furono identificati grazie alla cartelle cliniche. Nonostante questo, restò l’ipotesi che fosse ancora vivo e nascosto da qualche parte, una leggenda che circolò negli anni ’50 e ’60. Nel 1945 l’esercito americano realizzò un dossier sul capo nazista utilizzando le cartelle cliniche del suo medico, Theodor Morrell: 47 pagine che contenevano la radiografia del cranio del leader e alcuni elettrocardiogrammi, intitolate Investigation into whereabouts. Nel 1983 sono state rese accessibili insieme alle ricerche dell’Fbi per "ritrovare" il dittatore.
Antonello Fresu, psicoanalista junghiano, ha usato quelle pagine e realizzato l’installazione Der Körper che s’inaugura oggi nello spazio del castello di Carpi sotto l’egida della Fondazione Fossoli (fino al 31 marzo). Nella prima stanza buia appaiono le imponenti radiografie del cranio di Hitler, alte tre metri, retroilluminate: sono fantasmi neri su fondo bianco, e insieme impressionanti opere grafiche, il cui significato luttuoso appare subito evidente. Nella seconda sala i referti clinici analizzati da specialisti medici di oggi, come si trattasse di un paziente qualsiasi, mentre sulla volta appaiono parate naziste, Hitler che arringa la folla e raduni militari. Nella terza stanza sono riportati i documenti del dossier americano, mentre nella quarta, e ultima, su uno schermo compare la simulazione del battito del cuore e un elettrocardiografo dell’epoca emette il tracciato di quell’esame clinico in presa diretta: si attiva appena le persone entrano nella sala come un misterioso saluto di benvenuto. L’idea di Fresu, attento indagatore dell’Ombra, per dirla con Jung, ha qualcosa d’inquietante: stende un mantello di nere tenebre in questo luogo e obbliga i visitatori a incontrare, come scrive Marco Senaldi in un testo che apparirà nel catalogo della mostra, a guardare il fossile di un Tirannosaurus Rex, il cui scheletro è stato conservato e trasformato in curiosità espositiva da Museo di Scienze Naturali. Già di per sé le radiografie sono qualcosa di conturbante, e queste di grandi dimensioni, anche senza sapere che appartengono al cranio di Hitler, inquietanti. Pare che la moglie dell’uomo che ha inventato questo metodo d’indagine, Wilhelm C. Röntgen, dopo essere stata sottoposta alla prima radiografia, abbia detto: ho visto la mia morte. Questi light box contengono una doppia morte: quella del paziente Adolf Hitler e quella del dittatore che ha provocato la più immane catastrofe del XX secolo. Un uomo e insieme il peggior criminale della storia. È come se, per una nera magia, il doppio corpo del Re, per dirla con Ernst Kantorowicz, corpo materiale e corpo sacrale, corpo che muore e quello che invece si trasmette sotto forma di regalità, si fossero ricongiunti per un imponderabile maleficio. Fresu, nel suo doppio ruolo di psicoanalista e di artista, ha messo in mostra un’ombra e il suo fantasma. Come se i fantasmi potessero avere un’ombra. Batte il cuore di uno spettro mentre i soldati camminano a passo dell’oca sulle volte ricurve del Castello.
Spettro perché, mentre i fantasmi sono bianchi, Hitler è nero, anzi nerissimo. Il capo nazista è stato e resta un enigma. Il suo maggior biografo, l’inglese Ian Kershaw, s’è chiesto come un uomo così bizzarro abbia potuto prendere il potere in uno Stato moderno com’era la Germania dell’inizio del XX secolo. Dotato di grandi abilità demagogiche e di una capacità straordinaria di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, Hitler resta un mistero per chi l’ha indagato: di quali poteri era dotato per riuscire a trascinare le classi dirigenti tedesche in un’avventura così nefanda e disastrosa? Risposta non c’è. Salvo ricorrere alla metafisica del Male, o a spiegazioni che esorbitano dalla nostra comprensione razionale. Der Körper bordeggia quello spazio irrazionale, lo lambisce e per questo scuote il visitatore, lo mette in allerta. Persegue questo scopo e anche quello di indicare che Hitler era un uomo come noi, che aveva un corpo simile al nostro: era normale. Non era un mostro?
Possibile? Il concetto di "mostro" non è facile da maneggiare; fa vacillare, perché spiega qualcosa d’inspiegabile. Primo Levi, al termine del suo I sommersi e i salvati, sostiene di non aver mai incontrato dei mostri nel lager, solo degli uomini che erano stati educati male. L’arcano di Hitler resta irrisolto. La mostra è elegante e la sua provocazione colpisce. Tra tutti i dittatori del XX secolo, Hitler era quello che sembrava avere meno corpo di tutti; lo nascondeva persino ai propri intimi: nessuno l’ha mai visto a torso nudo. Come aveva detto Jung, intervistato da un giornalista americano, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che colpiva era prima di tutto la voce del dittatore, la vibrazione isterica che conteneva, una voce che stregava milioni di tedeschi e li coinvolgeva. Come controcanto a questa ostensione fantasmatica della testa e del cuore del dittatore funziona la voce tremenda di Hitler che echeggia nelle sale, una voce uscita da un corpo così piccolo e modesto, che non riusciamo a dimenticare, e che come uno spettro circola ancora oggi per l’Europa dei suoi tardi, assurdi e fanatici ammiratori.
Adolf Hitler; in alto, l’allestimento della mostra Der Körper al Palazzo dei Pio di Carpi (fino al 31 marzo) con le radiografie di Hitler
La Stampa TuttoLibri 26.1.19
La Storia la scrivono i vincitori
Chi conquista gli archivi scrive la Storia (e comanda)
Nel 1809 Napoleone avviò una campagna di confisca di documenti in tutta Europa Un’impresa titanica e sistematica per trasformare Parigi nella capitale del mondo
di Alessandro Barbero
La storia la scrivono i vincitori? Continuamente citato dai revisionisti più patetici, questo stantio luogo comune è completamente falso oggi, quando nei paesi democratici chiunque è libero di studiare, scrivere e pubblicare tutto quello che vuole: e così, ad esempio, dopo il 1945 i fascisti hanno pubblicato in tutta libertà, per chi la voleva leggere, la loro versione della storia recente, senza dover aspettare l’arrivo di un Giampaolo Pansa a battere la grancassa. Il che non vuol dire che la tentazione di tenere nascosti i documenti, o di lasciarli vedere soltanto a storici di provata fede, non sia una tentazione ricorrente di chi sta al potere. Anche nei paesi democratici è normale che certi atti del governo siano tenuti segreti per qualche decennio; nelle dittature il limite non c’è, sicché solo la sconfitta del nazismo ha permesso di disseppellire l’immensa documentazione che prova la pianificazione della Shoah, ed è stata necessaria la caduta dell’Unione Sovietica perché gli archivi del KGB rivelassero il destino degli intellettuali e degli artisti scomparsi sotto Stalin.
Chi controlla gli archivi controlla, insomma, anche il modo in cui viene scritta la storia; e nessuno ne era così consapevole come Napoleone. L’imperatore possedeva in sommo grado quella capacità di vedere in grande che il presidente George Bush senior, essendone notevolmente privo, chiamò una volta, con visibile fastidio, «the vision thing». E parte della sua visione era trasformare Parigi nella capitale del mondo: non soltanto la città più bella, ammirata e invidiata, ma proprio l’unico luogo in cui fosse possibile fare politica, arte e scienza al livello più alto.
Le sistematiche razzie di opere d’arte prodotte da questa visione sono ben note, e ingrossano da sempre il nutrito dossier degli argomenti contro la tirannide napoleonica. Molto meno nota, prima di questo studio di Maria Pia Donato, era l’altrettanto sistematica spoliazione degli archivi compiuta dagli inviati dell’imperatore nelle capitali conquistate, da Bruxelles a Torino, da Vienna a Roma, nell’intento deliberato di sottrarre alle province annesse alla Francia e ai superstiti governi rivali la materia prima della loro memoria storica e delle loro eventuali rivendicazioni politiche. Giacché nell’Europa di allora, molto più di oggi, il passato condizionava il futuro e poter provare un diritto, un possesso, una consuetudine grazie alle carte d’archivio era un’arma concreta ed efficace nella competizione tra paesi. Lasciare alle città italiane i documenti che provavano il loro libero passato comunale, riferiva nel 1811 l’archivista imperiale Daunou, inviato a ispezionare gli archivi della Penisola, era politicamente sconsigliabile: «Se questi pezzi restano negli archivi municipali, daranno luogo presto o tardi a pretese e reclami per lo meno scomodi».
Perciò alle conquiste di Napoleone seguiva regolarmente la confisca degli archivi; a volte, come accadde dopo l’occupazione della Spagna, l’imperatore la considerava così urgente da ordinare che i documenti fossero mandati in Francia usando gli stessi cassoni che avevano trasportato il biscotto per la truppa. Il possesso dei documenti avrebbe permesso agli storici di regime di scrivere una nuova storia secondo le convenienze dell’impero: l’archivio del Sant’Uffizio sequestrato a Roma doveva dimostrare le malefatte del potere papale, e Napoleone ordinò di indagare fra le carte «per sapere se ci sono esempi di imperatori che abbiano sospeso o deposto dei papi».
Alla caduta di Napoleone seguì l’inevitabile controesodo: le potenze vincitrici sguinzagliarono a Parigi non soltanto cacciatori di opere d’arte rubate, antesignani dei Monuments Men celebrati da un recente film di George Clooney, ma cacciatori di documenti. Tutto tornava indietro, tutto tornava come prima? Non proprio: come in molti altri ambiti toccati dal terremoto napoleonico, a dispetto dei proclami i vincitori avevano tutto l’interesse ad approfittare dell’occasione. E così, mentre i fondi del grande Archivio di Corte torinese sottratti ai Savoia tornavano a Torino (in attesa che una parte di quei fondi fosse di nuovo rapinata dalla Francia dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale), i documenti genovesi recuperati a Parigi non tornarono a Genova, ma presero anch’essi la via di Torino.
Sacrificata alla Realpolitik della Santa Alleanza, la millenaria repubblica non era stata restaurata, anzi, per suprema beffa, Genova era stata regalata ai Savoia, che da sempre odiava e temeva; puntualmente, il governo sabaudo giudicò sconveniente «lasciare a Genova certi titoli e carte che sono troppo importanti». Per quanto il suo nome fosse pubblicamente esecrato, Napoleone aveva insegnato ai sovrani europei parecchie cose di cui avrebbero dovuto essergli grati.
Repubblica 26.1.19
Le idee
Marxisti immaginari
Il giorno in cui siamo diventati alienati e contenti
di Maurizio Ferraris
Il consumo, tradizionalmente concepito come l’inverso del lavoro, è oggi un elemento cruciale del funzionamento del sistema produttivo Così come lo sono le vacanze e il divertimento. Ma Marx non l’aveva previsto
Keynes aveva profetizzato che avremmo lavorato quindici ore la settimana, ma abbiamo l’impressione di lavorare quindici ore al giorno, e l’ironia è che in moltissimi paesi avanzati il tasso di disoccupazione è alto.
Come è possibile? Se il fatto che le merci si rivelino come documenti svela l’arcano delle merci, qui ci troviamo di fronte a un altro arcano, quello del lavoro. Sebbene in apparenza il capitale documediale richieda pochissimo lavoro (qualche tecnico, qualche magazziniere, un po’ di fattorini presto sostituiti da stormi di droni) in realtà mette al lavoro il mondo intero, e senza retribuirlo. Se il capitale industriale consisteva nella forza lavoro (retribuita) e nei mezzi di produzione (messi a disposizione dal capitalista) il capitale documediale consiste nella mobilitazione (non retribuita) e nei mezzi di registrazione di questa mobilitazione (comprati dai mobilitati). Quello che il capitalista documediale mette di suo sono i mezzi di interpretazione, che costituiscono realmente gli strumenti di un capitale cognitivo che, però, non consiste, come si potrebbe pensare, in una conoscenza diffusa ma, proprio al contrario, trae vantaggio dalla conoscenza centralizzata e riservata di una mobilitazione totale degli utenti. Nella rivoluzione documediale il lavoro nel senso tradizionale, come fatica, alienazione e retribuzione, sta scomparendo, ed è destinato a scomparire sempre di più su scala mondiale.
Sempre più le strade si riempiranno di runner che bruciano calorie in eccesso non consumate dalla fatica lavorativa, ma che – attraverso questa attività apparentemente ludica – lavorano, perché producono valore, generando dati sulla loro salute, sulla loro camminata, sui loro gusti musicali, sui percorsi che preferiscono. Più che con una scomparsa, abbiamo a che fare con una disseminazione del lavoro, che non occupa un posto centrale e monolitico che definisca l’identità delle persone, ma piuttosto si disperde e si nasconde nelle pieghe della nostra vita, divenendo appunto mobilitazione, agitazione costante nella interazione con il web (che, diversamente da ciò che avviene con i vecchi media, non è soporifera, perché di fronte al web siamo attivi e mobilitati, non passivi). Da questo punto di vista, la mobilitazione sul web ha le caratteristiche del "lavoro del sogno" secondo Freud: condensazione (una funzione che ha finalità ludiche è al tempo stesso produzione di valore); spostamento (quando siamo al lavoro possiamo tranquillamente non lavorare, ma il lavoro ci inseguirà nella vita); figurazione con il contrario: il consumo, tradizionalmente concepito come l’inverso del lavoro, è oggi un elemento cruciale del funzionamento del sistema produttivo, così come lo sono le vacanze, i divertimenti, gli eventi, ossia tutte quelle sfere apparentemente non lavorative in cui si dispiega la quintessenza della mobilitazione come nozione che supera e ricomprende la nozione di lavoro ristretta e tradizionale.
La trasvalutazione di tutti i valori a cui Nietzsche si dedicò nei suoi ultimi anni di vita vigile non si è realizzata, ma in compenso abbiamo una trasvalutazione di tutti i lavori.
Nel momento in cui la produzione è garantita dall’automazione a prezzi bassissimi, molto più bassi di quelli garantiti dalla rivoluzione industriale o dalla economia servile, ciò che conta nel lavoro non è la forza investita, e nemmeno l’intelligenza, bensì il consumo, il bisogno, la dipendenza e la passività, ossia quell’insieme di esigenze, in larghissima parte derivanti dal fatto che gli umani sono organismi, che mette in moto e conferisce un senso alla macchina produttiva, destinata altrimenti a rimanere inoperosa e, soprattutto, insensata.
Ecco il grande mistero della nostra epoca. Mentre pensiamo di vivere la nostra vita extra-lavorativa, di soddisfare i nostri bisogni, di inseguire i nostri desideri e di esprimere le nostre idee, surroghiamo le funzioni di banche, giornali, pubblicità e agenzie di viaggi.
Soprattutto, stiamo riempiendo archivi sconosciuti con dossier dettagliatissimi sui nostri gusti e i nostri guai, sulle nostre abitudini e sugli strappi alla regola che ci rendono imprevedibili per chi non li conosce (cioè anche per noi stessi), sulla nostra salute e sulle nostre inclinazioni politiche e sessuali. Non un secondo di questo tempo, ovviamente, è retribuito (da quando in qua si pagano le persone per il solo fatto di vivere?) eppure produce una ricchezza molto superiore a quella dei soldi, perché non si limita a dare informazioni su quanto possiamo spendere, ma dice quello che siamo e quello che vogliamo, cose che il denaro non solo non può comprare, ma neppure è in grado di rappresentare.
Immagino l’obiezione: dove starebbe la realizzazione del comunismo? C’è, eccome, basta solo avere gli occhi per guardare. Questa mobilitazione non è una nuova versione dell’alienazione tecnologica, tema su cui sono stati scritti milioni di pagine con l’unico risultato di incrementare la deforestazione e dunque la produzione e vendita di motoseghe. Piuttosto che una alienazione, questa mobilitazione ha generato una rivelazione. D’accordo con il principio secondo cui la tecnologia, ben lungi dal deformare una ipotetica essenza dell’uomo, la manifesta, visto che l’umano non è tale se non dispone di supplementi tecnologici, la trasformazione in corso è stata una rivelazione dell’essenza.
Se le cose stanno in questi termini, non c’è ragione di stupirsi del fatto che l’enorme incremento dei mezzi di registrazione prodotto dal web abbia determinato il gigantesco cambiamento sociale che abbiamo sotto gli occhi.
Questa trasformazione fa sì che a venir meno sia proprio la nozione tradizionale di alienazione. La scomparsa della differenza fra tempo del lavoro e tempo della vita, e la sussunzione del lavoro sotto la categoria più complessiva della mobilitazione, fanno scomparire l’aspetto più vistoso del capitalismo secondo Marx: l’alienazione del proprio tempo (pur persistendo l’alienazione rispetto ai prodotti del proprio lavoro). In effetti, in luogo dell’alienazione che costringe a gesti ripetitivi che si riproducono per ore e sull’arco di una intera vita lavorativa abbiamo la realizzazione dell’umanità comunista della Ideologia tedesca, quella in cui la mattina si va a pesca, al pomeriggio si critica, la sera si accudisce il bestiame. Non è forse proprio questa la nostra vita? E non è la vita paradigmatica del comunismo realizzato? Osservare che non è granché come vita (ma intanto nessuno vorrebbe tornare indietro), negare che si tratti di una realizzazione del comunismo, vederci una crudele astuzia del capitalismo, è come imputare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo gli hate speech che in effetti sono un risultato imprevisto dell’universale diritto all’espressione.
– 3. Continua
Il Fatto 26.1.19
Una notte di musica per la Casa delle Donne
Auditorium - Mannoia, Emma, Sangiorgi, Turci e altri: sul palco insieme per una raccolta di fondi
di Stefano Mannucci
Roba da far impallidire l’Ariston. Il cast dell’evento di stasera all’Auditorium Parco della Musica di Roma accredita la certezza di vedere sul palco della Sala Sinopoli duetti inediti, improvvisazioni, sorprese, di quelle che Baglioni accoglierebbe a scatola chiusa anche a Sanremo. Fiorella Mannoia, Noemi, Emma, Paola Turci, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Luca Barbarossa con la Social Band, Nicky Nicolai, Stefano Di Battista, e attrici come Vittoria Puccini, Laura Morante, Eugenia Costantini. Laura Pausini ha diffuso un messaggio via social: non potrà esserci, ma (come Giorgia e Sabrina Ferilli) sostiene l’iniziativa dei colleghi, che non sono lì solo per deliziare il pubblico con musica e parole. La causa è di quelle complesse, e in qualche modo laceranti, nella storia recente della capitale. Un braccio di ferro che va avanti da più di un anno, con letture di segno opposto tra le parti in campo. Riguarda la destinazione futura della Casa delle Donne, con sede nell’ex penitenziario femminile del Buon Pastore, a Trastevere: da decenni gestita da oltre trenta associazioni che non riescono più a far fronte a un debito con il Comune che supera gli 800mila euro. Nelle intenzioni dell’amministrazione cittadina, la Casa delle Donne dovrebbe essere trasformata in un polo gestito da Roma Capitale, con la collaborazione di enti privati tramite bandi. Negano, dal Campidoglio, l’accusa di voler “chiudere” il Buon Pastore o di sfrattare chi attualmente vi opera. Dall’altra parte, lo sforzo per ripianare lo scoperto sull’affitto (con una trattativa a 300 mila euro) ha indotto molti big a contribuire anche attraverso uno show speciale come quello di stasera. Basterà per trovare una soluzione indolore per tutti? Il primo passo – la sensibilizzazione dell’opinione pubblica – è stato compiuto anche a suon di hashtag come #lacasasiamotutte. Ora è il momento della raccolta dei fondi. Dice Fiorella Mannoia: “Roma non può rassegnarsi a perdere la Casa Internazionale delle Donne, dopo 30 anni. Sarebbe un fallimento per tutta la città”.
Da qualunque parte la si guardi, la mobilitazione per la struttura di via della Lungara (che in un arco di decenni ha accolto più di mezzo milione di donne e che ospita archivi e biblioteche) rinnova una sorta di “patto d’impegno” tra artisti e pubblico. Le donne, in questo, sono costantemente in prima linea: come accadde all’indomani del terremoto de L’Aquila del 2009, quando ben 43 signore del pop si spesero live a San Siro sotto il marchio “Amiche per l’Abruzzo” o come quando, due anni fa, la celebrazione dei 40 anni di carriera di Loredana Berté all’Arena di Verona si trasformò in una sottolineatura della tragedia del femminicidio. Anche lì, in tante fecero corona alla protagonista della festa. Mannoia, Emma e le altre. Pronte a rimboccarsi le maniche, come stasera. E non solo per cantare.
https://spogli.blogspot.com/2019/01/il-manifesto-26.html