venerdì 25 gennaio 2019

il manifesto 25.1.19
Sindacati e lavoratori sono ancora il nemico numero 1 del regime
Egitto. Licenziamenti, arresti, torture ma la mobilitazione non cessa e al-Sisi trema: i lavoratori sono stati tra i pochi a non abbassare la testa anche dopo il colpo di stato militare del 2013
di Pino Dragoni


Il 30 gennaio 2011 in piazza Tahrir, nell’epicentro della rivolta, veniva fondata la prima federazione egiziana dei sindacati indipendenti ( sui cui Giulio Regeni incentrò la sua ricerca). Pochi giorni dopo, l’8 febbraio, lo sciopero generale proclamato dalla federazione paralizzava l’Egitto dando la spallata finale al regime di Mubarak.
Oggi quei giorni sembrano lontanissimi. Da allora tutti i governi che si sono succeduti hanno sempre osteggiato le mobilitazioni dei lavoratori e il movimento sindacale indipendente che si andava affermando. Oggi al-Sisi sembra aver imparato la lezione, e dopo aver neutralizzato qualsiasi opposizione politica vuole spegnere definitivamente anche la miccia del movimento operaio.
“Cominciavamo a ottenere conquiste con i nostri scioperi, uno dopo l’altro. La gente imparava il potere della protesta”, dice un attivista citato in un recente rapporto dell’organizzazione Front Line Defenders, interamente dedicato alla repressione dei lavoratori. “Nel giro di dieci anni, Mubarak è caduto. È chiaro che per al-Sisi i lavoratori sono il nemico numero uno”.
“Gli attivisti che hanno partecipato agli scioperi di fabbrica sin dagli anni ’60 – continua il rapporto – raccontano di non aver mai assistito in tutta la loro vita a questo livello di violenza e ritorsioni”. I lavoratori sono stati tra i pochi a non abbassare la testa anche dopo il colpo di stato militare. È vero, le proteste sono diminuite drasticamente a causa della repressione, ma le misure durissime di austerità imposte dal Fondo Monetario hanno scatenato continue mobilitazioni sui salari.
“Il regime è terrorizzato dalla mobilitazione dei lavoratori e dalle proteste sociali diffuse”, spiega al manifesto Moataz el-Fegiery, ricercatore 37enne tra gli autori del rapporto, che risponde al telefono da Dublino, sede di Front Line Defenders. “Rappresentano una minaccia anche più pericolosa degli attivisti al Cairo o delle grandi organizzazioni per i diritti umani”.
Il rapporto è un lungo elenco di violazioni: arresti, licenziamenti di massa, trasferimenti forzati, minacce, con una particolare attenzione agli aspetti di genere e alle donne, come protagoniste delle lotte e doppiamente vittime. Ma lo studio va anche oltre la denuncia, per analizzare da vicino il sistema di potere egiziano e l’intreccio sempre più forte tra esercito, politica ed economia. I militari in Egitto hanno sempre avuto un ruolo fondamentale, ma da quando al-Sisi è al potere il loro coinvolgimento negli affari del paese è cresciuto a dismisura.
Costruzioni, industrie manifatturiere, trasporti, agricoltura: l’esercito ha allungato i suoi tentacoli in tutti i settori strategici, direttamente tramite società che dipendono dal ministero della Difesa, oppure indirettamente attraverso una nuova élite di ex alti ufficiali con le loro imprese private. Di pari passo è andata la militarizzazione della giustizia, della politica e dei media.
Per i lavoratori (civili) alle dipendenze dell’esercito questo significa in caso di proteste essere soggetti direttamente ai tribunali militari. Lo sanno bene i 26 operai dei cantieri navali di Alessandria ancora sotto processo, e i loro 900 colleghi rimasti senza lavoro per uno sciopero del maggio 2016. Le mobilitazioni dei lavoratori “sfidano il regime sul piano politico e su quello economico allo stesso tempo, e occupano uno spazio fisico ed economico cruciale in un paese in difficoltà,” spiega il rapporto.
“Prima riuscivamo a ottenere qualche piccolo risultato. Oggi non più – dichiara Fatma Ramadan, storica attivista sindacale citata nel rapporto – Il governo vuole mandare un messaggio, far capire che oggi se scioperi non conquisti diritti. Ti becchi soltanto licenziamenti e processi militari”. E anche le tattiche repressive del regime sono cambiate. “Gli arresti legati alle lotte dei lavoratori sono casuali. Non riusciamo più a decifrarne la logica, a decidere quali attività fare e quali invece escludere. È inutile elaborare una strategia sotto un regime irrazionale. Il messaggio delle autorità è semplicemente che chiunque può essere arrestato, in qualsiasi momento. Molti dei miei colleghi – conclude Ramadan – sono ormai impauriti e inattivi”.
Dopo la pubblicazione del rapporto di Front Line Defenders alcuni sindacalisti sono stati interrogati dalle forze di sicurezza in merito a una presunta collaborazione allo studio, e lo stesso Moataz el-Fegiery (che ormai danni è in esilio all’estero) è stato oggetto di una campagna diffamatoria in una TV egiziana.
Ma in una cosa al-Sisi non è riuscito: cancellare la cultura dei diritti umani. “Anzi – spiega el-Fegiery – con la rivoluzione c’è stato un proliferare di rivendicazioni. C’è una nuova generazione di attivisti, oggi ventenni, che sono anche più radicali della mia generazione. Per loro l’eredità della rivoluzione è molto forte”. E anche se in tanti hanno deciso di abbandonare la militanza, tutti gli altri stanno sperimentando nuove tattiche per combattere le loro battaglie, in stretta collaborazione tra chi è rimasto in patria e chi vive in esilio.
Infine il rapporto non risparmia l’Europa, e denuncia la complicità degli stati. Che possono fare molto di più per mettere al-Sisi alle strette. A cominciare dal traffico di armi e dai rapporti economici, fino a iniziative molto più semplici, come assistere e monitorare i processi agli attivisti oppure incontrare i difensori dei diritti umani. La mossa con cui Fico ha interrotto le relazioni tra i parlamenti italiano ed egiziano ad esempio, per quanto simbolica, “ha provocato un grande imbarazzo al Cairo, scatenando una forte reazione – secondo El-Fegiery – L’Italia non deve abbandonare questa battaglia”. Lo deve a Giulio Regeni, ma lo deve anche a tutti i difensori dei diritti umani in Egitto.
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Cronologia – Dalla rivoluzione alla restaurazione
25 gennaio 2011. Milioni di egiziani scendono in piazza al Cairo e nel resto del paese al grido di «Pane e libertà». Chiedono le dimissioni del dittatore Hosni Mubarak, al potere ininterrottamente dal 1981.
1 febbraio 2011. In tv Mubarak promette di non candidarsi più alla presidenza ma rifiuta di dimettersi. Sono già centinaia i morti nella repressione.
11 febbraio 2011. Mubarak si dimette. La presidenza ad interim passa al Supremo Consiglio delle Forze Armate.
28 novembre 2011. Alle elezioni i Fratelli Musulmani ottengono la maggioranza.
16-17 giugno 2012. Al ballottaggio delle presidenziali, vince con il 51,73% il candidato della Fratellanza Musulmana, Mohammed Morsi. Il 30 giugno giura: Morsi è il primo islamista e il primo civile eletto presidente in Egitto.
12 agosto 2012. Morsi nomina il generale Abdel Fattah al-Sisi, ex capo dell’intelligence militare, suo ministro della Difesa.
22 novembre 2012. Il governo islamista emana decreti che attribuiscono alla presidenza poteri straordinari e immunità totale, provocando nuove proteste.
Aprile 2013. Nasce il movimento Tamarod («ribelle»): chiede nuove elezioni e chiama a manifestazioni di massa contro il governo dei Fratelli Musulmani.
20 giugno 2013. Dopo mesi di proteste, in occasione del primo anniversario dal giuramento di Morsi, milioni di egiziani scendono in piazza: 8 morti.
3 luglio 2013. L’esercito, guidato da al-Sisi, depone Morsi e lo mette ai domiciliari. La costituzione viene sospesa. I sostenitori di Morsi protestano contro il golpe.
14 agosto 2013. Il sit-in dei Fratelli Musulmani a Rabaa al Cairo è attaccato da polizia ed esercito. Un massacro: si stimano tra 800 e mille morti.
25 dicembre 2013. Il governo mette la Fratellanza Musulmana fuori legge.
26-28 maggio 2014. Presidenziali, l’ex generale al-Sisi è eletto con il 97%.
25 gennaio 2016. Il giovane ricercatore italiano Giulio Regeni scompare al Cairo. Il suo corpo, martoriato dalle torture, viene ritrovato il 3 febbraio lungo l’autostrada tra Il Cairo e Alessandria.
15 aprile 2016. In migliaia manifestano contro il trasferimento delle isole di Tiran e Sanafir, sul Mar Rosso, all’Arabia saudita. Sono le prime proteste di massa dall’insediamento di al-Sisi.
11 novembre 2016. Il Fondo Monetario Internazionale approva un prestito da 12 miliardi di dollari a favore dell’Egitto in tre anni, in cambio di riforme di austerity che nei mesi successivi colpiranno le fasce più deboli della popolazione, con un incremento stellare dei tassi di inflazione e di povertà.
8 aprile 2016. Alla luce dei numerosi depistaggi egiziani, l’Italia richiama a Roma l’ambasciatore in Egitto Massari.
14 agosto 2017. L’Italia nomina un nuovo ambasciatore nonostanze l’assenza di progressi nelle indagini sul caso Regeni. Cantini vola al Cairo il mese dopo.
2 aprile 2018. Al-Sisi viene rieletto con il 97% dei voti in elezioni farsa, senza reali avversari e con un’affluenza bassissima, al 41,5%.
4 dicembre 2018. La Procura di Roma iscrive nel registro degli indagati cinque cittadini egiziani, funzionari e vertici dei servizi di intelligence del Cairo.