il manifesto 25.1.19
Le pistole fumanti di al-Sisi le vendiamo noi
Italia/Egitto.
Secondo un rapporto Ue, nel 2017 Roma ha autorizzato la vendita di 7,5
milioni di euro in armi al Cairo e ne ha esportate 17,7 milioni. Nuovo
boom nel 2018. A metà gennaio al Copasir il procuratore Pignatone ha
denunciato lo stallo nelle indagini su Regeni. Ma ci sono i primi nomi
di Chiara Cruciati
Lo
scorso agosto, in veste di ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di
Maio volava al Cairo (terzo di una sfilza, dopo i ministri Moavero
Milanesi e Salvini). Con al-Sisi ha discusso dello sviluppo dei rapporti
commerciali ed economici tra i due paesi del Mediterraneo. Sono oltre
150 le aziende italiane attive al Cairo e l’interscambio nel 2017 ha
toccato quota 4,7 miliardi di euro (+2,5% rispetto al 2016) che fanno di
Roma il quinto esportatore in Egitto e il secondo importatore.
In
attesa dei dati del 2018, ad agosto Di Maio aveva individuato il
target: superare i 5 miliardi, soprattutto in vista della crescita
demografica egiziana e dell’avvio delle estrazioni di gas naturale da
parte dell’Eni nel mega giacimento sottomarino di Zohr. Tra i più
assidui frequentatori del palazzo presidenziale egiziano c’è Claudio
Descalzi, ad Eni e punta di lancia del business che avanza compatto.
In
tale contesto, la verità sull’omicidio di Giulio Regeni è d’intralcio.
Per tutti e tre i governi dal 2016 a oggi. Lo dice la Relazione europea
sull’export di armamenti, pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Ue
il 14 dicembre scorso: nel 2017 Roma ha autorizzato l’esportazione in
Egitto di 7.538.209 euro in armi mentre le aziende con licenza hanno
esportato 17.764.174 euro in forniture militari.
«Sia il governo
precedente che l’attuale – ci spiega Giorgio Beretta dell’Osservatorio
sulle Armi Opal di Brescia – hanno continuato a fornire armi al regime
di al-Sisi anche dopo l’omicidio di Giulio Regeni. Dalla Relazione Ue
risulta che nel 2017 il governo Gentiloni ha autorizzato l’esportazione
all’Egitto di armi leggere, agenti chimici e antisommossa e
apparecchiature elettroniche».
Nello specifico le licenze di
export hanno riguardato armi ad anima liscia (38.674 euro), munizioni
per armi leggere (3.599.536 euro), bombe, missili e siluri (18.250
euro), agenti chimici, biologici e antisommossa (2.848.921 euro) e
apparecchiature elettroniche e spaziali ( 852.828 euro).
«Sempre
nel 2017 il governo Gentiloni ha permesso forniture di materiali
militari all’Egitto per 17.764.174 euro – continua Beretta – superando
ampiamente le esportazioni negli anni precedenti all’omicidio Regeni.
L’attuale governo Conte non ha interrotto queste forniture». Lo dicono i
dati Istat: nel mese di luglio 2018 si è registrato il boom, quasi 2
milioni di euro di armi vendute da aziende italiane all’Egitto.
Ora
andrà seguito il probabile incremento dopo la fiera dedicata alla
produzione militare che New Cairo ha ospitato tra il 3 e il 5 dicembre:
sponsorizzata da esercito egiziano e presidenza della Repubblica, la
Expo Defence Egypt ha visto la partecipazione di oltre 300 espositori,
tra cui le italiane Beretta, Fincantieri, G&G, Iveco, Leonardo
(che ha già firmato un contratto per fornire radar per la difesa),
Telegi, Tesylab.
Un intreccio insano che fa il paio con le parole
che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha affidato dieci giorni
fa al Copasir: a tre anni dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, la
situazione investigativa è a un punto morto. L’Italia ha fatto tutto il
possibile, ha aggiunto il capo degli investigatori della Procura di
Roma, ma l’Egitto non collabora. Nulla di nuovo, Piazzale Clodio lo
ripete da anni, indefesso come indefesso è stato finora il lavoro per
giungere alla verità. L’omicidio – barbaro, inimmaginabile – di Giulio è
questo. Un ripetersi di frasi, dichiarazioni, prese di posizioni.
Granitiche nonostante le indagini abbiano dato un nome ad alcuni dei
suoi aguzzini e nonostante i palesi depistaggi egiziani.
Ogni
attore ripete la sua lezioncina: il governo italiano (qualunque esso
sia) continua a considerare Il Cairo del golpista al-Sisi, il più
brutale e disfunzionale regime che l’Egitto moderno abbia avuto,
«partner ineludibile» (l’ex ministro degli Esteri alfano) o «partner
speciale» (l’attuale vicepremier Di Maio). Il Cairo ripete che quello di
Giulio è «un caso isolato», che le autorità politiche e giudiziarie
egiziane sono impegnate al massimo nella ricerca della verità e che
comunque è tutto un complotto di agenti stranieri (o erano i Fratelli
Musulmani?) per minare gli storici rapporti tra i due paesi.
Ma
c’è un terzo attore, questo davvero ineludibile. Anche questo ribadisce,
dal 3 febbraio 2016, quando il corpo di Regeni fu ritrovato, identica
posizione. È quella parte di Italia che vuole verità e giustizia. La
famiglia di Giulio, le associazioni per i diritti umani, i cittadini, le
piazze dei comuni colorate di «giallo-Giulio». E poi la Procura di Roma
che è riuscita per quanto possibile a svicolare gli insabbiamenti del
regime e a mettere nero su bianco almeno cinque dei 20 (forse 40)
funzionari di polizia e servizi segreti coinvolti nel sequestro, la
tortura e l’uccisione del giovane ricercatore. Sono i vertici della
National Security Agency, la temibile agenzia di intelligence che ogni
egiziano conosce e che nemmeno Tahrir è riuscita a seppellire.
***
I numeri della repressione
20
giornalisti in carcere. Sono almeno 60mila i prigionieri politici e di
opinione nel paese 39 condanne a morte eseguite da dicembre 2017 a marzo
2018. 29 egiziani in attesa nel braccio della morte 1530 casi di
sparizioni forzate da luglio 2013, data del golpe, ad agosto 2018 3000
case distrutte in Sinai dall’esercito nel 2018 nella campagna
anti-islamista