il manifesto 25.1.19
La memoria di Giulio, qualcosa per cui vale la pena combattere
Ognuno,
come può, renda la memoria di Giulio «attiva». Per evitare che diventi
solo un rituale e per trasformare quel ricordo in lotta concreta a
favore dei diritti umani, ovunque nel mondo
di Federica Graziani, Luigi Manconi
Sono
trascorsi precisamente tre anni da quel crudele 25 gennaio 2016 che
registrò la scomparsa di Giulio Regeni dalla stazione Al Buhuth della
metropolitana del Cairo. Come tutti gli anniversari, anche questo
potrebbe avere il destino di stiepidire sotto una osservanza solo
rituale o potrebbe riempirsi di promesse e belle speranze, con il
risultato di essere una ricorrenza ossequiosa e vuota insieme.
La
distanza delle date che, giorno dopo giorno, si avvicendano con il loro
cumulo di fatti rischia insomma di separarci sempre di più dalla vicenda
materiale di Giulio Regeni, sbiadendone il ricordo e illanguidendone
l’urgenza. Come evitarlo? Un modo è quello di porsi questa domanda: a
distanza di trentasei mesi dalla scomparsa di Regeni, che cosa è
cambiato?
Verrebbe da dire: quasi nulla, se consideriamo
esclusivamente il piano politico-diplomatico e istituzionale. Ancora
oggi non ci sono stati quei «nuovi e importanti progressi nella
cooperazione tra organi investigativi sul caso Regeni».
Quei
«progressi» evocati nelle primissime dichiarazioni dell’attuale governo
appena insediato e che, secondo quello stesso governo, sarebbero stati
ottenuti in virtù del «graduale rafforzamento del dialogo bilaterale con
le autorità egiziane». Sul versante delle indagini, non sono emerse
novità decisive e l’azione diplomatica, nonostante il rientro
dell’ambasciatore deciso dal precedente esecutivo, non ha ottenuto
finora risultati concreti producendo di fatto tre anni di stallo. Ma se
guardiamo altrove, nelle pieghe della società italiana, si rintraccerà
altro.
Certo, non si pretende qui di dettare l’agenda delle
prossime azioni diplomatiche dei due governi, né di modificare la
politica estera italiana di ordire l’architettura perfetta di un piano
che porti allo smantellamento completo del regime dispotico egiziano. E,
d’altro canto, non si sottovaluta neanche la miriade di esperienze
quotidiane che formano gli affanni e i pensieri di tutti i giorni, di
tutti noi.
Quel che chiediamo in questa giornata è di continuare a
scavare un sentiero alla ricerca della verità. Ognuno come può. C’è chi
ricopre ruoli istituzionali e ha il dovere e i mezzi per aprire quei
varchi politico-diplomatici che reclamino senza ombre l’accertamento
delle responsabilità giudiziarie nella sparizione, nella tortura e
nell’uccisione di Giulio Regeni. E c’è chi può partecipare a una delle
tante iniziative promosse quest’oggi in diverse città italiane o
limitarsi a indossare il braccialetto giallo che reca la frase «Verità
per Giulio Regeni».
Accostare due capacità tanto distanti di
intervento e di adesione a quella ricerca di giustizia sembra un
espediente beffardo e irriverente. Eppure sono due risposte alla stessa
presenza di quel nome, e di ciò che evoca di sofferenza e di male
assoluto. Ma il nome di Giulio Regeni evoca anche enormi questioni di
diritto e di libertà. Siamo eredi di questa ricchezza incalcolabile, di
un patrimonio che tiene insieme la tutela irrinunciabile della persona,
della sua incolumità e della sua dignità e la lotta per affermare i
diritti umani, ovunque: nei regimi totalitari così come all’interno
degli stati democratici.
L’ultima canzone che Giulio Regeni ha
ascoltato prima di scendere le scale della metropolitana del Cairo tre
anni fa è A Rush of Blood to the Head, dei Coldplay. Un verso di quella
canzone dice: «Se mi puoi dire qualcosa per cui vale la pena
combattere». La figura, densa di vita, che ricordiamo oggi e il calvario
di dolore che lo ha ucciso e che continua a uccidere centinaia su
centinaia di egiziani non smette di suggerirci quel qualcosa per cui
vale la pena combattere.