il manifesto 25.1.19
Comunismo «assassino»
Sinistra.
Ragionare sui «comunismi» e sulla vicenda del Pci, ed in particolare sui
modi della sua fine, significa riflettere sulla nostra realtà di oggi e
sul becerume di Salvini
di Paolo Favilli
Sono
completamente d’accordo con l’articolo di Luciana Castellina pubblicato
il 18 gennaio su questo giornale. Non penso, tuttavia, che ci si debba
stupire delle affermazioni di Salvini su Battisti «assassino comunista» e
sulla lista di intellettuali «criminali ideologici» stilata da
Veneziani. Salvini e Veneziani fanno semplicemente il loro mestiere e
nella logica del mestiere che cos’altro potrebbero dire, quando
l’obbiettivo è quello di far dimenticare che alla base dell’odierna
barbarie ci sono le logiche che veramente contano: quelle
dell’accumulazione del capitale in assenza di antitesi. Ed anche il
fatto che lo facciano con linguaggio e palesi simpatie fascisteggianti è
del tutto coerente con lo spirito del tempo e con il loro modo di
essere.
SALVINI, è un trasformista, un cane da guardia che usa
tutti i mezzi per sollecitare il «popolo» impoverito a fare barriera per
difendere coloro che lo impoveriscono. Un cane che si trasforma in
«sciacallo» (copyright Saviano) politico per mordere dove, a suo parere,
c’è odore di morte. Dove però, se la morte non è certificata (da chi?),
c’è la possibilità di una ripresa di discorsi e pratiche davvero
demistificanti.
Veneziani è un pubblicistica che non ha nessuna
idea di che cosa siano gli studi seri, d’altra parte non li ha mai
praticati, e quindi gli «strafalcioni» sono elemento normale della sua
retorica. Alcuni dei nomi della lista da lui stilata sono e resteranno
punti fermi della grande cultura del Novecento, mentre le righe
tracciate dal Veneziani stanno già rotolando nel brusìo indistinto del
dimenticatoio.
MA ANCHE DI CIÒ perché stupirsi. Gli
«strafalcioni», risultato di ignoranza, cialtronismo, uso della
dimensione più volgare dell’ideologia, sono la realtà con cui conviviamo
da quasi trent’anni. Gli esponenti politici che hanno avuto ed hanno i
ruoli più alti nelle istituzioni repubblicane, (Bossi, Berlusconi,
Renzi, Salvini, Di Maio) sono stati, e sono, la rappresentanza più
chiara del binomio ignoranza-cialtronismo, tradotto in comunicazione
(propaganda).
INOLTRE, perché chi esercita il potere considerando
assolutamente naturale la dinamica del rapporto economico-sociale
profondo alla base degli attuali processi di polarizzazione
ricchezza/miseria che si riverbera su tutte le pieghe dei rapporti
sociali, dovrebbe pensare alla storia dei «comunismi» con un minimo di
rigore? I «comunismi», anche quelli più diversi tra loro, non hanno
forse avuto la loro ragione storica nella critica al modo di produzione
capitalistico? Ed allora è del tutto ragionevole bastonare il cane che
affoga; almeno per un po’ non ci saranno alternative, come diceva
Margaret Thatcher.
Del resto coloro che nei «comunismi» si sono
formati politicamente, ad esempio in quel Partito comunista italiano la
cui importanza e prestigio internazionale è impossibile negare, come
hanno pensato alla loro storia? Semplicemente non l’hanno pensata.
L’hanno rimossa nel migliore dei casi, oppure se ne sono pentiti.
Pentiti davvero anche quando dicono di non esserlo, perché di fatto
riducono la loro militanza giovanile ad una esperienza «sentimentale».
Si rappresentano, in sostanza, sostituendo il termine «comunista» a
quello «socialista», tramite il celebre aforisma (di Oscar Wilde? di
Winston Churchill?) secondo il quale «se non si è socialisti a vent’anni
si è senza cuore, se lo si è ancora a quaranta si è senza cervello». Un
aforisma che in fondo potrebbe fare suo pure l’antico «comunista
padano» Matteo Salvini, ed ovviamente, come ha scritto poco prima della
fondazione del Pd un giornalista colto, «anche Massimo D’Alema e Walter
Veltroni» (S. Romano, «Corriere della Sera», 10 ottobre 2007).
IL
DEPUTATO del Pd Morassut, nell’argomentare il suo non pentitismo per non
aver militato in gioventù nel Pci («il manifesto», 17 gennaio), ci dà
invece chiara dimostrazione del «pentimento reale». «Oggi parlare del
Pci è fuori luogo o al meglio è nostalgia», afferma il deputato.
NON
È VERO. Ragionare sulla vicenda del Pci, ed in particolare sui modi
della sua fine, significa riflettere storicamente sulla nostra realtà di
oggi. Anche sulle ragioni per cui Salvini e i suoi corifei possano
esercitare il suddetto becerume propagandistico in assenza di una
contrapposizione analitica forte relativa alle radici di questo tipo di
anticomunismo.
Come ragionano sulla loro militanza comunista i
Morassut, i Veltroni, i Fassino. ecc., quei giovani dirigenti del Pci
che nel 1991 hanno preteso di «guardare avanti» e sono stati invece
protagonisti del «grande balzo all’indietro»? Ebbene erano nel Pci, ma
non erano veramente comunisti. Erano nel Pci perché quel partito era
decisamente schierato contro il terrorismo e «il capo dei comunisti era
Enrico Berlinguer». E poi nella cultura di quel partito c’erano Labriola
e Gramsci, marxisti antidogmatici.
MA BERLINGUER non era un
comunista à la carte. Era un comunista moderno, certo, ma di una
concezione della modernità antitetica a quella di cui erano portatori,
negli anni Ottanta, Craxi, Berlusconi e molti altri anche nel Pci. La
sua diversa modernità era saldamente ancorata all’uso delle categorie
connesse alla critica dell’economia politica, senza le quali il termine
comunista rimane un puro flatus vocis. Gramsci poi, il pensatore
italiano più tradotto e studiato nel mondo dopo gli italiani del
Rinascimento, era addirittura un comunista del Comintern, insomma «un
criminale ideologico». Senza parlare di Labriola che ben prima
dell’esistenza delle scissioni che avrebbero dato luogo ai partiti
comunisti, definiva se stesso, in virtù dell’uso della metodologia de Il
capitale, un «comunista critico».
L’ABBANDONO, anzi il rifiuto,
di questo nocciolo duro metodologico, vero elemento unificante di una
storia complessissima e fortemente diversificata come quella dei
«comunismi», significa una modifica sostanziale dello sguardo su quella
storia.
Se si toglie il momento fondante dell’antitesi dalla
storia dei «comunismi», dalla storia del Pci, si tolgono le pratiche
politiche organizzative attraverso cui in quella storia ci sono i punti
più alti dell’emancipazione umana, insieme all’orrore della disumanità.
È
esattamente quello che hanno fatto coloro che dicono di essere stati
nel Pci, anche al vertice del Pci, «senza essere comunisti» (Veltroni,
«La Stampa», 16 ottobre 1999). Quella storia dimidiata, allora, diventa
solo una storia di sangue, ed il sangue, si sa, attira gli sciacalli.