giovedì 24 gennaio 2019

il manifesto 24.1.19
Guaidó giura da «presidente», Venezuela verso il disastro
Prove di golpe. Prova di forza in piazza del leader dell’Assemblea nazionale. Sponsor Usa e Colombia
di Roberto Livi


L'AVANA Giornata di grande tensione ieri a Caracas nelle cui strade governo e opposizione sono tornati a misurare le proprie forze in un ambiente surriscaldato nei giorni scorsi da una breve sollevazione di 40 militari, seguita da due atti di sabotaggio contro la presidenza di Nicolás Maduro e da manifestazioni violente – guarimbas – avvenute nella notte di martedì nella periferia nord della capitale e in alcune città che, secondo l’opposizione, hanno causato quattro morti.
LA MARCIA ANTIGOVERNATIVA è stata convocata dal neopresidente dell’Assemblea nazionale (An) – controllata dall’opposizione e da due anni inabilitata politicamente dal Tribunale superiore, che ieri ha accusato An di azioni «anticostituzionali» – Juan Guaidó. Il quale ha incitato militanti e militari a una manifestazione apertamente isurrezionale: «Abbiamo un appuntamento storico col nostro paese… militari, abbiamo un appuntamento storico con il popolo», ha scritto nel suo appello alla mobilitazione nell’anniversario della caduta (nel 1958) della dittatura di Marcos Pérez per «conquistare Caracas».
Ieri mattina migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade nella capitale e in altre città del paese al grido di Este gobierno va a caer (Questo governo cadrà). Concentrazioni a favore del governo Maduro erano invece in corso nel centro di Caracas e in tutto il paese mentre le forze di sicurezza erano schierate e in allerta.
Guaidó si era rifiutato di riconoscere la validità del secondo mandato presidenziale di Maduro lo scorso 10 gennaio e ha formato un governo alternativo a quello bolivariano, subito riconosciuto dagli Usa, dal gruppo di Lima -12 paesi latinoamericani meno il Messico che ha preso le distanze – e da Canada e Ecuador (dove da giorni sono in corso manifestazioni xenofobe contro immigrati venezuelani). Ma ieri è andato oltre: nel corso della manifestazione ha prestato giuramento come «presidente incaricato» della Repubblica bolivariana del Venezuela. E dalla Casa bianca, sempre via Twitter, il presidente Donald Trump si è apprestato a riconoscerlo «presidente ad interim», incurante del rischio di innescare una guerra civile nel paese.
È LA TERZA VOLTA negli ultimi due anni che l’An dichiara di non riconoscere la legalità delll’investitura presidenziale e chiama alla mobilitazione per abbattere con la forza il governo eletto. La ripetizione della storia in questo quadro non genera una farsa, ma prepara il terreno per una nuova tragedia: il tentativo insurrezionale avviene infatti in un quadro internazionale nel quale da mesi è stata ventilata la possibilità di un intervento militare «umanitario» esterno «per restaurare la democrazia». O di un colpo di stato che avrebbe – sempre per ragioni «umanitarie» – l’appoggio degli Usa e dei governi di destra latinoamericani.
CON L’INSEDIAMENTO IN BRASILE – il primo gennaio- del presidente Jair Bolsonaro era prevedibile un attacco concentrato contro il Venezuela bolivariano, ormai circondato ai suoi confini da governi di destra radicale, Brasile e Colombia, e dall’ostile Guyana.
Uno scenario questo preparato dal segretario di Stato Usa, James Mattis, nel corso di una delicata missione in America latina nell’agosto dell’anno passato con il compito di riconquistare degli Stati uniti. In Brasile Mattis ha posto le basi perché il gigante sudamericano recuperi il ruolo di potenza subimperialista (secondo la famosa tesi di Ruy Mauro Marini, o di «satellite privilegiato» degli Usa, come più pragmaticamente lo definì Henry Kissinger), con il compito di «combattere il comunismo» e imporre un’economia neoliberista. Compito che fu svolto egregiamente dal Brasile durante la dittatura militare (1964-85).
In Colombia invece, nel corso della visita di Mattis, fu ventilata la possibilità di un intervento armato «umanitario» per «ristabilire democrazia e libertà» in Venezuela. Intervento addirittura reclamato pochi giorni dopo dal segretario dell’Organizzazione degli stati americani (Oea), Luis Almagro in visita a una zona di confine col Venezuela.
A livello internazionale il pericolo maggiore viene dalla Colombia. Il presidente Iván Duque – e il suo patron politico, l’ex presidente Alvaro Uribe – sembra disposto a cavalcare un’escalation col Venezuela per fare marcia indietro rispetto agli accordi di pace siglati dal suo predecessore con l’ex guerriglia delle Farc e mai approvati dall’estrema destra di Uribe.
Da mesi è stata costruita una narrazione – ripresa da politici e media dell’opposizione in Venezuela – sulle protezioni che Maduro garantirebbe in territorio venezuelano a gruppi armati colombiani e sono state denunciate supposte incursioni militari dal lato venezuelano.
L’ATTENTATO contro la scuola di polizia a Bogotà (21 morti) attuato la scorsa settimana dal movimento guevarista guerrigliero Esercito di liberazione nazionale (Eln) è stata la classica provocazione attesa dal governo di Duque per dare drammaticità ai suoi piani. E per coinvolgere anche Cuba in una situazione di pericolosa tensione con le destre al governo in America latina e soprattutto con i falchi dell’Amministrazione Trump. Il presidente colombiano non solo ha accusato Maduro di proteggere «i terroristi» dell’Eln, ma ha ingiunto al governo dell’Avana di consegnargli i membri delle delegazione dell’Eln che da più di un anno sono a Cuba impegnati in trattative per un accordo di pace col governo colombiano. Trattative che sono state congelate – per non dire rotte – dallo stesso Duque subito dopo aver assunto la presidenza lo scorso luglio.
IL GOVERNO CUBANO si è dichiarato contrario a «qualsiasi atto di terrorismo», ma ha sostenuto che rispetterà le clausole stabilite dai protocolli in caso di rottura delle trattative di pace, che non prevedono la consegna a Bogotà dei dieci membri della delegazione dell’Eln.