giovedì 24 gennaio 2019

Corriere 24.1.19
La forza e l’azzardo di Salvini
I migranti e una strategia che non può funzionare
È necessario mettere le premesse affinché 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare.
di Goffredo Buccini


L’ennesimo scontro sui migranti, stavolta generato dallo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto, aiuta a definire meglio l’approccio di Matteo Salvini e dei suoi avversari sulla questione più sensibile almeno per due italiani su tre.
Attorno al centro d’accoglienza alle porte di Roma le opposizioni stanno levando alte barricate ideologiche e, in un nuovo slancio autolesionista, da sinistra si è giunti a evocare il nazismo e i pogrom. Chi non è del tutto privo di memoria ricorderà però che la chiusura dei Cara era obiettivo dichiarato, benché mai colto, dei governi a trazione Pd. Per motivi ragionevoli. Troppo grandi, costosi e malgestiti, nati come snodo di passaggio verso gli Sprar (i centri di seconda accoglienza) ma sempre usati in modo improprio (i richiedenti asilo restano in attesa per anni, a Castelnuovo si narrava di una bambina egiziana che vi fece l’intero ciclo delle elementari), spesso fonti di scandalo: il Cara di Crotone è finito sotto la ‘ndrangheta, quello di Mineo è stato un volano di voti di scambio, su Castelnuovo aveva messo gli occhi persino Buzzi, pur non riuscendo a concludere. Si sostiene che il Cara romano fosse un modello di integrazione: con quasi seicento ospiti (e a tratti più di mille) è difficile crederlo.
La forza di Salvini sta dunque qui, nello strappo «barbarico» che lo spinge dove la sinistra non osa. Come con l’azzardo estremo della chiusura (nominale) dei porti, che ha svelato tanta ipocrisia europea e che però si sta riproponendo in queste ore con la nuova odissea di una nave Sea Watch e 47 profughi, così il vicepremier leghista strappa sui Cara. Solo che da qui cominciano i problemi. Perché chiudere Castelnuovo di botto, con un blitzkrieg , è un’avventura sciagurata in quanto, oltre a colpire diritti soggettivi, mette per strada almeno un quinto degli ospiti. La pattuglia degli Invisibili si ingrossa ulteriormente e le cose andranno peggio nei prossimi mesi con la cacciata progressiva dai centri di chi non ha più la protezione umanitaria ma non può essere rimpatriato in mancanza di accordi coi Paesi d’origine: a migliaia (130 mila in due anni secondo l’Ispi) finiranno nel limbo dei né espulsi e né accolti, in mano alla criminalità.
Dunque la forza di Salvini è anche la sua debolezza, la filosofia della guerra lampo lo imprigiona. Temendo di essere raggiunto da problemi insolubili prima di incassare il dividendo elettorale promesso dai sondaggi, il vicepremier procede per strattoni e fughe in avanti. Si tratta invece di cambiare paradigma: un problema che non riguarda solo lui o il suo governo ma noi europei nell’insieme. Lungimiranti come gattini ciechi, ci siamo ridotti in 500 milioni a litigare su chi apre o chiude i porti a qualche centinaio di profughi sulle navi Ong, mentre l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ci spiegava che in tutto il pianeta 68,5 milioni di persone nel solo 2017 sono state in fuga da guerre e persecuzioni. La zona più critica di questo disordine mondiale è l’Africa: sono 29 gli Stati coinvolti in guerre o guerriglie e 259 le milizie dal Burkina-Faso al Sudan, dalla Nigeria al Congo alla Somalia e, ovviamente, alla Libia che, al momento, non è neppure più uno Stato (dunque non si capisce in base a quale finzione possa essere titolare di una zona Sars, Search and Rescue, dove infatti non si viene salvati ma condotti a morte). Il summit di Ouagadougou ha previsto che nel 2030, causa desertificazione, saranno 135 milioni i «profughi climatici» e di essi 60 milioni saliranno dall’Africa subsahariana al Nord Africa e (infine) all’Europa. Di fronte a questi dati enormi appaiono assai miopi due visioni.
La prima, della destra sovranista, riduce migrazioni bibliche a epifenomeno di un fenomeno criminale: il traffico di esseri umani degli scafisti con la «complicità» di alcune Ong. Sostenere che fermate le Ong si fermino i viaggi è contraddetto dalla realtà (arrivano tuttora boat people a Lampedusa): l’unico risultato è tornare a prima del 2013 e di Mare Nostrum, con più naufragi e morti. La seconda visione, tuttavia, è altrettanto fuorviante, ed è quella irenica della sinistra altermondista: mentre accogliamo tutti basta aprire relazioni amichevoli, insegnare mestieri sul posto e sarà fatta, gli africani si riscatteranno da soli. Non è così. E non solo perché, ovviamente, non possiamo accogliere tutti, pena conflitti sociali ingestibili. Il primo passo, perché questo sogno di riscatto sia reale, è garantire dalle varie Boko Haram, Ansar al-Shari’a e milizie criminali assortite i nostri tecnici, maestri, medici: significa essere disposti a combattere. Il secondo passo è evitare che gli investimenti umanitari finiscano nei conti offshore dei mille dittatorelli locali. Per questo le liti con i tedeschi sulla missione Sophia o coi francesi sul loro presunto neocolonialismo sono nocive per tutti: il piano Marshall africano di cui parla Antonio Tajani ha senso solo se siamo in grado di seguire e proteggere quei miliardi di euro; un esercito comune europeo, domani, ci sarebbe necessario almeno quanto una vera unione bancaria.
Nell’immediato i soccorsi sono doverosi. Ma più doveroso ancora, per governi europei degni di questo nome, sarebbe mettere adesso le premesse perché, domani, 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare. Se non lo si usa come uno slogan diventa un impegno gravoso, forse troppo. E però la strada graduale è l’unica seria. Perché i blitzkrieg hanno un difetto esiziale: alla lunga vengono sopravanzati dalla realtà e dalla storia.