il manifesto 23.1.19
Tra i Rohingya in fuga dagli hindu indiani
L'odissea
dei Rohingya. Parte della minoranza etnica perseguitata in Myanmar è in
Bangladesh: il pugno duro dell’India di Modi li ha trasformati in
apolidi
di Giuliano Battiston
COX BAZAR
(BANGLADESH) Nel campo profughi di Balukhali la vita scorre come da
molti mesi a questa parte. C’è chi fa la coda per ricevere un pacco di
aiuti, chi va a scuola o in moschea, chi fa la spesa nei tanti
negozietti sorti come funghi, chi zappa, chi costruisce nuove strutture
in mattoni, chi mastica betel.
Siamo in Bangladesh, nel distretto
di Cox Bazar, in uno dei campi che dal settembre 2017 accolgono – prima
nella fase dell’emergenza, ora sempre più in quella che sembra una
«stabilità sospesa» – almeno 900.000 Rohingya.
COSTRETTI A FUGGIRE
dal confinante Myanmar perché perseguitati, vivono nell’attesa di poter
tornare a casa, ma senza timore di essere uccisi. Allungando lo sguardo
sulle colline spolpate degli alberi che fino a due anni ricoprivano
l’area, solo case su case, basse, in legno di bambù e tetti di plastica.
Senza interruzioni.
Molte colline più in là, nel campo di
Kutupalong è in corso una protesta. Un gruppetto di donne issa uno
striscione e chiede a gran voce il rilascio degli uomini detenuti a
Gedda, in Arabia saudita. Nelle carceri del regno dei Saud ci sono
centinaia e centinaia di Rohingya, accusati di aver violato le leggi
sull’immigrazione. Temono di essere deportati, come già successo
recentemente a qualcuno.
La stessa preoccupazione c’è in India. Il
4 ottobre scorso 7 Rohingya sono stati deportati in Myanmar, dal posto
di confine di Moreh, nello stato indiano di Manipur.
È STATO IL
PRIMO SEGNO della nuova politica del governo di Narendra Modi: nessuna
tolleranza per i Rohingya, ritenuti un pericolo, una minaccia
all’integrità culturale e religiosa di un Paese che il primo ministro
sogna soltanto hindu. E una buona carta da giocare nelle elezioni del
prossimo aprile per mobilitare l’elettorale più nazionalista.
Dal
rimpatrio di ottobre, per i circa 40.000 Rohingya che vivono in India
sono seguiti mesi di soprusi, abusi da parte delle forze di polizia e
dell’intelligence, arresti arbitrari, pressioni affinché lasciassero il
Paese. C’è chi l’ha fatto: sarebbero 1.300 quelli che negli ultimi mesi,
temendo di essere rispediti in Myanmar, hanno lasciato l’India per il
Bangladesh. Sei uomini, nove donne e sedici bambini non ce l’hanno
fatta. I 31 Rohingya hanno vissuto per anni nello stato indiano di Jamnu
e Kashmir. Con in mano un documento di riconoscimento rilasciato loro,
come ad altri 16.500 Rohingya, dall’agenzia dell’Onu per i rifugiati,
pensavano di essere al sicuro.
MA PER IL GOVERNO DI MODI quei
documenti sono carta straccia. I nazionalisti hindu invocano il pugno
duro contro i «musulmani Rohinghya amici dei terroristi e spacciatori di
droga», e Modi intende capitalizzare il malcontento. Il clima è
cambiato: da qui la decisione che i 31 Rohingya – e prima di loro molto
altri – hanno preso di partire per il Bangladesh. Da venerdì scorso fino
a ieri sono rimasti intrappolati nella terra di nessuno che divide
India e Bangladesh.
INUTILI I COLLOQUI tra i rappresentanti dei
due paesi. Nessuna soluzione, se non quella dell’arresto da parte delle
forze di sicurezza dello stato di Tripura. Per New Delhi sono un
pericolo e una scocciatura.
L’India ha tergiversato a lungo sulla
questione-Rohingya. Poche e tardive le posizioni ufficiali a favore
della minoranza musulmana del Rakhine. C’erano i rapporti diplomatici
con il Myanmar da mantenere. A dispetto dell’iniziale sostegno
umanitario nei campi profughi, qui a Cox Baxar, l’India non ha giocato
il ruolo che il Bangladesh si aspettava. Che lo faccia ora, è
improbabile.
New Delhi ha scelto il pugno duro contro i Rohingya,
profughi trasformati in apolidi. Lo stesso metodo adottato in Arabia
saudita: l’8 gennaio le autorità saudite hanno deportato in Bangladesh
13 Rohingya che vivevano da anni del regno dei Saud, colpevoli di aver
violato le leggi sull’immigrazione. Altri sono trattenuti da giorni nei
cambi di detenzione di Gedda. Alcuni di loro hanno cominciato uno
sciopero della fame. Qui nei campi profughi, nel distretto di Cox Baxar,
la vita scorre come sempre, ma oggi c’è chi manifesta per loro.