il manifesto 23.1.19
Salute mentale, la parola alla Consulta
di Daniele Piccione
Questa
attuale è una stagione crudele in cui domina il diritto penale
dell’emotività. Esso alimenta equivoci. Il più pericoloso risiede
nell’equazione tra certezza della pena ed esecuzione della misura
privativa della libertà in carcere. Eppure, chi conosce il carcere per
ragioni professionali o di studio sa che la pena intramuraria è
criminogena. Determina spinte antitetiche rispetto al comando
dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere
alla rieducazione del condannato.
La permanenza in carcere recide i
legami sociali di appartenenza e indirizza alla recidiva. Questo banale
rilievo trova un moltiplicatore severo nel volto che il carcere sta
assumendo negli ultimi mesi.
È allora inevitabile tornare a
parlare della tragica amputazione del corpo di riforme del sistema
penitenziario strozzate nella culla, pur dopo essere giunte a un passo
da un varo che si attendeva da un quarantennio. Tra le pieghe dei
decreti legislativi elaborati dalle Commissioni nominate dall’allora
Ministro della Giustizia, vi era un ampio progetto di tutela della
salute mentale delle persone sottoposte a pena.
Ed è proprio
questa ad essere risultata la più dolorosa tra le soppressioni: quella
ai danni di una riforma progressista per cui la migliore cultura
giuridica si era spesa senza riserve, dall’indomani del 1978, in cui si
abolirono gli ospedali psichiatrici provinciali, fino agli Stati
Generali dell’esecuzione penale con cui si intendeva umanizzare e
sviluppare la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975.
Di
fronte ad una situazione disumana dimostrata dai dati relativi alla
sofferenza psichica nelle carceri, si rivela dirompente e lancinante
l’incompatibilità tra salute mentale e stato di cattività. Per sanare
questa ferita, le Commissioni ministeriali avevano elaborato tre linee
di intervento: il rinvio facoltativo della pena nei riguardi di persone
affette da gravi infermità psichiche; l’ideazione di nuovi modelli di
misure alternative terapeutiche non coercitive; la previsione di sezioni
specializzate ad esclusiva gestione sanitaria, per i detenuti con
infermità mentale sopravvenuta.
Sarebbe dovuta essere la riforma
complementare e di definitivo perfezionamento, dopo la chiusura degli
Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ma un tratto di penna è bastato a
vanificare uno slancio riformatore che aveva visto partecipi il
Consiglio Superiore della Magistratura, la psichiatria di territorio,
autorevoli penalisti e costituzionalisti, una vasta rete di giudici di
sorveglianza, intellettuali e operatori sociali uniti con l’avvocatura.
Per
fortuna si profila, nelle prossime settimane, un’opportunità decisiva
per rendere più umano il nostro trattamento penitenziario. La Corte
Costituzionale si pronuncerà su una questione di legittimità, sollevata
coraggiosamente dalla Corte di Cassazione, in materia di trattamento del
detenuto che vive l’esperienza del disturbo mentale. Se la questione
prospettata dai giudici di legittimità fosse accolta, si potrà estendere
la misura alternativa della detenzione domiciliare in luogo di cura,
già ammessa per coloro che soffrono di malattie fisiche, anche ai
detenuti affetti da una grave infermità psichica. Si tornerebbe, così,
alla preziosa e colta intuizione che fu di Franco Basaglia: non si può
curare il disturbo mentale tra le mura delle istituzioni totali.
Questa
è soltanto una delle molte ragioni per cui guardare con speranza alla
decisione della Corte Costituzionale attesa per il prossimo febbraio. In
caso di accoglimento della questione, si incrinerebbe il dogma del
«tutto dentro il carcere e niente fuori»; si dissiperebbero alcune tra
le ombre più inquietanti che percorrono questo nostro inverno segnato
dai venti securitari e dal ritorno al cieco sorvegliare e punire.