mercoledì 23 gennaio 2019

il manifesto 23.1.19
Salute mentale, la parola alla Consulta
di Daniele Piccione


Questa attuale è una stagione crudele in cui domina il diritto penale dell’emotività. Esso alimenta equivoci. Il più pericoloso risiede nell’equazione tra certezza della pena ed esecuzione della misura privativa della libertà in carcere. Eppure, chi conosce il carcere per ragioni professionali o di studio sa che la pena intramuraria è criminogena. Determina spinte antitetiche rispetto al comando dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
La permanenza in carcere recide i legami sociali di appartenenza e indirizza alla recidiva. Questo banale rilievo trova un moltiplicatore severo nel volto che il carcere sta assumendo negli ultimi mesi.
È allora inevitabile tornare a parlare della tragica amputazione del corpo di riforme del sistema penitenziario strozzate nella culla, pur dopo essere giunte a un passo da un varo che si attendeva da un quarantennio. Tra le pieghe dei decreti legislativi elaborati dalle Commissioni nominate dall’allora Ministro della Giustizia, vi era un ampio progetto di tutela della salute mentale delle persone sottoposte a pena.
Ed è proprio questa ad essere risultata la più dolorosa tra le soppressioni: quella ai danni di una riforma progressista per cui la migliore cultura giuridica si era spesa senza riserve, dall’indomani del 1978, in cui si abolirono gli ospedali psichiatrici provinciali, fino agli Stati Generali dell’esecuzione penale con cui si intendeva umanizzare e sviluppare la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975.
Di fronte ad una situazione disumana dimostrata dai dati relativi alla sofferenza psichica nelle carceri, si rivela dirompente e lancinante l’incompatibilità tra salute mentale e stato di cattività. Per sanare questa ferita, le Commissioni ministeriali avevano elaborato tre linee di intervento: il rinvio facoltativo della pena nei riguardi di persone affette da gravi infermità psichiche; l’ideazione di nuovi modelli di misure alternative terapeutiche non coercitive; la previsione di sezioni specializzate ad esclusiva gestione sanitaria, per i detenuti con infermità mentale sopravvenuta.
Sarebbe dovuta essere la riforma complementare e di definitivo perfezionamento, dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ma un tratto di penna è bastato a vanificare uno slancio riformatore che aveva visto partecipi il Consiglio Superiore della Magistratura, la psichiatria di territorio, autorevoli penalisti e costituzionalisti, una vasta rete di giudici di sorveglianza, intellettuali e operatori sociali uniti con l’avvocatura.
Per fortuna si profila, nelle prossime settimane, un’opportunità decisiva per rendere più umano il nostro trattamento penitenziario. La Corte Costituzionale si pronuncerà su una questione di legittimità, sollevata coraggiosamente dalla Corte di Cassazione, in materia di trattamento del detenuto che vive l’esperienza del disturbo mentale. Se la questione prospettata dai giudici di legittimità fosse accolta, si potrà estendere la misura alternativa della detenzione domiciliare in luogo di cura, già ammessa per coloro che soffrono di malattie fisiche, anche ai detenuti affetti da una grave infermità psichica. Si tornerebbe, così, alla preziosa e colta intuizione che fu di Franco Basaglia: non si può curare il disturbo mentale tra le mura delle istituzioni totali.
Questa è soltanto una delle molte ragioni per cui guardare con speranza alla decisione della Corte Costituzionale attesa per il prossimo febbraio. In caso di accoglimento della questione, si incrinerebbe il dogma del «tutto dentro il carcere e niente fuori»; si dissiperebbero alcune tra le ombre più inquietanti che percorrono questo nostro inverno segnato dai venti securitari e dal ritorno al cieco sorvegliare e punire.

La Stampa 23.1.19
Mondoperaio, quando la politica era cultura
di Fabio Martini


C’era un tempo in cui la politica era anche battaglia delle idee, idee alimentate dallo studio analitico dei problemi, anziché risolte con un tweet e con un post. Per decenni, grandi moltiplicatori di idee divennero le riviste, animate da minoranze intellettuali - nazionaliste, comuniste, cattoliche, laiche - che influenzarono profondamente la politica. Di una di queste, Mondoperaio, è stato ricordato il 70° compleanno con un numero speciale e un convegno al quale sono intervenuti l’attuale direttore Luigi Covatta, Giuliano Amato, Paolo Mieli, Enrico Morando. Due occasioni nelle quali si è ricordato in particolare la stagione più feconda della rivista, fondata da Pietro Nenni nel 1948: quella tra il ’75 il ’79.
Allora, un nutrito gruppo di intellettuali simpatizzanti del Psi ma non organici - come Norberto Bobbio, Massimo Salvadori, Paolo Sylos Labini, Giuliano Amato, Luciano Cafagna, Lucio Colletti, Gino Giugni, Federico Mancini, Stefano Rodotà - contribuirono alla modernizzazione della cultura politica della sinistra con una serie di articoli fuori dal mainstream. Era un tempo nel quale - come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, uno dei protagonisti di quella stagione - «c’erano ancora i partiti, quelli veri, quelli che avevano fatto la storia del Paese, ma il futuro sembrava sorridere solo a uno di loro, al partito comunista».
Sotto la direzione di un intellettuale schivo come Federico Coen, furono dissacrati totem come Gramsci, Togliatti e Marx, si sostenne il dissenso dell’Est europeo, furono «riscoperti» personaggi come Rosselli e Bernstein. Craxi, che inizialmente comprese l’utilità di lasciare la briglia sciolta a intellettuali così controcorrente, per qualche anno incoraggiò l’esperienza, poi diventò freddo.
Polemiche taglienti, quelle di Mondoperaio, ma che mai puntarono alla delegittimazione personale e intellettuale degli avversari. Una misura, nella critica agli avversari, che derivava da una tradizione libertaria tipicamente socialista e che aveva resistito anche negli anni della guerra fredda. Quella ritrosia a trasformare la polemica politica in polemica personalizzata, tipica di stagioni più recenti, è stata spiegata da Giuliano Amato con una ragione in più: «Allora c’era un crinale sacro: mentre i fascisti attaccavano le persone, per noi anche la persona più sgradevole era da attaccare per le sue idee. Oggi si è perso il senso di quel crinale, perché abbiamo perso il senso di ciò che è fascista, perché ciò che è fascista è entrato nella vita corrente della politica e della cultura politica italiana. E questa è una cosa grave».

Il Fatto 23.1.19
Gad Lerner
“Chi partiva dagli operai è finito con Marchionne”
Parla il giornalista - Con tante scuse
di Silvia Truzzi


“Lino Banfi sarebbe popolo o élite? Ma fatemi il piacere…”. Gad Lerner, giornalista e fino all’anno scorso militante del Pd, rifiuta in blocco l’interpretazione corrente dei rivolgimenti politici e culturali del 2018. Il divorzio tra la classe operaia e la sinistra risale addirittura a quarant’anni fa, alla sconfitta sindacale alla Fiat del 1980: “È allora che si avvia un massiccio dirottamento di quote di ricchezza nazionale dai salari a vantaggio dei profitti e delle rendite”, spiega. “Le imprese non reinvestono i profitti accumulati, ma scelgono più comode diversificazioni. Così azionisti e manager non solo si arricchiscono, ma esercitano il loro potere di soggezione sulla politica e sul giornalismo”. Per raccontare come i gruppi dirigenti della sinistra siano caduti in questa ragnatela, Lerner rispolvera l’introduzione che aveva scritto dieci anni fa a un suo libro inchiesta (Operai, Feltrinelli).
Come si è consumato questo divorzio tra la sinistra e il suo mondo d’origine?
La generazione di giovani dirigenti del Pci che ereditarono la leadership di Berlinguer, e che avrebbero poi fondato il Partito democratico, non ha più intrattenuto alcuna consuetudine con il mondo del lavoro dipendente. Aspirando al governo del Paese e costretta a fare i conti con la dominante cultura neo-liberista, ha cercato legittimazione in un establishment nazionale di cui ha tollerato, in cambio, i vizi. Sposandone talvolta i comportamenti. Il mio amico sociologo Bruno Manghi, sintetizza in uno sfottò l’impedimento a rimettersi in sintonia col mondo del lavoro da parte dei vertici della sinistra: “Vi siete abituati a frequentare troppi ricconi”. Lo stile e il tenore di vita dei politici, ma anche di molti intellettuali, si è avvantaggiata del brutale incremento della disuguaglianza. Per necessità o per vocazione frequentava altri ambienti, incrociando di rado lo sguardo dei pochi militanti anziani rimasti a condividere la vita del popolo delle formiche.
La famosa connessione sentimentale?
Per anni le fondazioni culturali di sinistra hanno promosso convegni con i banchieri e i principali esponenti del malconcio capitalismo italiano. Mentre non si ricorda un momento di riflessione significativo dedicato alle difficoltà di rapporto con le organizzazioni sindacali né tantomeno al peggioramento della vita operaia.
Quando dice intellettuali, parla anche di sé?
Certo, vivo anch’io una contraddizione. Ho avuto un percorso di vita fortunato, e pur conservando gli amici di prima, negli anni mi è capitato di diventare amico anche di alcuni “padroni”. Nulla di cui vergognarmi, sia chiaro. Ho lavorato sodo e guadagnato bene. Meno di tanti odierni “capipopolo”, ma bene. Per questo non mi atteggio a vittima quando mi rinfacciano il rolex, ma non smetterò per questo di denunciare la china fascistoide implicita nello slogan “Prima gli italiani” che la Lega ha ripreso da Casapound. Semplicemente, come ho già detto al Fatto, so bene che la rigenerazione di una sinistra popolare toccherà inevitabilmente ad altri. Figure più credibili, chiamate a contrastare la deriva italiana: un lungo ciclo di boom dei profitti abbinato a decrescita infelice.
Chi può avere le credenziali per guidare questa “resistenza”?
Vale la pena ricordare che i fondatori del movimento sindacale in Italia furono Bruno Buozzi, Achille Grandi e Giuseppe Di Vittorio: cioè tre persone che avevano cominciato a lavorare tra i nove e gli undici anni. Erano un meccanico, un tipografo e un bracciante che hanno conosciuto di persona la povertà e il lavoro minorile e che in seguito hanno vissuto uno straordinario percorso di acculturazione che li ha fatti diventare anche grandi intellettuali. A un certo punto, negli anni Ottanta, si è interrotto il circuito virtuoso che portava i figli del popolo ai vertici del sindacato e del partito. Ma anche a diventare grandi sociologi del lavoro, come l’ex operaio Aris Accornero e lo stesso Luciano Gallino, giovane benzinaio che in provincia di Ivrea incontra per caso Adriano Olivetti. Altro che forconi e Gilet gialli, allora si parlava semmai di aristocrazia operaia.
Quel circuito si è spezzato.
Molti dirigenti della sinistra che avevano vissuto in prima persona la vertenza Fiat, come Piero Fassino e Sergio Chiamparino, si contraddistingueranno nel secolo nuovo per l’ostentata sintonia con Sergio Marchionne, il manager “apolide” intenzionato a trattare la manodopera italiana né più né meno di quella brasiliana, polacca, serba, statunitense (segno di civiltà, se non avvenisse al ribasso). Tenendo, nel 2007, in un luogo simbolico come l’ex stabilimento del Lingotto il discorso d’investitura alla guida del Pd, Walter Veltroni enfatizzò la sua adesione allo spirito d’impresa condannando le non meglio precisate manifestazioni di “invidia sociale”.
Perché non crede allo schema élite versus popolo?
Ma quale élite e quale popolo? Credo sia l’ultima mascheratura ideologica del disastro in cui siamo precipitati. Non a caso ne ha fatto la sua armatura la nuova élite, quella vincente. Quella di derivazione televisiva Raiset del Movimento 5 Stelle, figlia di Grillo e del Gabibbo che a un certo punto si è camuffata fingendo di parlare a nome del popolo, destinata a fare da battistrada al leghismo, più attrezzato sul piano ideologico e insediato da decenni al governo delle regioni del Nord. Capisco che si tratta di un’élite smandrappata di un Paese in declino, ma pur sempre élite.
Piero Ignazi ha detto: il Pd dovrebbe elogiare misure come il reddito di cittadinanza. D’accordo?
Sì, non è stato affrontato per tempo il problema di un sostegno alle persone che non lavorano. Ma altrettanto grave è la piaga, elusa da tutti perché è più difficile trovare una ricetta, della epidemia di lavoro povero. Chiedete a Salvini se è davvero favorevole a una redistribuzione della ricchezza circolante.
Una patrimoniale?
Magari bastasse. La piaga dei salari da fame si può affrontare e risolvere solo su scala europea. Il patriottismo sovranista è una favola che serve solo ad alimentare la guerra fra poveri: l’idea che potremmo distribuire fette di torta più generose se la spartizione fosse riservata agli italiani… Ha presente l’assessore di Monfalcone che il giorno dell’Epifania ha pubblicato quella filastrocca? “Vien dall’Africa il barcone per rubarvi la pensione”. La rima tra barcone e pensione è la truffa con cui si pretende di difendere il popolo contro le élite.

Repubblica 23.1.19
Sabino Cassese “Anche il popolo sbaglia e il referendum propositivo può svuotare il Parlamento”
Intervista di Lavinia Rivara Concetto Vecchio


ROMA Professor Cassese, la Camera sta votando la riforma costituzionale che introduce in Italia il referendum propositivo. Si tratta di una pietra miliare per la cosiddetta “democrazia diretta”, obiettivo identitario per i 5Stelle. Rispetto al progetto iniziale del Movimento il testo è molto cambiato e sono state accolte diverse proposte dell’opposizione. E tuttavia per alcuni giuristi si corre comunque il rischio di svuotare un Parlamento già troppo spesso scavalcato. Lei, da giudice emerito della Corte Costituzionale, come la vede?
«Va apprezzato l’atteggiamento dialogante del M5S, che conferma una propensione all’ascolto del ministro Fraccaro. Va valutato positivamente il fatto di aver udito esperti (il governo comincia a rispettare la competenza?). Va apprezzato il compromesso raggiunto sulla proposta dell’opposizione (Stefano Ceccanti) relativa al quorum di approvazione. Rimangono, però, domande senza risposta, relative agli effetti sistemici del popolo legislatore sull’assetto costituzionale. Quale effetto questo avrà sull’ipertrofia legislativa italiana, senza un limite al numero delle leggi popolari? Non c’è il pericolo di andare ad intasare un già affollato quadro legislativo, svuotando il Parlamento? Come può incidere il carattere necessariamente dicotomico del referendum (si risponde solo sì o no) su decisioni che richiedono scelte più complesse? Quale sarà l’effetto di una legge proposta e approvata dal popolo? Il Parlamento potrebbe poi modificarla o abrogarla?»
L’articolo 1 della nostra Carta dice che “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione”.
Quelle forme vengono ora messe in discussione?
«Questa è la proposta di una legge costituzionale, che opererà come uno dei limiti a cui fa riferimento l’articolo 1. Ma ci sono norme che possono difficilmente operare.
Una è quella che consente leggi popolari anche di spesa, con l’obbligo di indicare i mezzi per farvi fronte. Ma come possono promotori e popolo indicare i mezzi per farvi fronte? Non si finirà come gli emendamenti al bilancio proposti a suo tempo da Rifondazione comunista, che indicava sempre l’introduzione di una imposta patrimoniale?
L’iniziativa in materia di bilancio, che la Costituzione affida solo al governo, ha una sua ragion d’essere, perché il governo conosce i conti e ha l’“expertise” tecnica. Il Parlamento può indicare i mezzi per far fronte alla spesa perché dispone permanentemente del potere legislativo. Il popolo non può che rinviare a successivi provvedimenti, che non sono necessariamente nella sua disponibilità».
Grazie al pressing di opposizioni e giuristi è stato introdotto un quorum: la proposta referendaria diventa legge se il sì vince con i voti di almeno il 25 per cento dell’elettorato, circa 12,5 milioni di cittadini. Inoltre non c’è più il “ballottaggio” tra la proposta del “popolo” e quella eventualmente approvata dal Parlamento. Non sono correzioni sufficienti ad evitare lo svuotamento delle Camere?
«Non credo che bastino. Il Parlamento è da tempo sotto attacco: si pensi alla questione vitalizi. C’è il pericolo di portarlo fuori asse, spostando il peso della legislazione maggiore verso il popolo. Norberto Bobbio ha scritto una volta che nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia».
Altra novità è il vaglio preventivo di ammissibilità da parte della Corte costituzionale sulle materie sottoposte a referendum.
Questo “filtro” dovrebbe assicurare il rispetto dei vincoli internazionali e di quelli sulle leggi di spesa e in generale dei principi fissati dalla stessa Carta. Basterà questo a scongiurare un impatto negativo sulla nostra legislazione?
«Non completamente, perché c’è poi l’aspetto quantitativo, come ho detto prima».
Il Pd appare in una situazione imbarazzante: la maggioranza ha accolto diverse sue proposte di modifica e il referendum propositivo era previsto anche dalla riforma Boschi (bocciata dal referendum del 2016).
Probabilmente i democratici si asterranno in questo primo passaggio alla Camera.
Dovrebbero fare diversamente?
«Il Partito che si denomina democratico può opporsi con difficoltà all’introduzione di maggiore democrazia. Il punto critico sta nell’assicurare questa maggiore democrazia. Come evitare un certo plebiscitarismo insito nei referendum? Come assicurare quegli errori madornali che il popolo può fare (vedi la Brexit)? Quindi, io sarei favorevole a introdurre qualche limite esplicito (ad esempio di materia o relativo ad alcuni diritti indisponibili) in modo che la democrazia diretta non “mangi” quella rappresentativa, per evitare errori che l’abuso dei referendum ha prodotto in California, ad esempio».
Ma il problema della democrazia diretta, o di una maggiore partecipazione dei cittadini al processo politico-legislativo, esiste o no? E come si dovrebbe risolvere?
«Ci sono due punti critici. I sostenitori della democrazia diretta sono singolarmente afoni quando si passa alla democrazia deliberativa, che è la partecipazione dei cittadini alle grandi decisioni collettive di carattere amministrativo. Ad esempio la Tav. L’altro è quello della prova di resistenza alla quale il governo sta sottoponendo le istituzioni italiane. Il fatto che un decreto legge come quello sul reddito di cittadinanza e su quota 100 viene approvato in Consiglio dei ministri, insieme con molti altri provvedimenti, in 38 minuti vuol dire che anche il Consiglio dei ministri è diventato un organo di ratifica. La sovrabbondanza di decreti legge vuol dire che si promette più democrazia, ma se ne assicura meno. La fame di posti e il desiderio di liberarsi degli attuali amministratori va ben al di là del pure deprecabile “spoils system” ed è segno di una preoccupante “occupazione dello Stato”. Se il ministro dello sviluppo economico afferma che la Banca d’Italia “non ci prende”, vuole dire che abbiamo bisogno di un nuovo Baldassarre Castiglione per spiegare la compostezza ai nostri governanti. Quale sarà l’effetto del referendum propositivo, quando andrà ad aggiungersi a tutto questo?»
elettori, vedi la Brexit. Come dice Bobbio nulla rischia di uccidere la democrazia più dell’eccesso di democrazia I sostenitori della democrazia diretta sono afoni quando si parla della partecipazione dei cittadini alle grandi decisioni collettive, ad esempio la Tav
Giudice emerito
Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta, ex ministro e professore emerito della Normale di Pisa. Ha insegnato nelle Università di Urbino, Napoli, Roma, New York, Parigi e Nantes

Repubblica 23.1.19
Jürgen Habermas “Mia cara Europa riprenditi l’anima o morirai populista”
La lezione dei classici, da Platone a Kant. Il legame indissolubile tra partecipazione e diritto. La lotta alle disuguaglianze come argine alle destre In una Ue che litiga sulla pelle degli ultimi. Su “MicroMega” l’intervista al filosofo
Intervista di
di Isabelle Aubert, Jean- François Kervégan


Su MicroMega Questo testo è un estratto dell’ampia intervista a Jürgen Habermas presente sul numero 1/2019 di MicroMega, da domani in edicola, libreria, ebook e iPad, e che ha come filo conduttore “ A 100 anni da La politica come professione di Max Weber”: all’interno, tanti testi dei grandi del passato e tanti interventi dei protagonisti attuali

Professor Habermas, i suoi lavori accordano un’importanza considerevole ai classici (Kant, Hegel, Marx, ma anche Durkheim, Weber, Adorno, Mead…) e alla storia della filosofia, approccio che non è più così comune tra i filosofi contemporanei.
«Hans-Georg Gadamer ha spiegato l’attributo “classico”, che utilizziamo anche per quei pensatori che hanno istituito una tradizione nella storia della filosofia: grazie alle loro opere, questi filosofi sono, tanto per le generazioni successive quanto per noi, rimasti contemporanei. Per questo non solo noi godiamo del privilegio di poter sfruttare in qualche misura in modo sistematico il contenuto sostanziale delle intuizioni innovatrici contenute nei loro scritti – andando al di là dell’interpretazione che si può dare dal punto di vista dello storico – ma abbiamo anche il diritto di comportarci così.
Abbiamo sempre letto Platone come un analista dei concetti: è stato il primo a sviluppare un concetto dei concetti e ha individuato nell’analisi concettuale la strada maestra della filosofia. Un esempio più vicino a noi è quello di Kant che, con la nozione di “autonomia”, ha introdotto un concetto completamente nuovo di libertà della volontà».
Sebbene lei si sia spiegato più volte su questo punto, vorremmo ritornare sull’importanza crescente che lei ha attribuito al diritto nella sua riflessione critica sulla società.
«Dall’inizio, da Storia e critica dell’opinione pubblica, mi sono interessato alle tensioni che esistono fra lo Stato costituzionale democratico e il capitalismo e alla contraddizione tra i princìpi in base a cui entrambi rispettivamente funzionano. Questo spiega anche l’interesse che ho maturato per la filosofia del diritto di Hegel, per la storia del diritto naturale e per il confronto tra le due rivoluzioni costituzionali del XVIII secolo».
Come concepisce oggi i rapporti fra diritto e politica, e, di conseguenza, tra filosofia del diritto e filosofia politica?
«Non vedo nessuna alternativa al corpo di princìpi dello Stato sociale democraticamente costituito. Ma oggi le nostre istituzioni democratiche diventano sempre più una semplice facciata per adattare lo Stato nazionale agli imperativi del mercato mondiale. In una società mondiale sempre politicamente frammentata, ma altamente integrata sul piano economico, non disponiamo di organizzazioni che possono compensare questo divario e dunque combinare la capacità di azione democratica e di controllo democratico. Mancano oggi le premesse minime per la formazione di regimi politici più ampi e meglio disposti a cooperare, i quali sarebbero in grado di addomesticare i mercati finanziari non regolati su scala mondiale al fine di diminuire le plateali disuguaglianze sociali che esistono all’interno delle società nazionali, ma soprattutto tra gli Stati e i continenti».
Vorremo chiederle come la teoria critica può collocarsi rispetto agli studi postcoloniali.
Essa resta vittima di un etnocentrismo occidentale?
«Non c’è alcun dubbio che la teoria critica precedente così come il marxismo occidentale nel complesso siano stati più o meno ciechi a tal proposito. Avevo già preso parte alla discussione messa all’ordine del giorno dal decostruttivismo, la critica legittima del colonialismo barbaro e della sua grossolana visione eurocentrista del mondo. Cosa è necessario rivedere? Senza ombra di dubbio l’applicazione incredibilmente selettiva dei presunti criteri universali dell’Occidente. Ma bisogna rivedere anche i criteri dell’universalismo occidentale propri della ragione?
Per esempio, concetti come quelli di diritti dell’uomo e di evoluzione sociale? Non sono domande semplici a cui rispondere».
La situazione attuale e il futuro dell’Unione europea sono temi caldi che la preoccupano molto. Quella migratoria è una delle questioni sociali e politiche cruciali a livello europeo. Da un lato, questa situazione rafforza le tensioni sociali, alimentando movimenti di estrema destra nazionalista, dall’altro si ha l’impressione che la tendenza a chiudere le frontiere dell’Ue metta i paesi membri in contraddizione con i princìpi universali e umanisti della Carta europea dei diritti fondamentali (dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà).
«Sì, trovo vergognoso il carattere glaciale delle recenti decisioni in materia di politica del diritto d’asilo, considerato il fatto storico per cui i flussi migratori provenienti dal Sud e dal vicino Oriente sono anche la conseguenza delle nostre stesse colpe, quelle di una decolonizzazione fallita. Possiamo ancora guardarci allo specchio senza vergognarci per le tragedie che accadono nel Mediterraneo e che noi lasciamo più o meno accadere in assenza della volontà di creare una cooperazione? Ben inteso, aprire semplicemente le porte a tutti i rifugiati non ci è possibile, ma, in mancanza di una politica d’asilo comune a tutti gli Stati europei, la quale fino a ora ha fallito a causa della mancanza di volontà degli Stati di accordarsi su un criterio di ripartizione, sarebbe necessario che modificassimo radicalmente e insieme la nostra politica nei confronti dei paesi da cui provengono i rifugiati, prima di tutto per quanto riguarda la nostra politica economica».
La cacofonia che regna a proposito della gestione dell’accoglienza dei migranti e soprattutto la politica di sempre maggiori respingimenti alla frontiera non mette in pericolo la base democratica dell’Europa più profondamente di quanto si pensi? Non si deve temere una crisi di legittimità dell’Ue che genererebbe, in un effetto valanga, quella delle democrazie nazionali?
«Sono d’accordo con voi, con una piccola riserva. Da sempre l’Unione europea soffre di una mancanza di legittimità. Un deficit di legittimità che raggiunge il suo apice a causa di una politica delle crisi non solidale, che nel corso dell’ultimo decennio ha inciso profondamente sulla politica economica e sociale, soprattutto su quella degli Stati del Sud dell’Europa. Io considero la diseguaglianza sociale crescente all’interno degli Stati membri come la vera causa del populismo di destra. Ai miei occhi lo scandalo più grande sta nello sgomento e nel regresso delle élite politiche che governano debolmente davanti al compito che consiste nell’avere la volontà di contrastare l’attuale deriva “trumpista” in Europa. È difficile dire se abbiamo già raggiunto un punto di non ritorno.
Il problema, ai miei occhi, consiste nel mantenere ciecamente lo status quo, poiché, in questo caso, la disposizione dei governi a cooperare diminuirà sempre di più mentre il populismo prospererà sempre più e questo, come voi sottolineate, a spese della facciata, ad ogni modo sfregiata, dello Stato di diritto e della democrazia».
L’originale francese è uscito su Le Philosophoire n.50. © Vrin. (traduzione di Sabina Tortorella)

Repubblica 23.1.19
Max Weber la tragica vocazione della politica
Cent’anni fa il discorso del grande sociologo e filosofo
di Roberto Esposito


Il 28 gennaio 1919, cent’anni fa, Max Weber pronunciò a Monaco una conferenza che costituisce uno dei più alti documenti del pensiero moderno. Intitolata Politica come professione — ma il termine tedesco Beruf significa anche “vocazione” — essa seguì di circa un anno un’altra conferenza su La scienza come professione.
Benché situato in un periodo storico determinato — la fine della prima guerra mondiale — Weber si rivolge agli studenti tedeschi, ma anche all’Europa e all’intero Occidente. È perciò che quel discorso non ha perso nulla della sua bruciante attualità. E anzi sembra parlare a noi. Di noi. Mai come oggi, quando la professione della politica tocca il punto più basso, la conferenza di Weber pone la civiltà europea di fronte alle proprie responsabilità.
Responsabilità — intesa nel suo senso originario di “risposta improrogabile” — è anzi il termine intorno al quale ruota l’intero testo con una intensità che lascia indifferenti. Proprio perché nasce da una tragica sconfitta — non della sola Germania, ma di un continente che nella guerra pare aver perso, prima di milioni di vite umane, la sua stessa anima.
Weber coglie fino in fondo la drammaticità del momento. Che riguarda una nazione impegnata nel passaggio dall’impero alla repubblica, agitata dalla rivoluzione — «un carnevale che s’adorna del nome di rivoluzione», come la definisce con durezza. Ma riguarda, ancora prima, il destino della politica nell’epoca ormai dominata dall’economia e dalla tecnica. È in questo quadro che Weber parla della professione politica. Essa nasce dalla moderna divisione del lavoro, che assegna anche al politico un ruolo specifico. In una società sempre più burocratizzata, si richiede un corpo di funzionari dotati, oltre che del senso dell’onore, di competenze di tipo amministrativo. In uno scenario popolato da notabili e imprenditori spregiudicati del potere, la professione politica inizia ad attirarsi un discredito arrivato al suo culmine solo oggi.
Ben consapevole di questo processo, lo sguardo di Weber è però rivolto alle differenze. Non è la stessa cosa vivere “di” politica o “per” la politica. Solo in questo secondo caso il Beruf esprime il suo più alto significato, la professione diventa vocazione. È questa condizione che caratterizza il capo politico, distinguendolo dall’imprenditore e anche dal funzionario amministrativo: egli agisce per una causa, decide in base a essa.
Certo, lontano da ogni romanticismo e moralismo, Weber sa bene che la decisione politica non nasce da un’esigenza etica incondizionata. Essa si situa all’interno di circostanze che richiedono competenze specialistiche e conoscenza dei processi storici. Ha parole di disprezzo per coloro che lo negano, proclamando di agire in nome del popolo. Il politico che pretende di agire senza un sapere adeguato, non farà altro che produrre demagogia a basso prezzo, i cui costi gravano sull’intera società. Ma la preparazione tecnica, come anche la fedeltà al proprio impegno, ancora non bastano. Chi sceglie di vivere per la politica, deve fare un passo in più: conoscere fino in fondo le conseguenze delle proprie scelte, i contrasti etici cui la propria azione lo espone. Per poterlo affrontare, deve essere consapevole che il male esiste. E che dunque, nelle sue scelte, dovrà venire a compromesso con le potenze diaboliche che abitano il mondo. Ma senza mai sottomettersi a esse. Che c’è un limite davanti al quale non è possibile arretrare e bisogna dire: accada quel che accada, da qui non mi muovo.
Ricostruite le trasformazioni politiche del tempo, il complesso rapporto tra tecnica e democrazia, parlamento e governo, ufficio e carisma, nelle pagine finali Weber penetra in quell’inestricabile groviglio di contraddizioni che conferiscono al Beruf politico la sua drammatica tensione. Nulla è più lontano da lui della condotta di politici che operano in base alla pura ricerca del consenso, senza «alcun rapporto con la coscienza del tragico a cui è intrecciato in verità ogni agire, e in particolare l’agire politico». Tragica è la connessione necessaria tra gli elementi, apparentemente opposti, della passione e della razionalità: «Come si possono far convivere in una stessa anima un’ardente passione e una fredda lungimiranza»? Ma ancora più tragica è l’esigenza di comporre le due etiche, apparentemente inconciliabili, dalla cui relazione l’agire politico è costituito. La prima è l’etica della convinzione, secondo la quale si agisce in base ai puri principî, senza preoccuparsi, o attribuendo ad altri, gli effetti che ne deriveranno. La seconda è l’etica delle responsabilità, in cui si agisce anche in ragione delle conseguenze delle proprie azioni.
Mai come in questo caso le parole di Weber risuonano nelle nostre orecchie. Come deve comportarsi il politico che sa che la difesa incondizionata di una giusta causa porterà a una sicura sconfitta della propria parte e dunque a un peggioramento della condizione di coloro che difende?
Eppure è sulla linea di fuoco di questa tensione che il vero politico si muove, senza abbandonare nessuna delle due etiche, provando strenuamente a rispondere a entrambe. Questa è precisamente la responsabilità del politico. Ma cosa sanno, di tutto ciò, i politici che oggi ci governano?

Il Fatto 23.1.19
Cgil all’opposizione Camusso: “Pronti a lottare per l’Europa”
Il congresso di Bari - La leader uscente attacca manovra e reddito
Corso d’Italia farà campagna elettorale: “Contro ogni nazionalismo”
In corsa: Maurizio Landini (ex Fiom) e Vincenzo Colla. La disputa si decide domani
di Salvatore Cannavò


La distanza è andata maturando un po’ alla volta dal 4 marzo in poi. L’assenza del governo ieri, all’apertura del congresso della Cgil, conferma quanto ribadito nella relazione di Susanna Camusso, l’ultima da segretario generale, carica che lascia dopo otto anni: il sindacato sta all’opposizione.
Scelta scandita nei contenuti con l’attacco al reddito di cittadinanza, ancor di più ribadita nella sottolineatura della manifestazione unitaria, con Cisl e Uil prevista il 9 febbraio contro la manovra di Bilancio (che però è stata approvata in dicembre).
Una contestazione di fondo alla politica di governo che, a detta della Cgil, “senza investimenti non affronta i nodi della politica industriale”. E poi l’attacco al reddito: “Una misura di contrasto alla povertà è necessaria” spiega, ma lo strumento individuato dal governo è “confuso e non fa tesoro dell’esperienza del Rei per meglio finanziarlo ed estenderlo, e ne cancella invece la valenza sociale”. Camusso non si unisce al coro delle critiche giunte dal Pd: “Non useremo mai la frase ‘è vacanza per tutti’, che fa il paio con ‘l’antidivano’ delle slide del governo”. Ma quel nuovo “stato sociale” sbandierato da Luigi Di Maio non trova il consenso della Cgil. La cui linea di opposizione è resa ancora più plastica da un altro passaggio della relazione. Lì dove Camusso annuncia che il sindacato, unitariamente e insieme a Confindustria, intende stare dentro la campagna elettorale per le europee: “La Cgil è chiamata a essere parte attiva nella campagna elettorale europea, con Cisl e Uil, ne discuteremo con Confindustria, perché continuare a essere europei è una scelta di prospettiva e di campo rispetto alle destre e ai nazionalismi”. Nazionalismi è la parola che il segretario uscente preferisce a “populismo” con ciò decidendo di stilare una linea di demarcazione tra i valori di un sindacato progressista e quelli sostenuti dall’attuale governo: “Il nazionalismo di ritorno è il grande nemico dello sviluppo e del futuro umano e umanistico”.
Pur criticando la centralità monetaria e l’austerità, allora, Camusso rilancia il tema dell’Europa e lo declina nella tradizionale formula del multilaterialismo, della pace, dello sviluppo e della cooperazione. Arricchendolo con uno slogan del passato che “è una delle condizioni per far risorgere una sinistra: ‘Lavoratori di tutto il mondo unitevi!’”.
Il richiamo ai valori antichi aveva permeato l’intervento del segretario uscente all’inizio della sua relazione con un richiamo sentito all’eredità di Giuseppe Di Vittorio, ricordato in terra di Puglia visto che il congresso si tiene a Bari. E ricordato, forse, insieme a Bruno Trentin, anche per ricordare a tutti cosa è stata la Cgil, quale ancoraggio ha e quali ambizioni ha coltivato nella sua storia. Oggi è tutto più difficile, la manifestazione contro il governo del 9 febbraio è un’incognita e, soprattutto, pesa sul congresso lo spettro della divisione a metà.
Nel ribadire la proposta della nuova segreteria offerta a Maurizio Landini, Camusso ha ricordato l’ampia maggioranza che ha condiviso il documento principale, quasi il 98% che però ha fatto nascere le divisioni al momento di discutere della leadership.
La storia è nota: Susanna Camusso e il gruppo dirigente a lei vicino ha lanciato Landini, una fetta importante del sindacato, a partire dai Pensionati, propone invece Vincenzo Colla, già segretario dell’Emilia Romagna. La spaccatura è tale che si teme una conta su due liste contrapposte per l’elezione dell’Assemblea nazionale, che si terrà stasera, luogo deputato all’indicazione del nome del segretario.
Dietro le quinte del dibattito si gioca la trattativa per chiudere unitariamente il congresso.
A fronte della richiesta dell’area che fa riferimento a Colla di raggiungere un accordo per la gestione unitaria del sindacato – sembra che la richiesta sia stata quella di una composizione quasi paritaria della segreteria e dell’incarico organizzativo a quest’area – la segretaria uscente abbia fatto balenare l’incarico di vicesegretario.
L’ultimo a ricoprirlo era stato Guglielmo Epifani accanto a Sergio Cofferati e il vicesegretario aggiunto era la soluzione che la Cgil aveva trovato per far convivere la componente comunista e quella socialista. Niente a vedere con quei tempi, oggi si tratta di altra levatura, ma la proposta avrebbe il merito, se accettata, di sbloccare la situazione. Ma resta sul tavolo anche l’ipotesi di un incarico di rilievo, forse alle relazioni internazionali, per la stessa Camusso. E la relazione di ieri sembrerebbe confermarlo.

Il Fatto 23.1.19
L’avvocato dei Cucchi denuncia: “Manomesse le radiografie” Nistri: verifiche sui depistaggi
Interviene il comandante dell’Arma


Oltre alle anomalie già emerse, ci sarebbero “manomissioni e nuovi risvolti anche sulla documentazione fornita in ambito medico legale dopo la tac eseguita sul corpo di Stefano Cucchi”. A denunciarlo è Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, secondo il quale sarebbe stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà della vertebra L3. Ma è proprio nella metà mancante che ci sarebbe la prova di una frattura recente. L’analisi delle radiografie e delle Tac è stata eseguita dal professor Carlo Masciocchi, che verrà sentito venerdì nel processo in primo grado ai 5 carabinieri, tre accusati di pestaggio. Il professore era stato interrogato dal pm Musarò il 6 ottobre 2015. “Posso affermare – disse – di avere la certezza, e non semplicemente la forte sensazione, che fosse stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà della soma di L3”. “Spero che da questi elementi, nasca un nuovo spunto investigativo”, ha detto Anselmo. E sarebbe un ulteriore tassello che si aggiunge a due filoni di indagine aperti parallelamente al processo in corso: uno riguarda alcuni falsi nelle annotazioni sullo stato di salute di Cucchi, l’altro un presunto depistaggio avvenuto nel 2015 quando non sarebbero stati acquisiti dal Nucleo investigativo alcuni atti. Ma c’è il sospetto di un depistaggio, anche più recente. E riguarda la telefonata del 6 novembre 2018 tra il vicebrigadiere della stazione Vomero-Arenella, Mario Iorio e il maresciallo Ciro Grimaldi (nel 2009 era a Tor Sapienza, Roma). Grimaldi di lì a poco avrebbe testimoniato in aula. Secondo la Squadra Mobile, Iorio avrebbe riportato al collega un messaggio del comandante del gruppo Vincenzo Pascale (non indagato) quando diceva: “Ha detto: ‘Dovete avere lo spirito di corpo”. Su questo è intervenuto ieri il comandante generale dell’Arma Giovanni Nistri: “Verificheremo i significati da dare a frasi come ‘spirito di corpo’”. “Noi carabinieri – aveva invece detto all’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola ufficiali carabinieri – dobbiamo essere i primi a giudicare, con rigore e senza tentennamenti, chi di noi si allontani dalla via del dovere”.

Il Fatto 23.1.19
Strage di Viareggio, Moretti in aula. I parenti dei 32 morti: “Rinunci alla prescrizione”
L’ex capo di Fs in Corte d’appello
di Ferruccio Sansa


Il primo incontro con i parenti delle vittime. Ieri mattina Mauro Moretti si è presentato in Tribunale a Firenze al processo d’appello per la strage ferroviaria di Viareggio. Moretti, ex ad di Rfi e di Trenitalia, in primo grado è stato condannato a sette anni di reclusione. Erano le 23.48 del 29 giugno 2009: un carro cisterna carico di gpl deragliò facendo uscire dai binari un treno merci. Il gpl, fuoriuscito dalla cisterna che stava entrando nella stazione, esplose causando un incendio che distrusse le abitazioni di via Ponchielli, a pochi passi dai binari. Le vittime furono 32. Il processo di primo grado a Lucca si concluse il 31 gennaio 2017 con 23 condanne e 10 assoluzioni. A Firenze adesso è cominciato, appunto, l’appello. Una corsa contro il tempo: parte delle accuse rischia la prescrizione.
Secondo la tabella prevista la discussione dovrebbe terminare entro marzo. Ieri i magistrati della Corte hanno ripercorso le tappe della vicenda, ricostruito la sentenza di primo grado e illustrato i motivi di appello presentati dalle parti. “È un’udienza importante, per questo l’ingegnere ha deciso di essere presente. Ma non rilascerà dichiarazioni”, hanno spiegato i suoi avvocati. Una presenza silenziosa, immobile (anche se pare che Moretti si sia fatto scappare un saluto proprio con Dante De Angelis, il macchinista scomodo licenziato da Trenitalia per le sue denunce contro l’azienda). Intanto i parenti delle vittime chiedevano agli imputati di rinunciare alla prescrizione. E il consigliere regionale Pd Stefano Baccelli ha sottolineato che “Moretti fino a oggi non si era mai presentato ad alcuna delle oltre 140 udienze del processo di primo grado a Lucca. Un comportamento irrispettoso verso le vittime e le famiglie”. Le associazioni che riuniscono i familiari delle stragi, da Viareggio al Ponte Morandi, hanno annunciato che venerdì saranno a Roma all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

il manifesto 23.1.19
Margarethe Von Trotta: «Il mio sguardo su Rosa L.»
Incontri. La regista, che oggi incontrerà il pubblico all’Aamod, racconta il suo film del 1986 sulla rivoluzionaria uccisa un secolo fa
di Giovanna Branca


ROMA «Non faccio differenza fra un film ’politico’ e uno che non lo è: tutto è politico, ma anche legato alla mia persona. Per raccontare una storia non scelgo l’argomento, ma un personaggio con cui ’confrontarmi’ e che possibilmente mi insegni qualcosa». Lo spiega Margarethe Von Trotta alla Casa del Cinema di Roma, dove ha incontrato il pubblico per una «lezione di cinema» promossa dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico in occasione del centenario dell’omicidio, il 15 gennaio 1919, di Rosa Luxemburg, a cui è dedicato il film di Von Trotta del 1986 – Rosa L.
Un evento che verrà ripetuto oggi alle 15.30 e alle 18.00 alla sede dell’Aamod, dove ancora una volta la regista tedesca incontrerà gli spettatori per parlare del suo film «politico», ma per il quale è stato necessario andare alla ricerca della dimensione più privata di Rosa Luxemburg, il «personaggio» strappato alla Storia con cui costruire un dialogo a distanza .
«HO EREDITATO il progetto – racconta Von Trotta – quando è morto Fassbinder, perché avrebbe dovuto girare lui il film. Ma la sua sceneggiatura per me non andava bene: era un melodramma, io dovevo prima capire in che modo Rosa Luxemburg ’comunicava’ con me, per poi poter realizzare un suo ritratto dalla mia prospettiva». Per farlo, la regista di Anni di piombo ha attraversato la frontiera per andare a Berlino Est: «All’epoca esistevano solo due biografie su di lei, ed entrambe si concentravano solo sul suo ruolo politico. Per poter scoprire qualcosa in più ho passato quindi tantissimo tempo a studiare le sue oltre 2500 lettere custodite dall’Istituto di marxismo-leninismo di Berlino Est. Nelle lettere agli amici e agli amanti è una persona completamente diversa rispetto a quella che emerge dalle lettere ai compagni».
Per questa sua scelta di mettere in scena una Rosa Luxemburg anche «privata» la regista racconta di essere stata criticata «dagli storici di sinistra». Ma il suo ritratto della rivoluzionaria polacca, membro del partito socialdemocratico tedesco e fondatrice con Karl Liebknecht – che condividerà la sua sorte – della Lega Spartaco è tutt’altro che depoliticizzato: nel raccontare la sua storia e il suo pensiero, troppo vasti per poter essere racchiusi in un film, Von Trotta dialoga con il proprio tempo, o meglio mette la stessa Luxemburg in dialogo con esso.
«Negli anni’80 in Germania ci furono delle grandi manifestazioni pacifiste perché i sovietici volevano mettere i missili a Est, gli americani a Ovest, ed era forte il timore di una nuova guerra. Per questo in Rosa L. ho scelto di evidenziare – fra le sue tante battaglie politiche, come quella contro il poco coraggio dei sindacati – la lotta alla guerra, che era il principale interesse di tutti noi in quel momento».
E INFATTI il film sorvola sull’infanzia di Luxemburg (interpretata da Barbara Sukowa, miglior attrice a Cannes 1986) – se non per un breve flashback simbolico, in cui con impazienza e determinazione la piccola Rosa attende lo sbocciare di una rosa rossa – e la racconta nel pieno della sua attività politica e rivoluzionaria, nella prigionia e nella lotta, dall’alba del nuovo secolo al momento in cui il suo corpo senza vita viene gettato nel fiume dai corpi franchi ingaggiati dallo stesso governo socialdemocratico tedesco per stroncare la rivoluzione spartachista.
«In Rosa L. il racconto non è veicolato solo dalle parole – spiega Von Trotta – ma soprattutto dalle immagini. Ad esempio il rosso appare poco, per sottolineare con maggiore forza le sequenze in cui lo uso – non solo in riferimento al socialismo ma al terribile secolo di sangue che si stava aprendo. Rosso è il tappeto su cui Rosa viene trascinata verso la sua morte, e ho scelto di chiudere il film sullo scorrere del fiume in cui viene gettata e che ’ci viene incontro’, scorre idealmente verso il presente». Non solo quello degli anni ’80 ma anche il nostro, di nuovo attraversato dai nazionalismi che furono pretesto per la Grande Guerra fieramente avversata da Rosa Luxemburg.

il manifesto 23.1.19
Stop dell’Onu ai migranti in Libia. Ma Salvini dice no
Il leghista: «I porti restano chiusi. Sto trattando con Tripoli». La Germania lascia la missione Sophia: «Stanchi dell’Italia»
di Leo Lancari


La richiesta ai governi europei, e in particolare a quello italiano, arriva dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu che si occupa dei rifugiati. «Non rimandate i migranti in Libia, aprite i porti e consentite la ripresa dei salvataggi nel Mediterraneo, anche da parte delle ong». Un appello che tiene conto – scrive l’Unhcr – dell’«attuale contesto» libico, «in cui prevalgono scontri violenti e diffuse violazioni dei diritti umani». Come tra l’altro dimostra anche la vicenda dei 144 migranti riportati nel Paese nordafricano dal mercantile della Sierra Leone che due giorni fa li aveva tratti in salvo: giusto il tempo di sbarcare e sono stati richiusi tutti – compresi donne e bambini – in un centro di detenzione.
Parole cadute nel vuoto. All’ormai consueto silenzio dell’Unione europea fanno seguito le parole, come al solito sprezzanti, del titolare del Viminale: «Altri sbarchi, altri soldi agli scafisti? La mia risposta all’Onu è NO» scrive Matteo Salvini su twitter con il solito hasthag #portichiusi. Avvertimento che il ministro leghista invia anche ai 47 migranti tratti in salvo dalla nave della ong tedesca Sea Watch in attesa ormai da quattro giorni di uno scalo verso il quale dirigersi. «Loro vorrebbero arrivare in un porto italiano ma fanno i furbetti e non voglio dire di più in questo momento», dice Salvini in una diretta Facebook nella quale si definisce «buono sì ma fesso no. E siccome l’autorizzazione allo sbarco nei porti la dà il ministro dell’Interno, la risposta è no, niet, nisba per gli scafisti e gli amici degli scafisti». Unica novità: l’annuncio che con la Libia «stiamo lavorando riservatamente per risolvere i problemi». Come e sulla base di cosa non viene spiegato, ma è facile immaginarlo dalla parole del ministro: «I migranti non devono partire e chi lo fa deve tornare in Libia».
E’ la solita linea dura che Salvini impone fin dall’inizio al governo gialloverde e che lascia l’Italia sempre più isolata in Europa. La riprova – che il ministro leghista considererà probabilmente come una vittoria, è arrivata anche ieri con l’annuncio della Germania di volersi ritirare dalla missione europea Sophia come conseguenza – secondo l’agenzia tedesca Dpa che cita fonti del governo – «della linea dura del governo italiano sull’accoglienza dei migranti dalle navi». Notizia confermata in seguito da un portavoce del governo di Berlino secondo il quale il ritiro, per quanto «momentaneo» sarebbe comunque stato deciso e diventerà operativo dal prossimo 6 febbraio, giorno in cui la fregata «Augsburg», una delle navi messe a disposizione della missione dalla Germania, porterà a termine il suo mandato operativo.
La notizia rischia di mettere seriamente a rischio la continuità della missione che da quando è cominciata, nel 2015, ha salvato nel Mediterraneo più di 43 mila migranti. Salvini ha sempre contestato la regole che impongono di sbarcare nei porti italiani le persone salvate, arrivando a minacciare – anche se le competenze sulla missione spettano ai ministeri della Difesa e degli Esteri – di mettere fine alla partecipazione italiana se non vengono cambiate. Il 22 dicembre scorso il Consiglio europeo ha prorogato fino al 3 marzo prossimo la scadenza di Sophia. Un tentativo disperato di prendere tempo alla ricerca di una soluzione comune tra gli Stati membri. Adesso l’annuncio della Germania rischia di far precipitare la situazione, rendendo più difficile la ricerca di un possibile accordo ma soprattutto la sopravvivenza della stessa missione.

il manifesto 23.1.19
Lo sfacelo libico conviene solo ai nemici dell’Europa
Sovranisti/europeisti. Non è abbastanza perché l’europeismo riconosca che in Libia è in gioco l’Europa quale la progettiamo, i suoi valori fondativi, l’identità politica, l’indipendenza, la sicurezza, il suo posto nel mondo?  E non è la Libia proprio il test per dimostrare all’elettorato la necessità di una politica estera comune, sorretta da uno strumento militare?
di Guido Rampoldi


Probabilmente è futile chiedere uno sforzo di meningi ad un Paese in cui i due leader della maggioranza attribuiscono le stragi di migranti l’uno alla Francia e l’altro alle Ong. Ma proprio il maremoto della cialtroneria dovrebbe imporre all’opposizione un pensiero affilato e coerente, quando occorra capace di proposte inaudite. O perlomeno disponibile ad affrontare le domande note ai lettori del manifesto, dell’Avvenire, dell’Espresso, ma tralasciate dal moderatismo anche durante i suoi empiti di indignazione.
Ci si può sdegnare per gli affogati e allo stesso tempo disinteressarsi alla sorte dei prigionieri dei lager libici, ai quali risulta desiderabile perfino la roulette russa di un viaggio via mare verso l’Italia?  E tenersi buone esose bande criminali perché impediscano le partenze?
È davvero impossibile accordare ai migranti, intercettati in Mediterraneo o nel nostro territorio, una protezione internazionale che sia intelligente e umana?
Il ministero dell’Interno ha la capacità e la cultura per gestire un problema così complesso? Erano criminali le ong troppo disinvolte oppure lo è stata la decisione, di fatto italiana, di estrometterle dai soccorsi dei natanti in difficoltà in un larghissimo tratto di mare tra le coste libiche e la Sicilia? Le risposte non sono difficili.
Finché non si arriva ad un problema connesso che è quasi intrattabile, l’instabilità della Libia. La Libia è ormai un campo di battaglia nello scontro tra cattivi e pessimi che sta squassando la galassia araba e sunnita. Da una parte i movimenti rivoluzionari islamici, alcuni dei quali appoggiati da Turchia e Qatar; dall’altra una consorteria di caste militari e teste coronate, con l’appoggio esterno dell’amministrazione Trump e di Netanyahu.
Mentre l’inviato dell’Onu a Tripoli persegue una road-map sempre più utopica (Conferenza di riconciliazione nazionale, referendum, libere elezioni) le milizie libiche e i loro sponsor internazionali si preparano ad una guerra che si annuncia interminabile, afghana, dato che nessuna tra le alleanze in campo è in grado di sottomettere i rivali.
Neppure il generale Haftar, capo di una confederazione di bande ferocissime. Costui dispone di tutto quel che manca agli avversari: una piccola aviazione (offerta dagli Emirati arabi), l’intelligence e la missilistica (egiziane), appoggi diplomatici (francesi), buone relazioni con Mosca e con gli Usa, e un embargo Onu sulle armi che colpisce solo gli avversari. Però non ha l’essenziale: i libici, a cominciare dalle gerarchie musulmane anche non integraliste, lo considerano uno strumento degli stranieri.
L’Italia in principio contrastava Haftar ma da quando l’anarchia militare minaccia i tubi dell’Eni ha cominciato a corteggiarlo. All’inizio ne ricavava poco (leggendaria l’insolenza con la quale il generalissimo trattò a Roma il ministro della Difesa Roberta Pinotti). Ma il governo Conte ormai lo blandisce in forme spudorate, nel nome di quel realismo che di solito conduce gli occidentali alle scelte più autolesioniste e disonorevoli.
Intanto Haftar va piazzando suoi avamposti intorno alla capitale e minaccia di abbattere aerei civili turchi; carichi di armi di fabbricazione turca raggiungono le coste libiche (gli ultimi due intercettati un mese fa in un porto a cento km da Tripoli); e nel caos generale al Qaeda e Isis dilagano in parte del Fezzan, il sud.
Per disarmare le milizie occorrerebbe un esercito nazionale libico.
Una Nato appena previdente avrebbe provveduto per tempo. Cominciasse ora, occorrerebbero dai 12 ai 18 mesi perché quell’esercito fosse operativo. E nel frattempo? Per decisione del Consiglio di sicurezza, dal 2011 la Libia è soggetta alla giurisdizione della Corte penale internazionale, però defilata (l’unico ordine di arresto emesso negli ultimi anni riguarda un luogotenente di Haftar tanto ingenuo da denunciarsi con un video in cui i suoi soldati massacravano prigionieri: è tuttora al posto di combattimento).
Non disponendo di una propria polizia giudiziaria la Corte può agire solo se i Paesi presenti in Libia, Italia tra questi, le forniscono informazioni raccolte sul terreno. Ma quei Paesi intrallazzano ciascuno con queste o quelle bande e la rappresentanza Onu in Libia non incoraggia intromissioni della giustizia internazionale. Ma anche se la Corte fosse messa nelle condizioni di fissare il confine della disumanità, l’anarchia militare è tale che nessun processo politico può decollare senza le garanzie minime ma fondamentali quali può offrirle soltanto una forza internazionale: un contingente in grado di imporre la liberazione di migranti prigionieri, qua e là il rispetto di cessate-il-fuoco e no-fly zone, e a Tripoli l’incolumità di un governo transitorio finalmente sottratto alle milizie che oggi lo ricattano.
Ma pare problematico perfino formare questa eventuale forza e, ancor prima, assicurarle un mandato del Consiglio di sicurezza. Troppo pericoloso affacciarsi in Libia, troppo conflittuali gli interessi degli Stati coinvolti (spaccano anche la Nato: Ankara e Parigi sono su fronti opposti).
E com’è sempre più evidente, lo sfacelo libico conviene ai nemici dell’Europa.  A Putin, ma innanzitutto a Trump, nel calcolo che gli europei continueranno a rivolgersi a lui perché aiuti a spegnere la guerra dirimpetto alle nostre coste (in questo Conte è stato il battistrada). Nel frattempo sabotatori trumpiani e utili babbei aizzeranno lo scaricabarile tra governi svergognati; e tutti, a cominciare dagli elettori, avranno la conferma che l’Unione è una disunione ridicola, una nave solida quanto i barconi alla deriva che lascia affondare con il loro carico di umani.
Non è abbastanza perché l’europeismo riconosca che in Libia è in gioco l’Europa quale la progettiamo, i suoi valori fondativi, l’identità politica, l’indipendenza, la sicurezza, il suo posto nel mondo?  E non è la Libia proprio il test per dimostrare all’elettorato la necessità di una politica estera comune, sorretta da uno strumento militare?  Otto anni fa l’Europa dei sacri egoismi devastò la Libia con una guerra neocoloniale. L’Europa moderata proseguì su quella china con un cinismo miserabile. L’Europa sovranista è perfino peggiore. Ma l’Europa europeista può emendarsi restituendo la libertà ai migranti prigionieri, la patria ai libici, un futuro a se stessa.

La Stampa 23.1.19
Primo colpo giudiziario al decreto Salvini
“Non sia retroattivo”
di Giuseppe Salvaggiulo


Arriva dalla Procura generale della Cassazione il primo colpo giudiziario al decreto sicurezza, fiore all’occhiello del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Secondo i magistrati le nuove e restrittive regole sulla concessione dei permessi umanitari ai migranti non sono applicabili alle domande presentate prima dell’entrata in vigore del decreto e non ancora decise con sentenze definitive. Questo orientamento emerge da una requisitoria appena depositata, di cui «La Stampa» è in grado di rivelare il contenuto. Se consolidato, ridurrebbe la portata del decreto Salvini ai migranti arrivati non prima della fine del 2018. E quindi ai 359 sbarcati nel dicembre 2018 ma non ai 2327 del dicembre 2017 e agli 8428 del dicembre 2016. Insomma a una minoranza di casi, dato il crollo di sbarchi registrato l’anno scorso.
Il caso riguarda il migrante R. M, arrivato dal Bangladesh. Dice che il suo Paese, come certificato da un rapporto di Amnesty International del 2013, «è altamente insicuro» e «non sono garantiti i diritti fondamentali dell’individuo», per cui se rimpatriato «si troverebbe in condizioni di particolare vulnerabilità». La Corte di Appello di Firenze gli concede il permesso di soggiorno per motivi umanitari, valorizzando il fatto che R. M. ha trovato un lavoro durante il processo e pertanto «è inserito nel contesto sociale». Il ministero dell’Interno fa ricorso contestando la motivazione.
La Procura generale ricostruisce la materia alla luce del decreto Salvini, che «ha eliminato la clausola generale contenente i presupposti per il rilascio della protezione umanitaria» riducendola a casi tassativi e limitati: sfruttamento sul lavoro, motivi sanitari particolarmente gravi, eccezionali calamità, atti di speciale valore civile. Dunque la questione è se al migrante R. M. - e a tutti quelli nelle sue condizioni, arrivati in Italia prima del decreto Salvini - si applichino le vecchie o le nuove regole. Secondo la Procura generale, il diritto alla protezione umanitaria ha una base costituzionale nell’articolo 10 terzo comma, che lo colloca tra i «diritti umani inviolabili»: preesiste alla legge, che può solo riconoscerlo in capo a una persona, ma non crearlo o distruggerlo.
Questa ricostruzione porta la Procura generale a concludere per la «non applicabilità della nuova disciplina alle vicende umane sorte nel vigore della legge antecedente» e ancora pendenti. In quei casi, il migrante «può e deve contare sul corredo normativo esistente al momento della presentazione della domanda». Nel senso della irretroattività del decreto Salvini militano anche diverse sentenze della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo e della Corte costituzionale. Tanto più, scrive la Procura generale, di fronte a «dolorose vicende umane». Diversamente argomentando, si discriminerebbero i migranti in base alla lungaggine e all’imprevedibilità della giustizia italiana, un fattore «puramente casuale e legato a fattori imponderabili». Il che contrasterebbe con la Costituzione.
Il documento della Procura generale si muove nella direzione di confermare una posizione decisamente garantista sul diritto d’asilo, maturata dalla Suprema Corte negli ultimi anni. Ma la questione è controversa, anche tra i magistrati. Finora i tribunali si sono divisi: una maggioranza per l’irretroattività del decreto Salvini; alcuni (Firenze, Campobasso) per la generalizzata applicabilità, che comporta anche il diniego del beneficio del gratuito patrocinio legale.
Oltre alle intrinseche ragioni giuridiche, vanno considerate le inevitabili conseguenze politiche della decisione. L’arrivo di Salvini al Viminale ha già comportato una svolta nell’orientamento delle commissioni amministrative che a livello provinciale decidono sulle domande dei migranti, grazie a una direttiva del 4 luglio 2018 che ha anticipato il decreto sicurezza. L’effetto è stato un crollo dei permessi concessi: dal 42% al 18%. In particolare quelli per ragioni umanitarie, su cui si deve pronunciare ora la Cassazione, sono calati dal 25% al 3%. Se la prima sezione della Suprema Corte condividerà la tesi della Procura generale, oltre a R. M. restituirà la possibilità di ottenere un permesso umanitario ad almeno 150 mila migranti secondo una stima dell’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Il Fatto 23.1.19
Grandeur sulla pelle degli altri: il vetero-colonialismo di Parigi
I danni di Parigi - Africa - I modelli occidentali hanno scardinato le società tradizionali: l’emigrazione parte da qui
di Massimo Fini


Possibile che in Italia si abbia così poco spirito nazionale dall’interpretare ogni azione del nostro governo come propaganda senza badare ai fatti? Nell’attuale scontro fra Italia e Francia il governo italiano ha perfettamente ragione. Quando Luigi Di Maio afferma “alcuni Paesi europei con in testa la Francia non hanno mai smesso di colonizzare decine di Stati africani, se la Francia non avesse le colonie africane, che sta impoverendo, sarebbe la 15ª forza economica internazionale e invece è tra le prime per quello che sta combinando in Africa, l’Ue dovrebbe sanzionare queste nazioni come la Francia che stanno impoverendo questi posti, è necessario affrontare il problema anche all’Onu”, dice una pura verità.
La Francia è l’ultimo Paese europeo ad aver conservato una mentalità vetero-coloniale. Se prendiamo Le Monde, che pur è un giornale di sinistra, troviamo pagine e pagine dedicate ai Paesi africani e tutte orientate, come faceva il vecchio colonialismo, a vedere la Francia come benefattore e non come oppressore quale effettivamente è. Del resto, per restare alle cose più recenti, è stata la Francia, prima ancora degli Usa, ed è tutto dire, ad aggredire la Libia di Muammar Gheddafi per la sola ragione che voleva rafforzare la sua posizione economica in Libia ai danni dell’Italia che purtroppo si accodò a quella sciagurata operazione di cui il nostro presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi, non era affatto convinto ma ebbe la debolezza di subirla.
La Francia ha in Africa forze militari un po’ ovunque, senza che, in quasi tutti i casi, la presenza di queste truppe sia stata autorizzata dall’Onu e nemmeno dalla Nato. Prendiamo un esempio fra i tanti, che abbiamo già fatto ma che è bene riprendere (Mali: la balla del terrorismo, 20.1.2013; Mali, l’Occidente ha reso globale una guerra locale, 22.11.2015; La spocchia di Parigi è un problema europeo, 17.6.2018, pubblicati tutti sul Fatto). Nel Mali del sud, con capitale Bamako, la Francia aveva pieno controllo attraverso il solito presidente fantoccio Ibrahim Boubacar Keita. Ma non gli bastava. Così pochi anni fa aggredì il Mali del nord abitato da pacifici e laici Tuareg (fra i Tuareg quando una coppia si separa è il marito a dover abbandonare la tenda coniugale e tornare in quella dei genitori) che praticavano, come han sempre fatto, il nomadismo senza peraltro debordare in quello del Sud. Il risultato di questa brillante operazione è che i Tuareg, in ovvia inferiorità militare, per difendersi si sono alleati alle componenti islamiche radicali dell’area e così è nata una guerra e, con essa, un’emigrazione maliana che non c’era mai stata.
Ma il Mali è solo un esempio dell’oppressiva presenza francese in Africa Nera. Naturalmente – e qui ha ancora ragione Di Maio quando parla di “alcuni Paesi europei” – la questione riguarda anche altri Stati del Vecchio continente che sono presenti nell’Africa subsahariana pur senza manifestare la mentalità vetero-coloniale dei francesi (Di Maio ha solo torto quando attribuisce grande importanza al franco Cfa, che ha corso legale in 14 Paesi: questione marginale che sottolinea solo la mentalità vetero-coloniale dei francesi).
La questione dello straordinario impoverimento dei Paesi dell’Africa Nera ha radici ben più profonde e sono quelle indicate da Thomas Sankara, allora presidente del Burkina Faso, in un discorso del 1987 all’assemblea dei Paesi non allineati’, Oua: “Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere… Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranei”.
In estrema sintesi: il violento ingresso del modello occidentale ha scardinato le economie (economie di sussistenza: autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto e a volte anche prosperato per secoli e millenni causando la miseria che oggi porta a quelle migrazioni da cui siamo tanto spaventati quanto responsabili, Italia compresa. E anche di questa situazione avevo dato conto, con largo anticipo, in un libro di notevole successo, Il Vizio oscuro dell’Occidente, che è del 2002, in cui si dimostra, dati alla mano, che l’Africa Nera era stata alimentarmente autosufficiente fino al 1960, quando non era ancora un mercato ritenuto interessante dagli occidentali (adesso ci si è messa di mezzo, in modo un po’ più intelligente e soft, anche la Cina). Poiché gli abitanti dell’Africa Nera sono 720 milioni (escludendo il Sudafrica che fa parte a sé) è chiaro che il loro passaggio da poveri a miserabili, ridotti alla fame, resi estranei alla propria cultura, porterà a migrazioni di cui quelle a cui assistiamo oggi sono solo un pallido fantasma. Possiamo fermarli sulle coste libiche, ma li costringiamo a vivere in un inferno da noi stessi causato con l’aggressione a Gheddafi che teneva sotto controllo la situazione. Possiamo cercare di fermarli – è l’ipotesi prima di Minniti e ora di Salvini – ai confini del Niger o di altri Paesi, ma così li recludiamo in un altro inferno che è quello della loro miseria (cosa sociologicamente diversa dalla povertà) e della loro fame.
Ricordiamoci che l’80% delle migrazioni provengono dall’Africa subsahariana e solo il 20% da guerre che prima o poi potrebbero anche finire. E quindi se un giorno saremo sommersi dalle popolazioni nere, come pare inevitabile, si potrà solo dire “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Ma per tornare all’attuale conflitto diplomatico, cerchiamo di ritrovare un poco di quello spirito nazionale che c’è rimasto e rimandiamo al mittente, ancora attaccato a una grandeur ridicola quanto storicamente inesistente, le sue arroganti affermazioni e le sue mosse (“irresponsabili”, convocazione dell’ambasciatrice italiana a Parigi). Di Maio ha detto una verità, anche se solo parziale.

Il Fatto 23.1.19
“La battaglia sul franco Cfa è una cosa di sinistra”
Yvan Sagnet - L’attivista anti-caporalato: “Ne parlano per propaganda, ma il tema esiste: è un’ingiustizia intollerabile”
“La battaglia sul franco Cfa è una cosa di sinistra”
di Tommaso Rodano


“Di Maio e Di Battista hanno sollevato una questione cruciale per l’Africa, parlando del franco Cfa. Anche se l’hanno fatto in modo un po’ superficiale e per ragioni elettorali”. Yvan Sagnet è nato in Camerun – ex colonia francese – 33 anni fa. Nel 2017 Sergio Mattarella l’ha nominato Cavaliere della Repubblica per le sue battaglie contro il caporalato agricolo. “Il tema della sovranità monetaria – spiega – è uno dei più sentiti dalla gioventù africana, che chiede da anni cambiamenti radicali. Anche se è solo una delle molteplici forme dello sfruttamento da parte dell’Occidente”.
E non è la causa dei flussi verso l’Italia, visto che solo il 10% dei migranti sbarca dai Paesi che adottano il Franco Cfa.
È vero. Dall’Africa si scappa per tanti motivi. C’è la questione del debito, che l’Fmi chiama “programma di aggiustamento strutturale”. Un debito ingiusto e abnorme, che blocca sul nascere ogni programma di sviluppo. E ci sono le politiche commerciali sleali degli altri Stati, e anche dell’Unione europea.
Anche dell’Italia?
L’eccedenza commerciale che l’Italia rimprovera alla Germania è la stessa che mette in pratica nei confronti di alcuni Stati africani. Poi, come noto, c’è lo sfruttamento delle nostre risorse da parte delle multinazionali. Anche italiane. Alcune delle quali già condannate per i loro saccheggi. Infine pesano, tanto, l’instabilità politica e le guerre. Se si aggiunge a tutto questo, il controllo monetario della Francia su 14 Paesi africani è un’ingiustizia intollerabile.
L’adesione al franco Cfa però è volontaria.
Solo formalmente. Chi prova a uscirne subisce ricatti e pressioni. Non solo economiche. Il primo a provare a lasciare questo sistema fu Sekou Touré, presidente della Guinea, nel 1958: fu ucciso dopo tre giorni. Negli ultimi 50 anni in Africa ci sono stati 67 colpi di stato, il 61% dei quali è avvenuto nelle ex colonie francesi.
Ci sono economisti che sostengono che l’unione monetaria convenga agli Stati africani.
Conviene alle marionette che li governano con il sostegno degli Stati occidentali, Francia in primis. I nostri capi di Stato sono molto ricchi, hanno conti e beni all’estero, specie in Svizzera. Loro, sì, sono al riparo dalle svalutazioni della moneta.
Il Movimento governa con Salvini. Non le pare sospetto che tiri fuori la questione del franco Cfa nei giorni dei morti in mare?
Sono convinto lo facciano per ragioni elettorali. Ma le dico un’altra cosa: io sono un uomo di sinistra. Mi sorprende di più la sinistra, o sarebbe meglio dire il Pd, che per le stesse ragioni elettorali e per attaccare i grillini arriva a sostenere che questo sistema conviene ai cittadini africani. Questo lo trovo vergognoso.

Repubblica 23.1.19
Intervista a Joseph Stiglitz
“La ricchezza concentrata in poche mani minaccia la democrazia”
di Eugenio Occorsio


ROMA «Ventisei super-ricchi detengono risorse pari al 50% più povero dell’umanità? Mi amareggia ma non mi stupisce. È un trend progressivo, inarrestabile: l’anno scorso la seconda di queste cifre era pari a non più del 47%». Joseph Stiglitz, economista della Columbia University di New York, legge gli sconfortanti dati dell’Oxfam, e condivide la definizione sintetica dell’organizzazione inglese (basata a Nairobi): “out of control”, una deriva fuori controllo.
«Dovrebbe rifletterci chi continua a considerare l’America un modello: questa piega degli eventi ha la sua radice proprio negli Stati Uniti». Stiglitz, dopo aver vinto il premio Nobel nel 2001 per i suoi studi sulle “asimmetrie” informative che influenzano i mercati, si dedica da molti anni alla ricerca sulle diseguaglianze e sui loro effetti devastanti in termini di sviluppo sociale e benessere collettivo: «Le ingiustizie sociali sono arrivate a un punto tale da minacciare la democrazia in tutto il mondo».
Perché, per la violenza che esplode nei movimenti di protesta come i “gilets jaunes”?
«C’è anche il pericolo che qualche demagogo si impadronisca della rabbia popolare. Le forme di attacco alla democrazia sono sofisticate e subdole. Prendiamo l’America: c’è la manipolazione dei collegi elettorali, e c’è chi dice anche i brogli. E spesso la sudditanza psicologica dei cittadini di fronte ai ricchi. È come se dovessero comandare per forza, e non solo sul posto di lavoro: io lo chiamo “capitalismo manageriale”».
E i manager medesimi guadagnano centinaia di volte in più dei loro impiegati?
«Purtroppo è così. Non c’è verso di correggere questa tendenza. Il Dodd-Frank Act, le riforma finanziaria varata nel 2010 perché non si ripetessero gli eccessi che avevano portato alla crisi, fissava paletti precisi sulle retribuzioni degli amministratori delegati, a partire da quelli delle banche, specie in termini di trasparenza: si voleva che gli azionisti avessero ben chiaro cosa avrebbe guadagnato quel dirigente. Ma la lobby dei super-ricchi, assistita dai migliori avvocati, è riuscita a non rispettare questa disposizione, a calpestarla al momento dell’emanazione dei regolamenti attuativi, insomma a non accettare limiti al proprio potere economico. Il principio say and pay degli azionisti, parla e paga, è stato disatteso. In 40 anni la quota dei redditi complessivi in mano allo 0,1% della popolazione al top è quadruplicata, gli stipendi del ceto medio sono fermi a 60 anni fa in termini reali. Ma c’è di peggio: per molti le diseguaglianze sono una tragedia vera. Pensi alla salute».
Per le carenze nell’assistenza universale?
«Non solo. La sconvolgente situazione dei Paesi poveri è sotto gli occhi del mondo. Ma anche nella stessa America, al di là delle mere statistiche sul Pil ci sono 20 milioni di poveri dei quali fra i cinque e i dieci in povertà assoluta: i repubblicani ora al potere sono riusciti a smantellare buona parte dell’Obamacare: 13 milioni di americani sono di nuovo privi di assistenza gratuita. Il tutto dettato dalle grandi aziende. E vogliamo parlare delle tasse? La riforma fiscale di Trump ha abbassato le aliquote per le aziende - il che suona come un aiuto agli amici del presidente, ma potrebbe essere accettabile perché le imprese sono tornate a investire - senza alzarle però sugli individui più abbienti, come logica avrebbe richiesto.
Invece le ha aumentate per il ceto medio. Risultato, un impoverimento brutale e diffuso».
Lei cita l’America, ma le diseguaglianze non sono un problema solo americano, anzi.
«Certo, sono diventate una costante in buona parte del mondo. E un dramma collettivo senza pari nei Paesi emergenti. La Gran Bretagna è allineata sul modello americano, la Germania sta un po’ meglio. Solo l’Australia è riuscita a introdurre norme stringenti, e a farle rispettare, che temperano lo strapotere economico dei capitani d’industria».
E l’Italia?
«Non ho studiato bene le dinamiche italiane. Però c’è una regola generale. I governi, specialmente quelli che tendono a destra, e sono sempre di più nel mondo, dovrebbero stare attenti: non è vero che tassando meno i ricchi i benefici ricadono poi sulla popolazione; è vero al contrario che spesso più deregulation, e ancora di più quando il sistema finanziario è preponderante rispetto all’economia reale, porta a più diseguaglianze, quindi più povertà e ingiustizie».

il manifesto 23.1.19
Brexit, Corbyn apre a un referendum bis


Senza accordo ci sarà il ritorno a «frontiere fisiche dure» in Irlanda. Il giorno dopo la farsa del piano B, che Theresa May ha presentato ai Comuni senza sostanziali modifiche rispetto alla prima edizione, arriva il monito della Commissione europea.
«È abbastanza ovviò che se non ci sarà un accordo sulla Brexit ciò comporterà il ritorno a frontiere fisiche tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda e ciò metterà in pericolo gli accordi del Venerdì Santo che hanno garantito finora la pace tra le due comunità», ha ribadito il portavoce della Commissione. «Ci aspettiamo che il Regno Unito ci dica cosa vuole, cosa davvero, davvero vuole», ha proseguito Margaritis Schinas citando le Spice girls.
La premier in grande affanno prosegue con le sue consultazioni allargate che potrebbero durare fino a febbraio: ha convocato i dirigenti di vari sindacati a cominciare dal leader di Unite, Len McCluskey. Jeremy Corbyn con una mossa a sorpresa apre a un secondo referendum, una possibilità fin’ora negata dal leader laburista, infilando nella raffica di emendamenti con cui intende dare battaglia alla Camera dei Comuni, anche quello su una consultazione bis.

Il Fatto 23.1.19
Fra Brexit e nostalgie Irlanda di nuovo divisa? Ora la Nuova Ira recluta
Ulster - L’autobomba a Derry come ai tempi della guerra civile. Da ex militanti delusi dal Sinn Féin sono nate nuove formazioni come il Saoradh
di Sabrina Provenzan
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“Derry è in stato di choc. Quelli della mia generazione, quaranta/cinquantenni, sono avviliti e preoccupati. Nessuno, nessuno vuole tornare alla violenza dei Troubles… Ma sui social ho visto ragazzi più giovani esultare per quello che è successo sabato. Non hanno idea di cosa è stato”.
Mary è cresciuta a Derry nel periodo dei Troubles, prima di trasferirsi a Londra per il suo lavoro di giornalista. All’immagine delle violenze settarie vuole sovrapporre quella della Derry di oggi, la città dei Festival e della rinascita sociale e culturale.
Ma l’autobomba esplosa sabato sera nel centro della città ha smosso antiche paure mai completamente sopite, malgrado la sostanziale pace garantita nel 1998 dagli Accordi del Venerdì santo che hanno messo fine alla lunga guerra civile in Ulster.
Secondo gli investigatori, l’autobomba sarebbe stata piazzata di fronte al tribunale cittadino dalla New Ira, una formazione paramilitare che la polizia nord-irlandese da tempo considera “la più grave minaccia” per una città al centro di alcuni dei più sanguinosi scontri fra nazionalisti repubblicani e lealisti fedeli alla Gran Bretagna. E la sigla New Ira, finora quasi sconosciuta, ha fatto il giro del mondo.
“Con gli accordi di pace, l’Irish Republican Army e il suo braccio politico Sinn Fein hanno abbandonato la lotta armata in favore di quella politica, e il Sinn Fein è cresciuto fino a diventare un attore politico fondamentale in Irlanda – spiega al Fatto William Matchett, agente dell’intelligence militare britannica durante i Troubles e ora ricercatore all’Edward Kennedy Institute for Conflict Prevention della Maynooth University, vicino Dublino – ma per alcuni dissidenti repubblicani quegli accordi sono una svendita della causa indipendentista, un tradimento del sacrificio di quanti hanno perso la vita per liberare l’Ulster dall’occupazione britannica. La New Ira fa parte di una galassia di piccole formazioni paramilitari decise a continuare la lotta armata. Si tratta quasi certamente di un’alleanza fra vecchi terroristi e nuove leve. I primi passano ai secondi la loro esperienza in azioni terroristiche. Ma la loro capacità militare è minima rispetto alla vecchia Ira. Non c’è nessun rischio di un ritorno di quel livello di violenza”. Per Matchett, la forza militare della New Ira sarebbe molto ridotta, fra i 10 e i 20 elementi attivi. Dieter Reinisch, che studia i postumi dei Troubles da 15 anni, parla di due o tre dozzine di elementi armati. Ma punta l’attenzione su un altro tipo di supporto, molto più ampio. L’attentato a Derry non è stato rivendicato dalla New Ira, ma mezz’ora dopo i fatti sul sito di Saoradh, il Revolutionary Irish Republican Party, è comparso un comunicato che celebrava l’azione dei Rivoluzionari repubblicani nel centenario dell’imboscata di Soloheadbag, considerata l’inizio della guerra di indipendenza contro gli occupanti britannici.
Il Saoradh è una formazione recente, creata da ex militanti delusi dalla politica del Sinn Fein. Ufficialmente i suoi leader negano ogni associazione con la New Ira, ma secondo Reinisch il Saoradh è il braccio politico dell’organizzazione armata, cui fornirebbe supporto logistico, nell’ordine di alcune centinaia di fiancheggiatori, a cui si aggiunge qualche migliaio di simpatizzanti. Sono popolari in zone molto povere di Derry come Bogside, Creggan and Shantallow, comunità repubblicane dove i benefici degli accordi di pace non sono mai arrivati e il Sinn Fein non entra. E arrivano segnalazioni di allarme da alcune scuole della zona, che riportano attività di reclutamento di giovanissimi. La roccaforte del Saoradh è Derry, ma il partito, che ha anche una sezione giovanile, si sta espandendo anche a Belfast e Dublino.
Oltre al sostegno a operazioni armate, i leader del Saoradh sono pronti a sfruttare a loro vantaggio l’ipotesi di una hard Brexit: “Dal nostro punto di vista la Brexit è stata una manna dal Cielo… può spaccare lo Stato britannico. Il ritorno di un confine fisico porterà inevitabilmente alla ripresa della resistenza contro l’occupazione britannica. Qualunque tipo di posto di blocco al confine verrà attaccato”.
Parole che risuonano forti e chiare nel vacuum politico in cui si trova l’Irlanda del Nord, senza un governo da due anni, da quando i due partiti principali, il DUP e il Sinn Fein, hanno rotto senza mai recuperarlo il delicato equilibrio di potere sancito dagli accordi di pace.
Con gli unionisti irlandesi che tengono in effetti in piedi il governo di Theresa May, la Gran Bretagna non è più vista come garante terzo di quegli equilibri, e dal punto di vista dei dissidenti repubblicani il Sinn Fein non fa abbastanza per opporsi allo strapotere degli unionisti.
Per Reinisch, l’autobomba di sabato va letta in questo contesto. “È un grosso successo simbolico, perché non ha ucciso nessuno ma ha dimostrato al mondo che la New Ira esiste e può colpire una istituzione britannica nel cuore della città. Pochi mesi fa, la polizia ha trovato un grosso deposito di armi dei dissidenti repubblicani. Sembrava un colpo mortale.
La New Ira non ha la forza militare e logistica per attacchi più gravi, ma ha dimostrato di non essere finita. E questo potrebbe accelerare il reclutamento di nuove leve”.

Repubblica 23.1.19
Spagna
Vox: destra pop e nostalgie franchiste il modello Bannon governa l’Andalusia
di Concita De Gregorio


Aznar è l’ispiratore del nuovo partito, molti leader provengono dalla sua corrente Tra i bersagli, la lotta all’indipendentismo catalano e l’opposizione alle lotte femministe

Elezioni regionali: decisivo il nuovo movimento estremista
Anche a chi non fosse appassionato di elezioni regionali in Paesi che non sono il nostro — storie minori, faccende che in fondo non ci riguardano: bisogna pur scegliere a cosa dedicarsi — potrebbero interessare le sapienti traiettorie aeree di Steve Bannon, già stratega dell’elezione di Donald Trump, la cui chioma candida compare a sorpresa in incontri riservati o agitate piazze di luoghi tra loro lontanissimi sul globo. Il Brasile di Bolsonaro, l’Ungheria di Orbán, la Francia di Marine Le Pen e ora di qualche frangia dei Gilet Gialli, l’Italia di Salvini, naturalmente, gli euroscettici di Afd in Germania e, da ultimo, l’Andalusia di Vox. Vola, Bannon, sulla mappa politica della nuova destra. Prendiamo quest’ultimo caso. Laboratorio Andaluso, lo chiamano. Il primo tentativo riuscito, in Spagna, di portare al governo l’estrema destra senza darlo troppo a vedere. La nuova giunta si è insediata venerdì scorso, 18 gennaio. Dopo quattro decadi di socialismo governa oggi in Andalusia, la regione del padre fondatore del Psoe Felipe González, un bipartito di centrodestra: Popolari e Ciudadanos. Non avrebbero la maggioranza senza quello che noi chiameremmo “l’appoggio esterno” di Vox, il partito esplicitamente neofranchista di Santiago Abascal, che ha conquistato alle ultime elezioni 12 seggi. Un ‘patto per la fiducia’, siglato nelle scorse settimane, porta le tre forze politiche a 59 seggi su una maggioranza di 55.
Vox è dunque al governo, senza ministri ma con il destino dei ministri altrui — dell’esecutivo intero — nelle sue mani. Tra i primi a rallegrarsi pubblicamente del successo di Abascal è stato Mishael Modrikamen, presidente di ‘The Movement’ a Bruxelles, il think tank di Bannon, che ha speso parole lusinghiere e ha annunciato imminente visita agli “amici di Siviglia”, popolari per gentilezza inclusi. Bannon in persona, del resto, si era incontrato ad aprile, alla vigilia della campagna elettorale, con Rafael Bardají, antico uomo di fiducia di José María Aznar e oggi membro del comitato esecutivo di Vox. Aveva garantito in quell’incontro il suo “incondizionato appoggio” alle politiche per la sovranità del popolo spagnolo e contro gli indipendentismi. Aveva assicurato il suo sostegno alle strategie per “abbassare al minimo” l’appoggio internazionale ai separatisti. È noto che una delle leve della vittoria di Vox in Andalusia è stata proprio la campagna contro El Procés, la battaglia indipendentista catalana.
Perché è così interessante per il resto del mondo, quel che accade con Vox? Perché segnala lo spirito del tempo, scrivono gli analisti che titolano i loro corsivi: “Bulli al governo”. Ma questa non è ricreazione: nessuno torna in classe, almeno in apparenza disciplinato, alla campanella.
Quello che sta accadendo in punti così lontani della mappa è un indicatore di rotta politica profondo. Siamo alla vigilia di quelle che Romano Prodi chiama ‘le elezioni del nostro destino’. Il 26 maggio si vota in Europa e, nei Paesi, in alcune Regioni e città cruciali. Per restare in Spagna: si vota a Barcellona, la più grande città europea non capitale. La città simbolo del catalanismo. Come si concilia il sovranismo (il centralismo) della nuova destra con le spinte federali? Un problema anche per la Lega, nata padana sulle rive del Dio Po. Sarà interessante, a Barcellona, osservare come il candidato sindaco Manuel Valls, ex socialista che si presenta con le insegne di Ciudadanos e con l’appoggio del Partito Popolare, si comporterà con Vox — partito con il quale dice di non voler dialogare. Ma Popolari e Ciudadanos già governano con Vox, in Andalusia.
C’è qualcosa di sotterraneo, nel consenso che raccoglie la nuova destra, qualcosa che le sigle neonate non spiegano. Che cos’è Vox, da dove arriva? Sì, sappiamo che il bel quarantenne Santiago Abascal cavalca a pelo senza sella e porta la pistola. Ma a parte l’iconografia pop. Politicamente, cos’è? Non si capisce Vox senza tornare a José María Aznar, il vecchio presidente del consiglio Popolare, arcinemico dell’esangue Rajoy. È Aznar, oggi, il king maker della politica spagnola. A volte ritornano, sono sempre stati lì. È lui il grande burattinaio di Pablo Casado, incolore segretario del Partito Popolare. È lui il più ascoltato dai giovani leader di Ciudadanos, che ha contribuito a creare come ‘forza fiancheggiatrice’. Ed è Aznar, di nuovo, l’uomo nell’ombra di Vox, l’ispiratore. Aznar, ricordiamolo, ha le sue radici politiche nell’ala destra del PP: quella di Manuel Fraga, ex ministro del dittatore Francisco Franco. Il franchismo originario, la matrice. Oggi Aznar, dall’ombra, gioca su tre fronti: suona una consolle a tre tastiere.
Vediamo. Sette dei dieci fondatori di Vox vengono dall’aznarismo.
Dall’aznarismo e dalla lotta all’Eta, il terrorismo basco, che di Aznar è stato il cavallo di battaglia.
Santiago Abascal, basco, è figlio di un politico del Partito Popolare, è stato militante del partito lui stesso, cresciuto sotto minaccia etarra e sotto scorta. Ha lasciato il PP un mese prima di registrare il suo movimento: Vox, era il novembre del 2012. La politica di Rajoy gli sembrava troppo debole.
Altri fondatori: Ana Velasco, figlia del comandante dell’esercito Jesus Velasco Ziazola, ucciso da Eta. Ortega Lara, sequestrato da Eta per 500 giorni. José Luis González Quirós, funzionario della polizia penitenziaria e animatore della fondazione politica di Aznar, la Faes, fondazione di analisi di studi sociali. Potremmo continuare.
Sette su dieci tra coloro che hanno dato vita a Vox sono vittime o parenti di vittime del terrorismo etarra. Sono stati membri del governo Aznar e suoi stretti collaboratori, quando erano nel Pp. Lo stesso Abascal, il leader, aveva un incarico di governo e uno stipendio pubblico di 80 mila euro annui. Un passo indietro.
L’embrione di Vox è stata Danaes, fondazione per la Difesa nella Nazione Spagnola. Era la fine degli Anni ’90. Aznar si mise a capo della campagna di popolo la “socializzazione della sofferenza”, la parola d’ordine con cui l’Eta aveva giustificato centinaia di omicidi. Si era alla fine di battaglia sanguinaria decennale, di cui i cittadini — tutti — erano stanchi.
Moltissimi intellettuali anche da sinistra aderirono. Basta ai morti per strada: è ora. Il Partito popolare guidava la lotta ai “nazionalismi senza Stato”: allora era il Paese Basco. Finita l’Eta, finiti i morti Aznar ha proposto lo stesso modello contro gli indipendentisti catalani: solo che qui non c’è mai stata violenza, solo il voto a un referendum popolare non autorizzato. Allora è nata la campagna contro il ‘golpismo antisovranista’. Non c’è violenza, ma ci potrebbe essere — dicevano.
È violenza democratica. Lo schema ha continuato a funzionare. Molti intellettuali sono rimasti lì, Mario Vargas Llosa a capitanare in piazza gli imbandierati delle insegne del Re ne è l’incarnazione plastica.
Danaes, la fondazione sovranista, ha partorito Vox. Aznar non si è mosso di un millimetro. Dice la filosofa Marina Gracés, una delle voci più ascoltate nelle nuove generazioni che si affacciano alla politica, che “il futuro è il nostro passato”. Tutte le rivendicazioni hanno parole d’ordine che iniziano con il prefisso re-. Re-appropriarsi, re-distribuire, re-disegnare. La difesa del passato diventa difensiva. Restaurazione.
L’autorità politica si fonda su chi siano stati i tuoi nonni, quali antenati puoi esibire. È questo già oggi il tema delle prossime elezioni catalane (la battaglia mediatica è fra chi fossero i nonni di Valls, chi quelli di Ernest Maragall) ed è il cuore identitario del ritorno della destra: chi erano, i tuoi nonni? Da che parte stavano, nella guerra civile? Le proposte politiche di Vox sono affini a quelle di Ciudadanos e del Partito Popolare. Ricentralizzare i servizi essenziali, proibire i partiti indipendentisti, abolire il bilinguismo, eliminare le polizie locali, riprendere le redini dell’informazione pubblica. Vox ha preso al suo esordio elettorale, nel 2014, 247 mila voti in tutta la Spagna: l’1,6 per cento, meno degli animalisti. È decollato ed esploso dopo la crisi catalana, ottobre 2017, coi politici della Generalitat arrestati o costretti alla fuga. Al punto 70 del suo programma elettorale c’è la “soppressione di organismi femministi radicali sovvenzionati”. La prima grande manifestazione nazionale contro il nuovo governo andaluso, il 15 gennaio, è stata delle donne. Non un passo indietro, #niunpasoatràs, hanno detto a migliaia per le strade. Il femminismo militante in Spagna è uno dei principali motori democratici. La sua influenza nel dibattito pubblico è fortissima. Le multinazionali delle auto studiano pubblicità appropriate per un pubblico sensibile al fatto che una donna (una Barbie, nel caso) voglia e possa guidare una fuoriserie. Lo stesso spot non va in onda in Italia: non funzionerebbe. Vox frusta e incita l’arcaico machismo offeso. È ora di finirla con lo scandalo dei gay, dell’aborto, dei diritti, dice Abascal: le donne stiano a casa.
Per l’8 marzo è prevista una grande manifestazione femminista. Slogan: “Volando voy”, arrivo volando. È il titolo di una canzone di Camaron de la Isla, il più grande musicista flamenco di sempre. Album: La leggenda del tempo, testi di Federico García Lorca. Un omosessuale, un pervertito, un poeta, un socialista giustamente fucilato — nel racconto della nuova vecchia destra. Con Steve Bannon, per esempio, García Lorca non ha veramente niente in comune.

il manifesto 23.1.19
Tra i Rohingya in fuga dagli hindu indiani
L'odissea dei Rohingya. Parte della minoranza etnica perseguitata in Myanmar è in Bangladesh: il pugno duro dell’India di Modi li ha trasformati in apolidi
di Giuliano Battiston


COX BAZAR (BANGLADESH) Nel campo profughi di Balukhali la vita scorre come da molti mesi a questa parte. C’è chi fa la coda per ricevere un pacco di aiuti, chi va a scuola o in moschea, chi fa la spesa nei tanti negozietti sorti come funghi, chi zappa, chi costruisce nuove strutture in mattoni, chi mastica betel.
Siamo in Bangladesh, nel distretto di Cox Bazar, in uno dei campi che dal settembre 2017 accolgono – prima nella fase dell’emergenza, ora sempre più in quella che sembra una «stabilità sospesa» – almeno 900.000 Rohingya.
COSTRETTI A FUGGIRE dal confinante Myanmar perché perseguitati, vivono nell’attesa di poter tornare a casa, ma senza timore di essere uccisi. Allungando lo sguardo sulle colline spolpate degli alberi che fino a due anni ricoprivano l’area, solo case su case, basse, in legno di bambù e tetti di plastica. Senza interruzioni.
Molte colline più in là, nel campo di Kutupalong è in corso una protesta. Un gruppetto di donne issa uno striscione e chiede a gran voce il rilascio degli uomini detenuti a Gedda, in Arabia saudita. Nelle carceri del regno dei Saud ci sono centinaia e centinaia di Rohingya, accusati di aver violato le leggi sull’immigrazione. Temono di essere deportati, come già successo recentemente a qualcuno.
La stessa preoccupazione c’è in India. Il 4 ottobre scorso 7 Rohingya sono stati deportati in Myanmar, dal posto di confine di Moreh, nello stato indiano di Manipur.
È STATO IL PRIMO SEGNO della nuova politica del governo di Narendra Modi: nessuna tolleranza per i Rohingya, ritenuti un pericolo, una minaccia all’integrità culturale e religiosa di un Paese che il primo ministro sogna soltanto hindu. E una buona carta da giocare nelle elezioni del prossimo aprile per mobilitare l’elettorale più nazionalista.
Dal rimpatrio di ottobre, per i circa 40.000 Rohingya che vivono in India sono seguiti mesi di soprusi, abusi da parte delle forze di polizia e dell’intelligence, arresti arbitrari, pressioni affinché lasciassero il Paese. C’è chi l’ha fatto: sarebbero 1.300 quelli che negli ultimi mesi, temendo di essere rispediti in Myanmar, hanno lasciato l’India per il Bangladesh. Sei uomini, nove donne e sedici bambini non ce l’hanno fatta. I 31 Rohingya hanno vissuto per anni nello stato indiano di Jamnu e Kashmir. Con in mano un documento di riconoscimento rilasciato loro, come ad altri 16.500 Rohingya, dall’agenzia dell’Onu per i rifugiati, pensavano di essere al sicuro.
MA PER IL GOVERNO DI MODI quei documenti sono carta straccia. I nazionalisti hindu invocano il pugno duro contro i «musulmani Rohinghya amici dei terroristi e spacciatori di droga», e Modi intende capitalizzare il malcontento. Il clima è cambiato: da qui la decisione che i 31 Rohingya – e prima di loro molto altri – hanno preso di partire per il Bangladesh. Da venerdì scorso fino a ieri sono rimasti intrappolati nella terra di nessuno che divide India e Bangladesh.
INUTILI I COLLOQUI tra i rappresentanti dei due paesi. Nessuna soluzione, se non quella dell’arresto da parte delle forze di sicurezza dello stato di Tripura. Per New Delhi sono un pericolo e una scocciatura.
L’India ha tergiversato a lungo sulla questione-Rohingya. Poche e tardive le posizioni ufficiali a favore della minoranza musulmana del Rakhine. C’erano i rapporti diplomatici con il Myanmar da mantenere. A dispetto dell’iniziale sostegno umanitario nei campi profughi, qui a Cox Baxar, l’India non ha giocato il ruolo che il Bangladesh si aspettava. Che lo faccia ora, è improbabile.
New Delhi ha scelto il pugno duro contro i Rohingya, profughi trasformati in apolidi. Lo stesso metodo adottato in Arabia saudita: l’8 gennaio le autorità saudite hanno deportato in Bangladesh 13 Rohingya che vivevano da anni del regno dei Saud, colpevoli di aver violato le leggi sull’immigrazione. Altri sono trattenuti da giorni nei cambi di detenzione di Gedda. Alcuni di loro hanno cominciato uno sciopero della fame. Qui nei campi profughi, nel distretto di Cox Baxar, la vita scorre come sempre, ma oggi c’è chi manifesta per loro.

il manifesto 23.1.19
La crescita cinese, i cigni neri e i rinoceronti grigi
Lo zoo di Davos. Il rallentamento cinese, crescita al 6,6, la più bassa dal 1990, preoccupa il mondo economico. Meno la leadership cinese che ai propri quadri chiede però la massima attenzione
di Simone Pieranni


La crescita più bassa dal 1990: i dati sull’economia cinese segnano un Pil al 6,6% che preoccupa il resto del mondo e pone in relativa allerta il Pcc. La leadership del paese raccomanda prudenza, ritenendo i dati sotto controllo (alcuni analisti, al contrario sospettano che i numeri cinesi ufficiali siano ritoccati); più in allarme è la comunità internazionale – riunita a Davos anche se con importanti defezioni – che negli anni scorsi ha trovato in Pechino uno dei motori più roboanti dell’economia mondiale.
Pesano i dazi, specie nell’ultima parte dell’anno – il che lascia presagire che la crescita sarà bassa pure in questo inizio 2019 – e un diffuso clima di sfiducia per l’aumento dei prezzi e per la più generale difficoltà del mercato interno cinese. Pechino ha la ricetta: il progetto della nuova via della seta punta ad allargare il campo, ampliando il mercato internazionale per le merci cinesi, mentre la corsa tecnologica dovrebbe stimolare il mercato interno e il lavoro (anche se poche riflessioni, ad oggi, sono state effettuate sui rischi dell’automazione).
Ci si chiede, inoltre, che tipo di politiche saranno adottate da Pechino: nel 2008 a fronte della crisi mondiale, la Cina aveva iniettato liquidità, portando però a una «quasi-bolla» immobiliare e a una mini crisi del sistema creditizio. Che l’economia del gigante non sia al massimo della forma lo sappiamo già dal 2016, quando a tremare fu il mercato azionario. Oggi si sono aggiunti i dazi che, per quanto ancora al di sotto di un livello di allarme, hanno portato a una contrazione della crescita.
Proprio nel giorno dell’annuncio del 6,6%, Xi Jinping ha tenuto un discorso ai quadri del partito comunista all’interno di un gruppo di lavoro dedicato alla simulazione di scenari «di rischio» di natura economico-finanziaria. Xi, dopo aver specificato che l’economia è sotto controllo, ha invitato i quadri del partito a stare bene in guardia. La Cina, ha detto il numero uno, deve fronteggiare una situazione internazionale che potrebbe farsi cupa, insieme a un generale rallentamento economico mondiale.
I dirigenti dunque dovranno prestare attenzione a tutto: Xi Jinping ha citato tanto i rischi di «cigni neri» – che nel linguaggio finanziario indica un evento inaspettato e imprevedibile – quanto i «rinoceronti grigi», eventi previsti ma sottovalutati. Si tratta dell’ennesimo richiamo del leader a questi due concetti mutuati dalla finanza: aveva citato i due fenomeni anche nel 2018. E i più attenti avevano già notato un particolare: nel discorso di capodanno del 2018, Xi aveva alle proprie spalle una libreria. I cinesi appassionati di particolari avevano così segnalato che tra i libri presenti alle spalle di Xi, oltre a classici cinesi, occidentali (spicca Turgenev) e alle opere dei suoi predecessori (compreso il grigio Hu Jintao), c’era anche il volume The Gray Rhino: How to Recognize and Act on the Obvious Dangers We Ignore di Michele Wucker.
Insieme a questo c’era un altro testo importante per comprendere l’attuale direzione cinese, Augmented di Brett King: non a caso anche nel discorso ai quadri di partito Xi Jinping ha sottolineato l’importanza dell’innovazione e della capacità cinese di spingere sull’acceleratore della tecnologia. Ma naturalmente i leader cinesi non sono certo stolti: sanno che la propria economia potrebbe rischiare. Per questo i negoziati sui dazi saranno importanti: Pechino sa di dover arrivare a un compromesso capace di non complicare la cosa che ha più a cuore: il mantenimento della stabilità interna, a sua volta dipendente dalla crescita della propria economia.

Corriere 23.1.19
Che cosa dice Xi
Dai «cigni neri» ai «rinoceronti grigi»
Le parole che in Cina tutti devono capire
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi


Gli slogan
Il presidente cinese non usa Twitter come Donald Trump, ma lancia un’infinità
di slogan di poche parole e non semplice interpretazione
Gli avvertimenti
I «cigni neri» sono incidenti imprevisti e i «rinoceronti grigi» minacce ignorate, in particolare in campo economico: il Timoniere ne ha parlato ai quadri

Cigni neri, rinoceronti grigi e i piatti da lavare con cura, perché altrimenti si sbeccano. Non è semplice per gli analisti di questioni cinesi tenere dietro al linguaggio di Xi Jinping. Il Pensiero del presidente della Repubblica popolare nonché Segretario generale del Partito comunista è stato inscritto nella Costituzione e tutti in Cina debbono (dovrebbero) conoscerlo e metterlo in pratica. Ma prima va capito e intanto il leader supremo continua ad aggiungere distillati di saggezza in ogni discorso. Gli ultimi esempi: «Più si lavano i piatti, più si rischia di farne cadere uno». «Attenti ai cigni neri» e «diffidate dei rinoceronti grigi».
Xi Jinping non usa Twitter come Donald Trump, ma lancia un’infinità di slogan di poche parole e non semplice interpretazione. Tra qualche mese dovrebbe venire in visita di Stato in Italia e quindi anche il nostro governo farebbe bene a impratichirsi dello Xi-linguaggio, che rivela le preoccupazioni del presidente per il futuro della Repubblica popolare cinese.
Veniamo al lavaggio dei piatti. Xi si rivolgeva al Politburo del Partito e osservava come la sterminata burocrazia cinese faccia fatica a mettere in pratica le politiche del governo centrale e a volte opponga anche resistenza passiva o attiva, o magari si abbandoni all’inazione per paura di sbagliare. «La montagna è alta e l’imperatore è lontano» riassume le difficoltà di far eseguire gli ordini di Pechino (ma questo è uno degli infiniti proverbi dell’impero millenario, non un parto della mente di Xi). Ai compagni invece il Segretario generale ha detto: «Noi dobbiamo indicare coraggio, volontà, capacità di svolgere il compito affidato come criterio chiave per promozioni e retrocessioni».
Significa che Xi non è del tutto soddisfatto dei quadri dirigenti, per questo ha infilato la frase su un piatto che può anche cadere e rompersi durante il lavaggio, come metafora sulla paura da superare e monito a non sbagliare e anche avviso contro la corruzione: stoviglie dove si mangia sempre pulite.
Di cigni neri e rinoceronti grigi Xi ha parlato lunedì, proprio mentre l’Ufficio statistiche diffondeva i dati sul Pil che cresce meno (6,6% nel 2018). Centinaia di dirigenti sono stati convocati a Pechino dalle lontane province e messi al corrente delle minacce per la stabilità della Cina e del Partito-Stato. Bisogna vigilare, ha detto loro Xi, perché all’orizzonte ci sono i «cigni neri», che sono incidenti imprevisti e i «rinoceronti grigi», minacce ignorate, in particolare in campo economico.
Avranno afferrato le preoccupazioni del presidente, i dirigenti di provincia incaricati di diffondere il Verbo e far sì che la Repubblica arrivi ben salda al Settantesimo anniversario della sua fondazione che cade il Primo Ottobre?
Qualche mese fa il Quotidiano del Popolo ha incaricato il suo ufficio grafico di elaborare un disegno per spiegare bene il «Pensiero di Xi sul socialismo con caratteristiche cinesi per la Nuova Era». Ne è uscita una sintesi in 30 elementi, suddivisi in sottosezioni e poi subordinate che rimandano ad altre subordinate. Il giornale l’ha lanciata sulla sua app per i telefonini dei cinesi: è una «mappa mentale», una forma di rappresentazione grafica del pensiero teorizzata dal cognitivista inglese Tony Buzan, a partire da alcune riflessioni sulle tecniche per prendere appunti. Il Renmin Ribao, come si chiama in mandarino il Quotidiano del Popolo, ha spiegato che è il caso di «studiare tutti insieme il Pensiero del compagno Xi, che rappresenta l’ideologia ispiratrice e guida del Partito per molto tempo».
Ma sul web qualcuno ha osservato che tra le ramificazioni del grafico ci si perde, che è un caos, che sembra la mappa di una metropolitana da incubo. Il giornale non si è scomposto: usate lo zoom, ha consigliato ai suoi seguaci sul web.
Quello su cui bisognerebbe riflettere, forse, è che qualcuno, nelle segrete e oscure stanze del potere cinese, è in grado di decifrare il puzzle.

La Stampa 23.1.19
Armi e affari con i regimi
In Africa Putin sfida la Cina
di Giuseppe Agliastro


Il Cremlino sta allungando i suoi tentacoli sull’Africa. Ma mentre la Cina si espande nel continente puntando su commercio, investimenti e infrastrutture, la Russia lo fa giocando la carta delle armi e quella del sostegno militare ai Paesi che vuole inglobare nella sua sfera di influenza e di cui vuole sfruttare le risorse minerarie.
Due strategie diverse ma che rischiano - visti gli obiettivi talvolta coincidenti - di scontrarsi e un braccio di ferro fra Cina e Russia è dietro l’angolo. Tra i Paesi dove Putin affina la sua strategia c’è lo Zimbabwe, sconvolto dalle violente proteste per l’aumento dei prezzi del carburante e alle prese con una grave crisi economica. Il presidente Emmerson Mnangagwa è stato costretto a rientrare in patria rinunciando a al World Economic Forum di Davos.
Qualche accordo Mnangagwa lo ha però raggiunto. Non a Davos, ma a Mosca, dove la settimana scorsa ha stretto la mano a Putin proprio mentre le strade della capitale Harare si riempivano di gente indignata e di pneumatici incendiati per tenere lontana la polizia. La Russia parteciperà allo sfruttamento di un giacimento di platino in Zimbabwe e il colosso russo dei diamanti Alrosa tornerà a investire nel Paese africano.
Il presidente dello Zimbabwe si è detto invece pronto ad acquistare dalla Russia «armi all’avanguardia» e a collaborare con Mosca per modernizzare il proprio esercito. Non è l’unico.
Dal 2014, cioè da quando i rapporti tra Mosca e Occidente si sono deteriorati a causa della crisi ucraina, il Cremlino è andato alla ricerca di nuove alleanze, anche in Africa. E così, in meno di cinque anni, ha siglato una ventina di accordi di cooperazione militare con altrettanti Paesi dell’Africa Subsahariana. Una strategia di espansione diversa da quella della Cina, che punta sull’economia ed è ormai il primo partner commerciale del continente. Ma complementare ad essa. «La Cina è il denaro e la Russia i muscoli», sintetizza l’oppositore congolese Christian Malanga. Il Cremlino fa così concorrenza a Francia, Usa e Gran Bretagna. Dal 2012 al 2017, Mosca ha raddoppiato le sue vendite di armi in Africa. Il 39% degli armamenti importati dall’Africa tra il 2013 e il 2017 proveniva dalla Russia, il 17% dalla Cina e l’11% dagli Usa. Allo stesso tempo, il valore dello scambio commerciale tra la Cina e l’Africa ammonta a 180 miliardi di dollari. Mentre quello tra la Russia e i Paesi africani, pur essendo in costante crescita, naviga su numeri molto più modesti: ha raggiunto i 17,4 miliardi di dollari nel 2017 e potrebbe aver toccato i 20 miliardi nel 2018.
I mercenari del Wagner
La Russia pare abbia posato lo scarpone in Africa anche con i mercenari del famigerato Gruppo Wagner, considerati agli ordini del Cremlino e già presenti in Ucraina e in Siria. I contractor sono stati avvistati anche in Sudan e in Centrafrica, dove la scorsa estate tre giornalisti russi che indagavano sulla misteriosa compagnia militare privata sono stati uccisi in un agguato.
In cambio di armi e addestramento, la Russia in Centrafrica può sfruttare giacimenti di oro, diamanti e uranio. Ma società russe sono impegnate anche in Guinea, dove la Rusal estrae bauxite, nonché in Mozambico, Egitto e Algeria, dove la Rosneft sviluppa la produzione di gas e petrolio, mentre in Zambia e in Egitto la Rosatom potrebbe realizzare delle centrali nucleari.
Nella sua ascesa internazionale, la Russia di Putin non perde quindi di vista l’Africa, così come l’Urss alcuni decenni fa. L’influenza americana appare invece in declino e sta lasciando a Mosca ampi margini di inserimento in quello che il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov ha definito «il continente del futuro».

Repubblica 23.1.19
Stati Uniti-Cina
La trattativa sul commercio
Pechino apre a Trump comprando il riso Usa
di Filippo Santelli


PECHINO Di riso a buon mercato, la Cina ne trova tonnellate in Asia, il giardino di casa. Non ha certo bisogno di farselo spedire dagli Stati Uniti. Eppure dopo anni di blocco, alla fine di dicembre Pechino ha dato uno storico via libera all’importazione di chicchi “yankee”. Si prevedono quantità minime, con quel che costa caricarle sulle navi. Ma per Xi Jinping è il gesto che conta. Un segnale di buona volontà verso gli agricoltori americani, cuore del consenso elettorale di Trump. Un assist alle vanterie del presidente, vendere riso ai cinsi è roba da fuoriclasse del negoziato.
L’ennesimo nuovo ordine di prodotti made in Usa, dopo gas, soia, mais Ogm e zampe di pollo.
Nella speranza che Trump si faccia ingolosire dal conto miliardario, e firmi un accordo commerciale più fumo che arrosto.
Speranza fondata, a giudicare dal parallelo timore dei falchi americani, quelli che considerano la Cina la grande rivale strategica da contenere, ora o mai più. Si è ripetuto alla nausea che la vera partita tra le due superpotenze non è lo squilibrio commerciale a favore di Pechino, ma la corsa alle tecnologie che domineranno il mondo, e che secondo la Casa Bianca il Dragone sottrae alle imprese occidentali con il ricatto o l’inganno. Eppure ora che la Cina è spalle al muro per un’economia che rallenta, che ha bisogno di un accordo entro il primo marzo per evitare nuovi dazi, Trump pare guardare soprattutto al deficit. Lo ha ammesso perfino il capo negoziatore Robert Lighthizer in audizione al Congresso: c’è il rischio che il presidente accetti un compromesso al ribasso. Specie se Wall Street avrà un’impennata di gradimento.
Per invogliarlo, a una settimana dal round di negoziati decisivo, Pechino continua ad allungare la lista della spesa. Promette un triliardo di nuove importazioni dagli Stati Uniti, che dovrebbero appiattire la bilancia degli scambi entro il 2024. Più gas naturale, la Cina ne ha bisogno. Più prodotti agricoli, giocati nei momenti chiave della trattativa. Dopo la tregua sui dazi, Xi ha fatto subito riattivare gli acquisti di soia, per la gioia degli agricoltori del Midwest. A fine dicembre ecco il riso, bloccato per anni con cavilli fitosanitari. Poi semaforo verde a cinque varietà di cereali Ogm, specialità a stelle e strisce. E ora si discute pure di riattivare il commercio del pollo, bandito dopo l’epidemia di aviaria scoppiata negli States nel 2015. La Cina è il mercato perfetto per i colossi americani, visto che è golosa di parti come le zampe, considerate scarti in Occidente.
Condite il tutto con qualche mini apertura del mercato interno, per esempio il settore auto, e voilà: il menù con cui sedurre Trump, in gran parte riscaldato, è servito.
Certo, sono state fatte balenare anche altre promesse, assai più vicine al cuore della disputa.
Pechino ha proposto una nuova legge sulla proprietà intellettuale, con ammende (ma non pene) per le aziende che la violano. E si è impegnata ad accelerare una riforma degli investimenti esteri che vieti il travaso forzato di tecnologie verso entità cinesi.
Eppure le imprese straniere che operano in nel Paese avvertono che senza un meccanismo per verificare l’attuazione delle riforme, la burocrazia comunista ha mille trucchetti per sterilizzarle. Di certo, che lo si chiami oppure no “Made in China 2025”, Xi non ha intenzione di rinunciare al balzo in avanti tecnologico del Paese, basato su massicci incentivi statali e difesa dei settori strategici.
Fonti della Casa Bianca, non a caso, spifferano che su questi temi la distanza resta abissale. Dopo mesi di escalation, dazi e controdazi, Trump potrebbe accontentarsi di un pugno di dollari. O di un pugno di riso.

Repubblica 23.1.19
La lettera
Il mercato visto da Pechino
di Li Ruiyu
L’autore è ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia


Caro direttore, a Davos il World Economic Forum ha come tema “Globalizzazione 4.0: modellare un’architettura globale nell’epoca della quarta rivoluzione industriale”. Se guardiamo alla storia, si vede che la civiltà umana è passata dalla società agricola all’era dell’informazione dopo le tre rivoluzioni industriali. La globalizzazione è diventata ormai una tendenza irreversibile che promuove l’interazione economico-sociale e lo sviluppo integrato tra paesi.
Quarant’anni di riforme e apertura hanno permesso alla Cina di integrarsi profondamente nel processo della globalizzazione e passare gradualmente da partecipante e beneficiario a leader e traino. Nel futuro, continueremo a tenere alta la bandiera della cooperazione aperta e inclusiva. Dobbiamo superare il vecchio concetto di “gioco a somma-zero” e smettere di trarre vantaggio a scapito degli altri, bensì attuare una strategia aperta di mutuo vantaggio e win- win. Come ha affermato il presidente Xi Jinping al Forum di Davos del 2017, il protezionismo equivale a chiudersi in una stanza buia: vento e pioggia possono pure restare fuori, ma resteranno fuori anche la luce e l’aria.
Manterremo e miglioreremo il sistema di regolamenti. Se il mercato è la logica che guida la globalizzazione, la governance e i regolamenti sono la base fondamentale per garantirne uno sviluppo sano. La Cina sostiene l’adesione al sistema di regole multilaterali rappresentato dall’Omc, promuovendo l’agevolazione degli investimenti globali e la liberalizzazione degli scambi, migliorando continuamente il contesto economico mondiale.
Incoraggeremo l’innovazione tecnologica. La Cina sostiene lo sviluppo guidato dall’innovazione, ottimizzando l’ecosistema innovativo. È necessario approfondire gli scambi internazionali e la cooperazione per promuovere la profonda integrazione tra Internet, Big Data, Intelligenza Artificiale e l’economia reale, incentivando lo sviluppo positivo di nuove tecnologie.
Promuoveremo uno sviluppo inclusivo e sostenibile. È innegabile che la globalizzazione economica sia ancora ad oggi insufficientemente sviluppata e non equilibrata. Uno degli scopi dell’iniziativa “ Belt and Road” è proprio incoraggiare tutti i paesi, in particolare quelli in via di sviluppo, a partecipare maggiormente alla catena del valore, per meglio prender parte alla divisione globale del lavoro, trarne maggiori benefici e costruire una globalizzazione economica più equa e inclusiva.
In un momento di grandi incertezze, si parla molto della congiuntura economica della Cina. Nel 2018, l’economia cinese è cresciuta del 6,6 per cento, gli obiettivi di controllo macroeconomico sono stati completati in maniera soddisfacente. Il valore totale dell’import- export nel commercio estero ha superato i 30 trilioni di RMB e i capitali stranieri effettivamente utilizzati hanno raggiunto gli 885,61 miliardi di RMB, creando due nuovi record. Con una popolazione di oltre 1,3 miliardi di abitanti e una fascia a reddito medio in costante espansione, la Cina è diventata il mercato più promettente al mondo.
Nel 2019 ricorre il 70° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, ed è un anno chiave anche per la costruzione di una società moderatamente prospera. Continueremo le riforme e l’apertura, valorizzando i vantaggi di alta resistenza e grande potenziale del mercato per garantire la stabilità dell’economia cinese e dare contributo a uno sviluppo equilibrato dell’economia mondiale.

il manifesto 23.1.19
Per una genealogia del pensiero radicale
Secolo breve. «Alle frontiere del capitale», a cura di autori vari, pubblicato da Jaca Book. Il volume fa parte del progetto «L’Altronovecento», una nutrita enciclopedia del «comunismo eretico». La crisi ambientale, orizzonte del nostro tempo, costituisce una grande rottura. Le classi dirigenti non offrono soluzioni né la via d’uscita tecnico-scientifica
di Michele Nani


A otto anni dall’uscita del primo volume, si avvicina al compimento l’ambizioso progetto della Fondazione Micheletti di Brescia e della casa editrice milanese Jaca Book: L’Altronovecento, una grande enciclopedia del «comunismo eretico» e del «pensiero critico» novecenteschi. Alla scansione geografica dei primi cinque volumi (due sull’Europa e due sulle Americhe, l’ultimo – ancora in lavorazione – su Africa e Asia), segue ora una raccolta di contributi sul presente, Alle frontiere del capitale (pp.416, euro 40), curato da Massimo Cappitti, Mario Pezzella e Pier Paolo Poggio.
La Presentazione dei curatori delinea la «duplice tensione» all’origine del volume: «etica», «perché con il capitalismo dilagante non si può transigere» nell’epoca in cui il rapporto di capitale minaccia le basi stesse della vita sulla Terra; «teorica», perché urgono strumenti in grado di pensare e di trasformare un mondo in pericolo. Per ricostruirli, i principali punti di riferimento sono qui offerti dal «comunismo eretico», cioè dalle «esperienze radicali che non si sono declinate in forma di partito o di Stato, entrambi manifestazioni del potere concentrato della modernità».
IN REALTÀ, IL VOLUME prescinde da una partizione così drastica, che in fondo offrirebbe consolazione ideologica a una ragione vittimistica: il racconto di un’«eresia» rivoluzionaria sconfitta spiegherebbe in maniera riduttiva (la repressione convergente dell’«ortodossia» sovietica e del nemico di classe) perché storicamente non si siano invertiti i rapporti fra le parti; e non permetterebbe comunque di capire perché dopo il 1989 la crisi del socialismo reale ha trascinato con sé non solo le socialdemocrazie, ma anche le diversissime forze politiche alla sinistra del comunismo maggioritario.
Raccogliere in un solo volume le esperienze odierne di critica radicale al capitalismo è compito assai impegnativo. Forse avrebbe giovato un riferimento ad altri tentativi contemporanei, come quello del sociologo svedese Göran Therborn (From Marxism to Post-Marxism, Verso 2008; New Masses?, New Left Review, n. 85, 2014). La mappa che ne risulta è inevitabilmente parziale e selettiva, ma anche diseguale per genere di contributo (dal saggio teorico ai semplici appunti), per orizzonte disciplinare e, va detto, anche per effettivo rilievo e chiarezza di lettura. Oltre a questa natura variegata, anche la mole del libro (quattrocento pagine fittissime) e la sua articolazione in cinque blocchi (Ecologia e socialismo; Lavoro e capitale; Soggettività e forme di vita; Oltre la politica; Brecce) rende impossibile una trattazione unitaria.
FRA I MOLTI POSSIBILI, un filo per attraversare il volume, richiamato a più riprese dalla Presentazione, può essere offerto dal rapporto con la storia, un tratto rivelatore in un tempo assediato dal «presentismo» (François Hartog). Contro la «naturalizzazione» del capitalismo in un «presente astorico», ma senza cedere al rifugio nella memoria del passato o alla celebrazione delle aperture del «nuovo», Massimiliano Tomba invita a pensare, sulla scorta dell’ultimo Marx, di Benjamin e di Bloch, all’assemblaggio odierno di temporalità diverse. Il farsi globale della storia umana, sincronizzata dal «valore» forgiato dal rapporto di capitale, produce immancabilmente «anacronismi», che sono forieri di sviluppi alternativi: non come ritorno a forme sociali passate, ma per le opportunità presenti che dischiudono.
La presenza di modalità di relazione non mercantili e le anticipazioni di un diverso modo di vivere che si danno nel momento della lotta e dell’organizzazione rappresentano tensioni che orientano il presente verso un diverso futuro – un tema al centro anche dell’intervento di Kristin Ross sull’attualità della Comune parigina nelle lotte in difesa del territorio, come quelle della Zad francese e dei No-Tav valsusini.
LA FINE del «progressismo» informa anche il saggio di Pier Paolo Poggio: la crisi ambientale, orizzonte del nostro tempo, costituisce infatti una rottura storica. Se l’indifferenza e l’inerzia di fronte ad allarmi ormai quotidiani accomunano gran parte delle classi dirigenti, non offrono soluzioni né la via d’uscita tecnico-scientifica (adattarsi a un mondo artificiale), né la teorizzazione di uno «sviluppo sostenibile» (civilizzare il capitalismo). Si delinea invece un’alternativa a partire dai conflitti ambientali e dalla critica degli usi e delle appropriazioni della scienza e della tecnica, verso una conversione ecologica della società che ponga limiti alla distruzione della Natura, ad esempio riducendo i consumi energetici e la produzione di rifiuti, ristabilendo forme di circolarità e valorizzando un settore primario de-industrializzato.
Come ribadisce Michael Löwy questa prospettiva «ecosocialista» richiederebbe una «politica economica fondata su criteri non monetari ed extraeconomici», dunque la fuoriuscita dal capitalismo, verso una società a piena occupazione con il controllo pubblico sui mezzi di produzione, attraverso una pianificazione democratica e partecipata che soddisfi i bisogni (cibo, alloggio, vestiario) e i servizi (salute, educazione, comunicazioni e cultura).
QUESTO «COMUNISMO solare» trova una suggestiva formulazione nello scritto di Giorgio Nebbia, uno dei padri dell’ecologismo italiano, che si riallaccia alla tradizione utopistica con una Lettera dal 2100. Vi si descrive una «società postcapitalistica comunitaria» retta dalla «proprietà collettiva» e tesa a minimizzare le scorie inquinanti: un arcipelago di piccoli insediamenti resi autosufficienti dal decentramento di produzione di energie rinnovabili. Il rapporto fra marxismo e utopia è al centro del contributo del compianto Miguel Abensour, alla cui memoria è dedicato il volume.
NELL’IMPORTANTE SAGGIO dello storico Karl-Heinz Roth si propone una riformulazione della critica marxiana dell’economia politica alla luce degli sviluppi storici, ampliando le forme che contribuiscono alla valorizzazione (lavori non salariati, riproduzione, natura) e introducendo maggiore attenzione all’espropriazione delle popolazioni messe al lavoro e al peso della rendita fondiaria: il capitalismo vede il continuo ripetersi di dinamiche di «accumulazione originaria», a permanente sconvolgimento della natura e della società. Si deve a un sociologo, Ferruccio Gambino, un ricco profilo del lavoro contemporaneo, a partire dalla compresenza di forme di lavoro coatto (dominate dalla «paura» per la propria incolumità) e di salariato più o meno precario (che genera «timore» di disoccupazione).
DI QUESTA SITUAZIONE, articolata dal diritto o meno alla mobilità, si traccia un’interessante genealogia secondo-novecentesca, a partire dall’esperienza statunitense, precoce ispirazione per il resto d’Occidente, dalle realtà postcoloniali, laboratori di precarizzazione, e dal «tradimento» (con Raniero Panzieri) del movimento operaio europeo che è alle radici della frammentazione estrema del lavoro contemporaneo.
Il volume presenta contributi interessanti, anche se spesso parziali, su molti altri aspetti del presente, dalla cultura di massa (Daniele Balicco) alla forma-Stato (Alessandro Simoncini), e insiste opportunamente, nel contributo di Carlo Tombola, sull’orizzonte della catastrofe atomica globale e sulla proliferazione della produzione di armi, usate soprattutto in guerre contro i civili. Piace tuttavia chiudere con una nota di speranza nell’«esperienza plebea», che si presenta, secondo il contributo di Martin Breaugh, in ricorrenti lotte per allargare la democrazia, che hanno il loro paradigma nell’Aventino dell’antica Roma e le loro ultime incarnazioni nelle Primavere arabe e in Occupy Wall Street.

il manifesto 23.1.19
L’Academy promuove Netflix, tappeti rossi per lo streaming
Oscar 2019. Dieci nomination a «Roma» di Cuarón e alla «Favorita» di Lanthimos. In corsa anche «Black Panther» e «Cold War». Una candidatura ai fratelli Coen con «La Ballata di Buster Scruggs»
di Cristina Piccino

Alla fine Netflix ce l’ha fatta nonostante le critiche, i malumori, gli sbarramenti è riuscita a imporsi trionfalmente a Hollywood conquistando dieci nomination per Roma, e anche la nomination per la migliore sceneggiatura non originale a The Ballad of Buster Scruggs di Ethan e Joel Coen. Sembra quasi un paradosso, specie visto da qui, il tappeto rosso steso dall’Academy al colosso dello streaming che del «cinema», inteso come sala, è uno dei «nemici» maggiori. Certo i tempi sono cambiati e così la fruizione dei film, tablet, pc, smartphone e quant’altro, la «filosofia» Netflix appunto, ma al di là delle possibili riflessioni estetico-filosofiche sulla visione oltre la sala delle immagini in movimento – peraltro già da tempo e prima dei colossi dello streaming al centro di pratiche artistiche e critiche – e delle annotazioni sulla convivenza «felice» tra sala e piattaforma (di cui però non si ha riscontro perché Netflix in tutto il mondo ha chiesto agli esercenti di non rendere pubblici gli incassi di Roma), questa decisione è il segnale che qualcosa sta forse cambiando nel sistema dell’industria americana: un riposizionamento obbligato in vista dell’immediato futuro? Una scelta di mercato?
DI CERTO la sorpresa di questa 91a edizione la cui cerimonia sarà il prossimo 24 febbraio per ora senza un presentatore e senza alcuna regista nominata, l’anno dopo il #MeToo quando però era stata ignorata Kathryn Bigelow con Detroit, probabilmente troppo disturbante. Insieme alla nomination (finalmente) a miglior regista e film – tra le altre – per Spike Lee, col magnifico BlacKkKlansman, amoroso omaggio all’irriverenza della blaxploitation che unisce l’America razzista e separatista degli anni ’70 a quella trumpista di oggi. Per il resto tutto previsto – Bohemian Rhapsody; Green Book; A Star Is Born; Vice – compresa la nomination a Black Panther a miglior film per il quale era stata istituita (e poi cancellata) la categoria del film popolare.
Roma del già premio Oscar Alfonso Cuaròn per Gravity, Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia, si afferma in tutte le categorie principali – oltre al miglior film straniero che era persino scontato: miglior film, regia, attrice protagonista per Yalitza Aparicio, attrice non protagonista Marina de Tavira, fotografia lo stesso Cuaròn, sceneggiatura originale. E al di là dell’affaire Netflix non è poi così sorprendente: la vita di Cleo, la donna di servizio di casa Cuaròn, in cui si rispecchia quella della famiglia del regista, e del Messico negli anni Settanta raccontato su quella linea netta, anche quando non palesemente dichiarata che divide la borghesia benestante del quartiere di Città del Messico che dà il titolo, e il sottoproletariato indio a cui Cleo appartiene, è uno di quei film perfettamente riusciti per essere amato: alta qualità e emozione, scelte non scontate – girare in mixteco, la lingua di Cleo, e in spagnolo e in bianco e nero – una temperatura emozionale che tocca ogni sfumatura con equilibrio, grazia, dolcezza e che sa spostare lo sguardo.
NON COME il suo più diretto rivale La favorita (targato Fox Searchlight, lo studio che sta per essere assorbito dalla Walt Disney Company)del regista greco ora hollywoodiano Yorgos Lanthimos, in sala domani – anche questo visto a Venezia, e per il festival diretto da Alberto Barbera è di nuovo una importante affermazione – gelida e compiaciutissima variazione sul potere, e sulle sue diverse applicazioni pensata invece «per piacere» nelle superfici- cast, costumi, virtuosismi di luci di candela e grandangoli. Proprio come l’altro nominato a sorpresa nella categoria del miglior regista – oltre che per il film straniero – Cold War di Pawel Pawlikowski, in un bianco e nero d’epoca « abbagliante» – nel senso peggiore – del film di confezione, che dichiara a ogni fotogramma la sua importanza da «capolavoro» – caratteristica questa che deve convincere molto l’Academy.
E INFATTI uno dei film più intensi della stagione, cioè First Man non c’è, se non in qualche premio tecnico, eppure del superoscarizzato Chazelle è il film più bello, ma a differenza di La La Land è pieno di spigoli, e di malinconia, non progettuale né programmatico, entra intimamente, quasi come un film familiare, nella dimensione pubblica e nascosta del suo celebratissimo «eroe», il primo uomo a mettere piede sulla luna…Così come è stato ignorato Suspiria di Luca Guadagnino – nemmeno la musica magnifica di Thom Yorke – altro film che chiede un riposizionamento, che tradisce ogni genere, che gioca tra gli specchi, e i riflessi invisibili, della storia e del cinema.
NETFLIX non ha scommesso per caso su Cuaròn e su questo film, chiudendo un budget per un progetto su cui nessuno era disposto a investire – come spesso il regista messicano ha spiegato – e ha saputo utilizzare e gli entusiasmi dalla prima proiezione consapevole di avere la chiave d’accesso giusta per un salto di livello. Così ha permesso l’uscita in sala prima dello streaming – cosa mai accaduta – seppure per una decina di giorni, e soprattutto ha giocato la partita nella campagna di promozione con un investimento di 25 milioni di dollari e la strategia affidata a Lisa Taback artefice delle campagne per Chicago e The Artist. E comunque vada la notte delle statuette ha già vinto.

La Stampa 23.1.19
Così Cuarón sposta i confini del Messico
di Piero Negri


Al primo strato, «Roma» di Alfonso Cuarón, il film messicano che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia e ha appena ricevuto dieci nomination agli Oscar, è un’opera sulla memoria. Cuarón dice che al 70% è fatto di ricordi, la casa in cui è cresciuto è stata ricostruita sul set esattamente com’era, dettaglio per dettaglio, mobile per mobile. Colpo di genio: il personaggio più autobiografico, secondo di quattro fratelli bambini e adolescenti, non ha alcuna centralità nella storia. Al secondo strato, «Roma» è un film su una famiglia borghese nella Città del Messico degli Anni 70, sui complessi rapporti che si instaurano tra una donna abbandonata dal marito, i suoi figli e le due donne di servizio conviventi che vengono dalla campagna.
Un film sui sensi di colpa del piccolo Cuarón nei confronti della governante che l’ha cresciuto? Forse più sulla gratitudine: quella donna esiste ancora, si chiama Liboria Rodríguez, il regista ha raccontato che l’ha sempre chiamata «Mamá». Al terzo strato, «Roma» è un film sulla storia del Paese centramericano, sulla repressione che seguì il locale Sessantotto, sul Massacro del Corpus Christi (1971) in cui 120 giovani, perlopiù studenti, morirono per mano di forze paramilitari addestrate anche negli Usa (e per quanto Cuarón questo aspetto non lo approfondisca, a nessuno sfugge che le dieci nomination, nei giorni in cui il Muro al confine col Messico divide gli americani, hanno un significato politico preciso).
Si potrebbe andare avanti con gli strati di significato, ma non sarebbe giusto: il vero miracolo di «Roma» sta nel modo in cui racconta ciò che racconta. Non solo per il bianco e nero, frutto degli ultimi sviluppi del digitale, eppure post-prodotto da Cuarón in modo da ricordare le fotografie novecentesche di Ansel Adams. Non solo per il ritmo, né lento né veloce, che si fissa nella prima scena - uno sciabordio di acqua e detersivo sul selciato che rimanda al momento cruciale, a bordo mare, di due ore dopo - e che è, appunto, il ritmo dei ricordi. Non solo per i movimenti di macchina insoliti e insistiti, un’ampia panoramica orizzontale che mima - si direbbe - lo sguardo di un ragazzino sul mondo, la scoperta di sé attraverso le storie e le persone che incrociano la sua prospettiva.
Insomma, «Roma» è uno di quei film per cui dire mi piace/non mi piace non ha troppo senso. È un film che sposta in avanti molti limiti, di linguaggio e non solo, che va visto, e basta. Che merita le nomination e gli Oscar che probabilmente avrà. Si può perfino dimenticare che sia stato distribuito da Netflix e che anche per questo segni un punto di non ritorno: mai un film della piattaforma online aveva avuto tanti riconoscimenti (e tra questi, il successo in sala: in Italia lo proiettano ancora una decina di cinema, 900 nel mondo). Si dice che la campagna per l’Oscar messa in campo da Netflix sia una delle più costose di sempre (20 milioni di dollari), ma questo attiene al business, e per una volta possiamo dimenticarcene. Perché «Roma» riconcilia e modernizza l’idea di cinema d’autore: Cuarón è candidato all’Oscar come produttore, come regista, per la fotografia e la sceneggiatura. Rappresenta il ritorno a casa di un uomo che ha fatto fortuna a Hollywood e che con «Gravity» (2013) ha vinto sette Oscar. «Non è cinema, si tratta di vita», ha detto lui e per una volta è possibile crederci.

La Stampa 23.1.19
Marmi pregiati, ulivi secolari e castità
Nel tempio da Guinness dei mormoni
di Maria Corbi


Dimenticate le carovane con gli uomini dalle lunghe barbe e i cappelli neri, dediti alla poligamia. Oggi i mormoni non hanno nulla di pittoresco e quell’immagine rimane buona per il cinema o per piccole comunità super ortodosse che resistono nell’America più profonda. Il moderno fedele della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (chiamateli così perché «mormoni» è un termine che considerano gergale), è assolutamente integrato sia nella forma sia nella sostanza con la società dove vive. E basta osservarli qui, in questa fetta periferica di Roma sulla Nomentana, dove è sorto il primo Tempio italiano, il più importante d’Europa, per accorgersi di quanta distanza ci sia tra l’immaginario e la realtà.
In Italia i credenti sono oltre 26mila e crescono a ritmo esponenziale grazie al grande lavoro di proselitismo fatto dalla Chiesa attraverso le forze più giovani, ragazzi tra i 18 e i 25 anni mandati in missione a raccontare il libro di Mormon - scritto nel 1830 dal fondatore del culto Joseph Smith – e il percorso di fede che non porta solo alla felicità eterna ma soprattutto a quella terrena, come ci spiega Alessandro Dini -Ciacci, rappresentante della Chiesa per l’Italia. Anche lui come tutti i «mormoni» devolve il 10 per cento di quanto guadagna (la decima) all’organizzazione. E fatevi due conti, pensando che in Europa parliamo di 500mila persone, ma nel mondo di quasi 17 milioni.
E della ricchezza di questo impero dedicato a Cristo le tracce sono evidenti in questo tempio romano che copre 60mila metri quadrati e comprende diversi edifici oltre a curatissimi giardini con fontane, aiuole, cespugli all’italiana e olivi secolari. Nel Tempio vero e proprio si cammina su pavimenti di marmo rosa coperti da tappeti con ricami che richiamano l’ovale di piazza del Campidoglio, ma anche la forma perfetta del simbolo dell’infinito. Nessun dettaglio è lasciato al caso. I mobili sono di legno pregiato e con fregi dorati. I lampadari coreografici brillano di mille cristalli o dei vetri di Murano, le pareti sono affrescate con paesaggi dei luoghi più belli d’Italia, pesanti coppe di cristallo fanno bella mostra sui comò antichi. La «piscina» battesimale è sorretta dalle statue di 12 buoi, che rappresentano le 12 tribù di Israele. Uno sfarzo giustificato dalla fede, come spiega Dini-Ciacci: «Il Tempio come è scritto nella Bibbia deve essere costruito con i migliori materiali, usando le migliori maestranze».
Le funzioni domenicali sono svolte nella grande cappella di uno degli edifici che fronteggiano il Tempio dove invece si celebrano cerimonie speciali tra cui i matrimoni e anche i battesimi degli antenati. Perché i legami familiari per i mormoni sono eterni e dunque occorre preoccuparsi anche della salvezza di chi ci ha preceduto sulla terra. Da cui l’importanza che questa Chiesa ha assunto come centro di raccolta di dati «familiari». E la Biblioteca genealogica della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, che si trova a Salt Lake City, nello Utah, è la più grande biblioteca genealogica al mondo con documenti provenienti da più di 100 paesi , che riguardano più di due miliardi di persone decedute. Tra cui anche documenti ecclesiastici inglesi del XIV secolo alle storie africane trasmesse oralmente. Così, spiega Dini-Ciacci, «abbiamo firmato anni fa un accordo con il Mibac per l’acquisizione di dati genealogici dagli archivi di Stato risalenti a 110 anni fa e oltre, andando a ritroso». La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Gorni ci «guadagna» la salvezza degli antenati, mentre lo Stato italiano il lavoro di digitalizzazione gratis. A Roma il «Family search» si trova in questo comprensorio dalle mille e una notte, dotato di modernissimi computer che custodiscono preziosi dati di tutti noi.
Diventare mormoni non è semplice. «Più facile uscire dalla Chiesa che entrarci», dice Dini-Ciacci. «Perché occorre rispettare i nostri comandamenti». Prima di tutto la legge di castità che impone l’astinenza sessuale prima e fuori del matrimonio. Matrimonio che «può essere solo tra un uomo e una donna come dice la Bibbia». Quindi niente matrimoni gay. «Ma non siamo omofobi», ci tiene a precisare Dini-Ciacci. «Le persone gay possono entrare nella Chiesa come tutte le altre ma devono anche rispettare le regole, tra cui la castità. Nello Utah la Chiesa ha sostenuto la legge più avanzata degli Stati Uniti in tema di diritti civili». E già che ci siamo ecco il tema delle donne che nella fede mormone sarebbero subalterne al marito e dedite alla cura dei figli. «Non è vero», assicura Dini-Ciacci, «hanno pari dignità, diritti e doveri». E il sacerdozio? «Quello no, perché Dio lo ha riservato agli uomini». E c’è da scommettere che non cambierà idea anche se in questa Chiesa parla continuamente con il «Profeta» e i 12 apostoli a capo della Chiesa a cui dà le indicazioni per i fedeli.
Tra le altre regole c’è quella «economica» del versamento della decima, quella «penitenziale» che impone due pasti di digiuno la prima domenica del mese e quella «salutare» che vieta fumo, alcool, caffè e the. Ma nonostante questo sono tanti i giovani che si avvicinano alla Chiesa. «Forse perché oggi non trasgredire è la vera trasgressione», come ci dice una signora americana arrivata a visitare il tempio (che sarà aperto a tutti fino a metà febbraio).

Repubblica 23.1.19
Lo studio di Eurobarometro
Ue, lo spettro dell’antisemitismo cresce l’allarme anche in Italia
di Alberto D’Argenio


Il 58% degli italiani lo considera un problema e per il 31% è un fenomeno in aumento. Svezia e Germania i Paesi più a rischio
Dal nostro corrispondente
bruxelles
Oltre un italiano su due è preoccupato dall’antisemitismo. Il dato emerge dall’Eurobarometro pubblicato ieri dalla Commissione europea, il giorno successivo alla polemica che, lunedì, ha coinvolto il senatore 5S Elio Lannutti, autore di un post che ha rilanciato i Protocolli dei Savi di Sion, falso storico di inizio Novecento alla base dell’odio moderno nei confronti degli ebrei. Quello degli italiani è un sentimento condiviso dagli altri cittadini dell’Unione, anche se sull’aumento della minaccia antisemita stando al sondaggio — che ha coinvolto 27mila persone — sembra esserci un problema di percezione in tutto il continente: se l’89% degli ebrei ritiene che negli ultimi 5 anni rischi e intolleranza nei loro confronti siano aumentati, l’allarme è condiviso appena dal 36% del resto della società europea e solo dal 31% per cento degli italiani (siamo i decimi da questo punto di vista nell’Unione).
Per il 39% della popolazione dell’Unione, infatti, l’antisemitismo è stabile mentre per il 10% è in diminuzione. In otto paesi la maggioranza degli intervistati ritiene comunque che, a prescindere dall’aumento della minaccia, sia un problema: si tratta di Svezia (81%), Francia (72%), Germania (66%), Olanda (65%), Regno Unito ( 62%), Italia ( 58%), Belgio ( 50%, ma il 49% non lo ritiene minimamente un problema) e Austria (47%). Tuttavia in 20 paesi la maggioranza dell’opinione pubblica pensa che l’antisemitismo non sia un tema di cui preoccuparsi: spiccano i casi di Estonia ( solo il 6% percepisce un rischio contro l’86%) e Bulgaria (10% vs 64%).
Interessante scorrere i dati per ogni singola categoria del sondaggio, pubblicato in vista della Giornata della memoria. Ad esempio, per il 52% delle donne l’antisemitismo rappresenta un problema, contro il 48% degli uomini. La percezione degli over 40 cambia rispetto ai giovani: per il 52% dei più maturi è un problema, mentre nella fascia tra i 15 e i 24 anni lo è solo per il 46%. E ancora, per il 54% di coloro che hanno completato gli studi l’odio verso gli ebrei è preoccupante, mentre la percentuale scende al 44% tra coloro che hanno smesso di frequentare la scuola a 15 anni (44%) o a 19 (49%).
La percezione varia anche a seconda delle amicizie, per cui risulta più consapevole dei rischi legati all’antisemitismo (64%) chi ha amici ebrei o chi (59%) frequenta musulmani. Tra coloro che hanno rapporti solo con persone della propria religione o etnia, invece, la preoccupazione si ferma al 42%.
In generale il negazionismo è considerato il rischio numero uno (in Italia dal 61% degli intervistati), seguito dall’antisemitismo su Internet, dai graffiti contro la comunità ebraica e dalle minacce fisiche nei luoghi pubblici. Il 68% degli europei considera che nel proprio paese non ci sia abbastanza informazione sulla storia e sulle pratiche religiose degli ebrei, mentre il 43% pensa che l’Olocausto sia insegnato in modo sufficiente a scuola (il 42% la vede nel modo opposto). E infine il 54% degli europei — specialmente nel Nord e nell’Est dell’Unione — ritiene che il conflitto in Medio Oriente abbia un’influenza sulla percezione degli ebrei nel proprio Paese.

Repubblica 23.1.19
Intervista a Emanuele Fiano (Pd)
“Io, figlio di un deportato ricevo minacce ogni giorno”
di Alessandra Longo


ROMA «Mi insultano ogni giorno, mi minacciano di morte, mi scrivono, anche in queste ore, parole irripetibili. Mi preoccupa lo sdoganamento etico di sentimenti che credevo più circoscritti».
Emanuele Fiano è un politico del Pd ma è anche e soprattutto un ebreo, figlio di Nedo, l’unico scampato di un’intera famiglia ad Auschwitz. La miseria del tweet di Elio Lannutti — il senatore M5S che cita il falso storico dei protocolli dei Savi di Sion — non lo stupisce. È sale su ferite sempre aperte.
Fiano lei crede che in Italia sia cambiato il clima? Sente il fiato sul collo di un nuovo antisemitismo?
«Anche nel secolo scorso ai momenti di disagio sociale ed economico corrispondeva la ricerca del corpo estraneo, del nemico, del complotto. Siamo in una fase di sdoganamento del linguaggio, delle parole, pronunciate senza pudore».
Parole rivolte anche a lei, in quanto ebreo, immagino.
«Insulti quotidiani, a volte irripetibili, come adesso per la vicenda Lannutti».
Se la sente di farci capire il tipo di cose che le scrivono?
«Mi dicono: “Con te avremmo risolto ogni problema alla radice se anche tuo padre fosse finito nel forno ad Auschwitz”».
Ha paura?
«A volte sì, sono insulti che lasciano inquietudine. Ma la politica è una medicina. Ci insegna, non solo quella del mio versante, che la realtà si può cambiare. Vivo questa recrudescenza, per fortuna minoritaria, come figlio di mio padre. Lui mi ha insegnato: mai mollare, mai piegare la schiena».
Suo padre Nedo, matricola Auschwitz A5405, a 18 anni ha perso tutti. “Quest’esperienza così devastante — scriveva — ha fatto di me un uomo diverso, un testimone per tutta la vita”.
«Mio padre, finché ha potuto, ha portato i ragazzi nei campi di concentramento, come fanno ancora Sami Modiano e Liliana Segre che, per me, è una zia. Tutti e tre dicono la stessa cosa: è l’indifferenza la peggior cosa, è l’indifferenza che uccide».
Cosa fa dei messaggi che riceve?
«Denuncio le minacce, cancello le ingiurie. Solo quando fiuto dietro chi scrive un briciolo di ragionamento, provo un dialogo».
Lannutti si deve dimettere?
«Sarò sempre grato al presidente Mattarella per aver nominato senatrice a vita Liliana Segre. La stima di cui gode, la sua levatura morale, la sua battaglia, sono già una risposta. La richiesta di dimissioni è giusta ma Lannutti ha già avuto la dimostrazione di quanto sia minoritaria l’idea che rappresenta».
Chi erediterà il ruolo dei sopravvissuti per tenere alta la memoria?
«Questo è il vero problema che dobbiamo porci. Davide Bidussa ha scritto un libro che evoca il vuoto imminente. Si intitola: Dopo l’ultimo testimone .
Come si sente da ebreo in questo Paese?
«C’è chi si augura la mia morte ma sono anche circondato da amici e la stragrande maggioranza degli italiani rigetta l’antisemitismo.
Anche qui vivo da figlio di mio padre. Lui diceva sempre: «Emanuele, ricorda, il sole sorge sempre la mattina dopo, la storia continua».
Deputato Pd
Emanuele Fiano, 55 anni, è deputato e responsabile nazionale Riforme del Pd

Repubblica 23.1.19
Desmond Morris “Noi umani felicemente entrati nella fase tribale”
La scienza degli animali, l’amore per l’arte. La scimmia e l’evoluzione tecnologica. L’aggressività diffusa e il razzismo negli stadi. Parla il grande etologo, che domani festeggia il compleanno e ha appena finito il nuovo libro
Intervista di Marino Niola


Nella casa del più grande zoologo del mondo non ci sono animali. Fatta eccezione per una tartaruga che da quarant’anni bruca l’erba del suo grande giardino di Oxford. Alla sua età, 91 anni domani, non vuole prendersi degli animali che vivrebbero più a lungo di lui. E su questa nota dolceamara Desmond Morris, che abbiamo raggiunto grazie al suo editore Bompiani, dà inizio a un dialogo a tutto campo.
Oltre che come etologo, lei è celebre anche come pittore surrealista. In che modo convivono l’artista Desmond e lo scienziato Morris?
«Ho sempre avuto una doppia vita. Fin dagli anni della scuola mi barcameno tra l’oggettività scientifica e l’intuizione artistica.
La posta in gioco è comunque la visione. La differenza è che in un caso si tratta di osservazione analitica, mentre nell’altro di una visione visionaria».
Le sue due metà si sono unite quando ha trasformato uno scimpanzé in un pittore di successo. Persino Picasso comprò un suo quadro.
«Congo era straordinario».
Quale dote gli invidiava?
«La forza. Quattro volte superiore a quella di un uomo nerboruto. In molte situazioni mi avrebbe fatto comodo».
Alcune sue espressioni sono entrate nel linguaggio comune. La “scimmia nuda” ha ispirato perfino una canzone.
«Sì, un bellissimo testo. Francesco Gabbani è anche venuto a trovarmi qui a casa e gli ho fatto i complimenti».
Ma anche “zoo umano” e “tribù del calcio” sono altrettanto celebri.
«La mia preferita è “la città non è una giungla di cemento, ma uno zoo umano”. Quando scrissi The Human Zoo, cinquant’anni fa, ragionavo sulle nostre megalopoli che sono l’opposto dei villaggi in cui l’uomo ha vissuto per millenni. E il fatto che le città funzionino e non precipitino nel caos è un miracolo evolutivo.
Nessun animale sarebbe in grado di adattarsi così tanto».
La rivoluzione tecnologica sta cambiando la scimmia nuda?
«Rispetto alla fase tribale della nostra evoluzione ora viviamo in mega tribù, dove non conosciamo il dirimpettaio, ma siamo connessi con tutti».
Siamo passati dalla società face to face a quella face to Facebook.
«Esatto. E nel prossimo futuro potremo interagire con ologrammi di persone, fisicamente lontane, ma proiettate in 3D nella nostra stanza. Sarà una svolta epocale».
Che cosa dobbiamo ancora imparare dagli animali?
«Che la guerra è sempre la peggiore delle soluzioni. Non a caso nel mondo animale il ricorso alla violenza fisica è l’estrema ratio. E non per ragioni morali, ma perché anche chi ha la meglio può comunque buscarsi delle ferite che potrebbero essergli fatali. In realtà gli scontri fra animali sono dei tira e molla, gesti di intimidazione e segnali di resa.
Come diceva Churchill, la discussione più violenta è comunque meglio della guerra meno cruenta».
C’è qualcosa di etologico nella paura degli stranieri?
«Certo. Siamo animali tribali e preferiamo istintivamente le persone più vicine a noi. È una tendenza naturale, che però può sfuggirci di mano. Un eccesso di familismo ci rende aggressivi con gli estranei. Un eccesso di patriottismo, conduce dritto al conflitto con altri popoli.
Insomma dobbiamo tenere sotto controllo questa tendenza naturale a vedere gli altri come potenziali nemici.
Negli stadi italiani imperversano i cori razzisti. C’è anche qui una spiegazione etologica?
«Più che altro sociale. In realtà se a fare goal sono i giocatori di colore della nostra squadra, la tifoseria esulta e li osanna. Mentre insulta quelli delle squadre avversarie. Insomma, il nostro nero è un eroe, il loro è un selvaggio. Ma questo non è razzismo nel senso pieno della parola, è piuttosto un comportamento tribale. Proprio per questo intitolai il mio libro La tribù del calcio. Perché questo sport è l’ultimo rifugio del
tribalismo».
Però per la legge le offese razziste esistono eccome.
Tanto è che il nostro vice presidente del Senato Calderoli è stato condannato per aver dato dell’orango all’ex ministra Kyenge.
«Certamente».
Paradossalmente aumenta il rispetto per gli animali e diminuisce quello per gli umani. Cosa pensa dell’antispecismo dilagante?
«Secondo questa teoria dovremmo trattare le altre specie come uguali a noi. Di fatto la sensibilità antispecista nasce dall’indignazione di fronte agli animali sacrificati nel corso di esperimenti. O immolati sul capriccioso altare della caccia.
Nel mio lavoro di zoologo ho sempre rifiutato il ricorso alla sperimentazione con cavie. Io gli animali, uomini inclusi, mi limito a osservarli senza interferire.
Tuttavia è inutile nascondersi che esista una deriva nell’antispecismo, perché è evidente che non possiamo trattare come nostri simili ratti, scarafaggi e parassiti. Pulci e pidocchi vorremmo vederli estinti».
La diffusione crescente dell’animalismo va di pari passo con quella del vegetarianismo. È il segno che stiamo diventando più evoluti o più primitivi?
«La nostra specie si è sviluppata perché siamo diventati cacciatori e siamo stati capaci di procurarci una dieta di qualità superiore rispetto agli altri animali. Noi nasciamo e restiamo onnivori.
Ammiro i vegetariani per il sacrificio che si impongono, ma la loro alimentazione è qualitativamente inferiore a quella di un onnivoro».
E lei è mai stato vegetariano?
«No. Anche se cerco di mangiare animali che abbiano avuto un’esistenza quanto più naturale possibile. Detesto la crudeltà degli allevamenti intensivi».
“The human sexes” è stato un suo programma tv di culto dedicato alla storia naturale del maschio e della femmina.
#MeToo rappresenta un capitolo nuovo del rapporto fra i generi?
«È una reazione provvidenziale contro il maschio predatore, che abusa le donne sfruttando il suo ruolo dominante. Ma ultimamente anche una semplice molestia viene equiparata alla violenza carnale, il che è assurdo.
In realtà, come tutti i movimenti di contestazione al loro inizio #MeToo esaspera i toni per farsi ascoltare. Ma presto sarà evidente a tutti la sua portata storica.
Perché, d’ora in avanti, certi maschi dovranno pensarci due volte prima di dare sfogo ai loro peggiori istinti».
A cosa sta lavorando?
«Ho appena finito un libro intitolato Body Language in Art, dove spiego i diversi modi in cui gli artisti hanno dipinto posture e gesti. Se vuol sapere perché Napoleone veniva ritratto sempre con la mano destra infilata nel gilet, dovrà comprare il mio libro!».


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