il manifesto 23.1.19
Lo sfacelo libico conviene solo ai nemici dell’Europa
Sovranisti/europeisti.
Non è abbastanza perché l’europeismo riconosca che in Libia è in gioco
l’Europa quale la progettiamo, i suoi valori fondativi, l’identità
politica, l’indipendenza, la sicurezza, il suo posto nel mondo? E non è
la Libia proprio il test per dimostrare all’elettorato la necessità di
una politica estera comune, sorretta da uno strumento militare?
di Guido Rampoldi
Probabilmente
è futile chiedere uno sforzo di meningi ad un Paese in cui i due leader
della maggioranza attribuiscono le stragi di migranti l’uno alla
Francia e l’altro alle Ong. Ma proprio il maremoto della cialtroneria
dovrebbe imporre all’opposizione un pensiero affilato e coerente, quando
occorra capace di proposte inaudite. O perlomeno disponibile ad
affrontare le domande note ai lettori del manifesto, dell’Avvenire,
dell’Espresso, ma tralasciate dal moderatismo anche durante i suoi
empiti di indignazione.
Ci si può sdegnare per gli affogati e allo
stesso tempo disinteressarsi alla sorte dei prigionieri dei lager
libici, ai quali risulta desiderabile perfino la roulette russa di un
viaggio via mare verso l’Italia? E tenersi buone esose bande criminali
perché impediscano le partenze?
È davvero impossibile accordare ai
migranti, intercettati in Mediterraneo o nel nostro territorio, una
protezione internazionale che sia intelligente e umana?
Il
ministero dell’Interno ha la capacità e la cultura per gestire un
problema così complesso? Erano criminali le ong troppo disinvolte oppure
lo è stata la decisione, di fatto italiana, di estrometterle dai
soccorsi dei natanti in difficoltà in un larghissimo tratto di mare tra
le coste libiche e la Sicilia? Le risposte non sono difficili.
Finché
non si arriva ad un problema connesso che è quasi intrattabile,
l’instabilità della Libia. La Libia è ormai un campo di battaglia nello
scontro tra cattivi e pessimi che sta squassando la galassia araba e
sunnita. Da una parte i movimenti rivoluzionari islamici, alcuni dei
quali appoggiati da Turchia e Qatar; dall’altra una consorteria di caste
militari e teste coronate, con l’appoggio esterno dell’amministrazione
Trump e di Netanyahu.
Mentre l’inviato dell’Onu a Tripoli persegue
una road-map sempre più utopica (Conferenza di riconciliazione
nazionale, referendum, libere elezioni) le milizie libiche e i loro
sponsor internazionali si preparano ad una guerra che si annuncia
interminabile, afghana, dato che nessuna tra le alleanze in campo è in
grado di sottomettere i rivali.
Neppure il generale Haftar, capo
di una confederazione di bande ferocissime. Costui dispone di tutto quel
che manca agli avversari: una piccola aviazione (offerta dagli Emirati
arabi), l’intelligence e la missilistica (egiziane), appoggi diplomatici
(francesi), buone relazioni con Mosca e con gli Usa, e un embargo Onu
sulle armi che colpisce solo gli avversari. Però non ha l’essenziale: i
libici, a cominciare dalle gerarchie musulmane anche non integraliste,
lo considerano uno strumento degli stranieri.
L’Italia in
principio contrastava Haftar ma da quando l’anarchia militare minaccia i
tubi dell’Eni ha cominciato a corteggiarlo. All’inizio ne ricavava poco
(leggendaria l’insolenza con la quale il generalissimo trattò a Roma il
ministro della Difesa Roberta Pinotti). Ma il governo Conte ormai lo
blandisce in forme spudorate, nel nome di quel realismo che di solito
conduce gli occidentali alle scelte più autolesioniste e disonorevoli.
Intanto
Haftar va piazzando suoi avamposti intorno alla capitale e minaccia di
abbattere aerei civili turchi; carichi di armi di fabbricazione turca
raggiungono le coste libiche (gli ultimi due intercettati un mese fa in
un porto a cento km da Tripoli); e nel caos generale al Qaeda e Isis
dilagano in parte del Fezzan, il sud.
Per disarmare le milizie occorrerebbe un esercito nazionale libico.
Una
Nato appena previdente avrebbe provveduto per tempo. Cominciasse ora,
occorrerebbero dai 12 ai 18 mesi perché quell’esercito fosse operativo. E
nel frattempo? Per decisione del Consiglio di sicurezza, dal 2011 la
Libia è soggetta alla giurisdizione della Corte penale internazionale,
però defilata (l’unico ordine di arresto emesso negli ultimi anni
riguarda un luogotenente di Haftar tanto ingenuo da denunciarsi con un
video in cui i suoi soldati massacravano prigionieri: è tuttora al posto
di combattimento).
Non disponendo di una propria polizia
giudiziaria la Corte può agire solo se i Paesi presenti in Libia, Italia
tra questi, le forniscono informazioni raccolte sul terreno. Ma quei
Paesi intrallazzano ciascuno con queste o quelle bande e la
rappresentanza Onu in Libia non incoraggia intromissioni della giustizia
internazionale. Ma anche se la Corte fosse messa nelle condizioni di
fissare il confine della disumanità, l’anarchia militare è tale che
nessun processo politico può decollare senza le garanzie minime ma
fondamentali quali può offrirle soltanto una forza internazionale: un
contingente in grado di imporre la liberazione di migranti prigionieri,
qua e là il rispetto di cessate-il-fuoco e no-fly zone, e a Tripoli
l’incolumità di un governo transitorio finalmente sottratto alle milizie
che oggi lo ricattano.
Ma pare problematico perfino formare
questa eventuale forza e, ancor prima, assicurarle un mandato del
Consiglio di sicurezza. Troppo pericoloso affacciarsi in Libia, troppo
conflittuali gli interessi degli Stati coinvolti (spaccano anche la
Nato: Ankara e Parigi sono su fronti opposti).
E com’è sempre più
evidente, lo sfacelo libico conviene ai nemici dell’Europa. A Putin, ma
innanzitutto a Trump, nel calcolo che gli europei continueranno a
rivolgersi a lui perché aiuti a spegnere la guerra dirimpetto alle
nostre coste (in questo Conte è stato il battistrada). Nel frattempo
sabotatori trumpiani e utili babbei aizzeranno lo scaricabarile tra
governi svergognati; e tutti, a cominciare dagli elettori, avranno la
conferma che l’Unione è una disunione ridicola, una nave solida quanto i
barconi alla deriva che lascia affondare con il loro carico di umani.
Non
è abbastanza perché l’europeismo riconosca che in Libia è in gioco
l’Europa quale la progettiamo, i suoi valori fondativi, l’identità
politica, l’indipendenza, la sicurezza, il suo posto nel mondo? E non è
la Libia proprio il test per dimostrare all’elettorato la necessità di
una politica estera comune, sorretta da uno strumento militare? Otto
anni fa l’Europa dei sacri egoismi devastò la Libia con una guerra
neocoloniale. L’Europa moderata proseguì su quella china con un cinismo
miserabile. L’Europa sovranista è perfino peggiore. Ma l’Europa
europeista può emendarsi restituendo la libertà ai migranti prigionieri,
la patria ai libici, un futuro a se stessa.