il manifesto 22.1.19
L’ipocrisia di Bruxelles, che non riconosce la Libia Paese sicuro ma la finanzia
Mediterraneo. Da mesi Bruxelles è incapace di trovare una soluzione comune agli sbarchi
di Carlo Lania
Sono
parole già sentite, che tradiscono l’impotenza dell’Unione europea di
fronte all’arroganza di alcuni Stati. Si sentono praticamente ogni volta
che nel Mediterraneo si verifica una tragedia come quella che venerdì
scorso è costata la vita a 117 migranti, oppure quando ci sarebbe da
intervenire a favore della nave di una ong che, come la Sea Watch in
questi giorni, ha fatto il suo dovere evitando che altre decine di
disperati perdessero la vita nel Mediterraneo e adesso attende
pazientemente che qualcuno in Europa si decida ad aprirle un porto.
Le
parole che arrivano da Bruxelles sono sempre le stesse: «La Commissione
europea ha seguito gli eventi da vicino ma non siamo stati coinvolti in
alcun coordinamento. Alcuni migranti, secondo quanto capiamo, sono
stati salvati e sbarcheranno in Libia», ha ripetuto anche ieri una
portavoce della commissione ricordando come Bruxelles nulla possa sulle
decisioni degli Stati.
Una verità che però è parziale. Perché se è
vero che non spetta all’Ue coordinare i soccorsi e che quella di aprire
o meno un porto è una decisione che riguarda i singoli Stati, è anche
vero che da troppo tempo l’Europa mostra due volti, da una parte
riconoscendo alla Libia la competenza su una zona Sar (Search and
rescue) che in realtà non esiste e finanziando l’addestramento della sua
Guardia costiera (con i risultati che si sono visti anche in questi
giorni) e dall’altra rifiutandosi allo stesso tempo di riconoscere
quello nordafricano come Paese sicuro nel quale riportare i migranti.
Arrivando per questo anche a scontrarsi con Matteo Salvini, come è
successo nel luglio dello scorso anno quando il ministro degli Interni
italiano pretendeva che l’Ue dichiarasse la Libia porto sicuro. «Nessuna
operazione europea e nessuna nave europea effettua sbarchi in Libia,
perché non lo consideriamo un Paese sicuro», disse in quell’occasione la
portavoce della Commissione ricordando per di più come restituire i
migranti a Tripoli sia considerata un’operazione di respingimento
vietata dal diritto internazionale.
Nonostante questo continuano i
finanziamenti alla Libia, sia europei che italiani. 338 milioni di euro
dal 2014 a oggi provenienti da fondi europei, ai quali vanno aggiunti i
9,3 milioni di euro previsti da una gara indetta a dicembre dello
scorso anno dal ministero degli Interni «per la fornitura – ha spiegato
il deputato di +Europa Riccardo Magi che su questo ha presentato
un’interrogazione parlamentare – di 20 battelli destinati alla polizia
libica nell’ambito di un progetto cofinanziato dall’Unione europea nel
quadro del Trust fund for Africa». Tutto questo senza dimenticare i 14
mezzi, tra cui due unità navali della Guardia di Finanza, di 27 metri
ciascuna, classe Corrubia, previste da un decreto varato il 7 luglio
scorso dal consiglio dei ministri e nel quale erano inserite anche
attività di addestramento e formazione degli equipaggi libici (mezzi che
però ancora non sarebbero stati consegnati). Uomini, soldi e mezzi per
un Paese che non solo l’Ue, ma anche il ministro degli Esteri Enzo
Moavero Milanesi ha riconosciuto essere un posto non sicuro per i
migranti.
Tutto per l’incapacità europea di trovare una soluzione
comune alla gestione degli sbarchi. Pur di mettere fine al tragica
ricerca di un Paese disposto ad accogliere quanti vengono tratti in
salvo, Bruxelles ha messo a punto un piano che prevede la partecipazione
di alcuni Paesi «volenterosi» tra i quali – dietro coordinamento della
Commissione Ue – dividere i migranti nella speranza che prima o poi si
riesca ad arrivare a un accordo sulla riforma di Dublino. Il commissario
Ue all’immigrazione Dimitris Avramopoulos ne ha parlato il 14 gennaio
scorso a Roma al premier Conte e allo stesso Salvini , senza però di
fatto ottenere nulla.
E resta infine sempre in sospeso il futuro
della missione europea Sophia. Il 22 dicembre il Consiglio europeo ne ha
prorogato l’attività fino al 31 marzo, facendo così slittare
l’ultimatum dell’Italia che minaccia di tirarsi fuori se non cambiano le
regole per cui i migranti tratti in salvo vengono sbarcati nei suoi
porti. Anche in questo caso, però, almeno finora Bruxelles non è stata
capace di trovare una soluzione.