il manifesto 19.1.19
Chiara Saraceno: «Non chiamiamolo più reddito di cittadinanza»
Intervista.
La sociologa, autrice de "Il lavoro non basta. La povertà in Europa
negli anni della crisi": «Contro i poveri è usato un linguaggio
indecente. Non sono fannulloni che stanno sul divano da pungolare. Sono
persone che hanno diritti fondamentali. Oggi sono necessari un reddito
di base, salari dignitosi, una riforma dei trasferimenti per i costi dei
figli e quella delle detrazioni fiscali»
di Chiara Saraceno
Professoressa
Chiara Saraceno, il «reddito di cittadinanza» è la «fondazione di un
nuovo Welfare» come sostiene il ministro del lavoro Luigi Di Maio?
È
un’esagerazione. Nella versione più positiva, si può dire che è
aggiunto al welfare quello che c’è già da tempo altrove: una protezione
per chi si trova in povertà. È un completamento che non sottovaluto. Da
più di 30 anni promuovo questa idea, ma certo non applicata in questo
modo.
Cosa non la convince?
La mescolanza di due politiche
diverse: quelle contro la povertà e quelle di sostegno al reddito. In
generale, il problema dell’assenza di lavoro non deriva dal fatto che
offerta e domanda non si incontrano, ma dal fatto che non c’è abbastanza
domanda di lavoro. È lo stesso errore di Renzi: si sta facendo una
politica dell’offerta. Poi c’è l’idea di obbligare i poveri a lavorare
perché altrimenti restano seduti sul divano in una vita in vacanza. È un
linguaggio indecente. È una mancanza di rispetto. È come se non si
sapesse che i poveri assoluti hanno spesso in famiglia almeno un membro
che lavora. E ci sono anche persone che lavorano in maniera
intermittente e quelle che non possono lavorare perché sono vulnerabili.
I poveri, per definizione, non sono fannulloni da pungolare.
Esistevano alternative?
Allargare,
ad esempio, il «reddito di inclusione» (ReI), facendo tesoro dei suoi
aspetti più problematici per fare qualcosa di meglio. Invece hanno
deciso di fare una misura nuova negando il pregresso. È un difetto di
arroganza e di ignoranza: rifare tutto senza imparare dagli errori
precedenti. Poi, a guardarci dentro, questo «reddito» non è diverso dal
«Rei». Ciò che lo rende diverso è l’obiettivo molto lavoristico e una
governance molto delicata. Non so se hanno idea di quanto tempo sarà
necessario.
Quanto secondo lei?
Già oggi è difficile che si
parlino l’anagrafe e i servizi di uno stesso comune. Qui si parla di
mettere d’accordo venti regioni, e le province, che hanno in mano le
politiche del lavoro; i comuni, l’Inps, le agenzie interinali, gli enti
bilaterali. Tutto intermediato da due piattaforme digitali. È un’idea
astratta: basta una «app» e tutto viene risolto. È come se non avessero
idea delle difficoltà in campo. Con questa fretta palingenetica di fare
cose nuove, che nuove non sono, e di farle prima delle elezioni europee,
si rischia invece di perdere un’occasione d’oro.
In Germania ci
sono 110 mila persone assunte nei «job center». In Italia sono state
annunciate le 4 mila assunzioni dei «navigator» che si aggiungeranno
agli 8 mila impiegati dei centri dell’impiego. Basteranno?
L’unica
cosa certa oggi è che ci saranno 4 mila posti in più, sia pure precari.
È una storia antica: l’assistenza produce lavoro per chi lavora
nell’assistenza. È sacrosanto che i centri per l’impiego siano
riformati, ma allora facciamolo seriamente, quando siamo pronti. Non
improvvisiamo con persone che, una volta assunte, ed è da capire quando,
dovranno essere formate a svolgere un lavoro complesso come quello
sociale.
Cosa pensa dell’obbligo ad accettare lavori a 100, 250 km e poi su tutto il territorio nazionale?
Trovo
paradossale che due partiti che hanno promesso agli insegnanti di ruolo
che li avrebbero contrastato quella che è stata chiamata una
«deportazione», diano per scontato che i poveri devono andare lontano
per trovare un lavoro. Così i poveri diventano meno cittadini degli
altri e in cambio dell’assistenza perdono diritti. Anche il «consiglio»
di prendere la prima offerta entro 100 chilometri fa pensare: ma ci
ricordiamo che il costo della vita per uno che vive in Sicilia è un
conto, e quello per chi vive a Milano è più alto? Era sbagliato
chiamarlo all’inizio «reddito di cittadinanza», perché non è universale,
oggi ci sono ancora meno ragioni per chiamarlo così.
Cosa pensa dell’obbligo di lavorare 8 ore a settimana per gli enti locali? Si rischia di sostituire lavoratori con contratto?
Il
rischio esiste, anche se forse contenuto. Piuttosto temo che siano
corvée del lavoro, un volontariato obbligatorio che si aggiunge agli
impegni già gravosi previsti dalla formazione. Ancora una volta si
preferisce l’idea dell’obbligo a quella della libertà di partecipare e
di collaborare alla società. In più c’è il rischio di avere meno tempo
di formarsi, cercarsi un lavoro, stare in famiglia.
Cosa pensa della minaccia di punire fino a sei mesi di carcere le dichiarazioni false?
È
uno scandalo per un governo che ha appena fatto un condono. Sembra che
l’idea sia: se sei povero, sei più brutto e cattivo di un evasore
fiscale.
Cosa pensa dell’obbligo a spendere il sussidio ogni mese e
della penalità su quello successivo nel caso in cui questo non avvenga?
Toglie
ogni libertà ed è controproducente. Già queste persone non hanno
liquidità, e poi in molti casi la povertà si accompagna anche alla
difficoltà di gestire un bilancio. È importante sapere quale spesa
faccio oggi, e quale domani. Se compro le scarpe a mio figlio, allora
rinuncio alle sigarette. Così, invece, se questa persona deve spendere
tutto, come dice Di Maio, per immettere liquidità nell’economia, dov’è
allora la capacità e la dignità del povero? Va in secondo piano.
Chiunque si sia occupato di assistenza ai poveri sa che c’è una quota
che non sa gestire il bilancio. Se sono poveri è perché non hanno
risparmi. Possiamo incoraggiarli a risparmiare e ad affrontare le spese
più grosse? Questo aspetto va valutato per evitare anche i rischi di
fare incorrere queste persone in comportamenti che, dicono, saranno
sanzionati.
Cosa pensa dell’esclusione degli stranieri che risiedono da meno di 10 anni in Italia?
È
una norma xenofoba. In più è stata presentata come un modo per
risparmiare. Stiamo pensando di persone residenti, integrate, che
lavorano. Ricordo che il 30% dei poveri assoluti sono concentrati in
queste famiglie.
Dal testo del decreto emerge anche il
riconoscimento della priorità ai disoccupati di meno 26 anni,
disoccupati da meno di due. Non si rischia di creare discriminazioni in
una platea potenziale differenziata come quella dei poveri assoluti?
Certo.
Si rischia di creare due problemi. Il primo può essere generato dal
fatto che è stata mantenuta la soglia dei 780 euro, quella stabilita nel
2013. È un dato che può cambiare con la congiuntura economica e può
riguardare, ad esempio, una persona non anziana che vive in una città
del Nord. A sud questa soglia può essere inferiore. Come del resto lo è
tra città vicine: a Milano è più alta di Como, a Napoli può essere più
alta rispetto a Matera. Per stare dentro ai costi in realtà si è creata
una scala di equivalenza che è rivolta alle famiglie numerose. C’è un
altro problema: si riconoscono all’azienda che assume un beneficiario
del reddito l’equivalente delle mensilità residue. Questo vuole dire che
è i più facili da occupare, i giovani ad esempio, saranno i preferiti
perché portano una dote più ampia. I più difficili avranno meno dote e
saranno meno ricercati: gli anziani che non lavorano da più tempo, le
donne con figli, coloro che hanno meno esperienze. Le ricerche
internazionali lo mostrano: chi esce prima dall’assistenza sono quelli
che hanno più doti personali e di conoscenza. Gli altri si troveranno
alla fine dei 18 mesi con nessuna offerta e li manderanno lontano. A
questo punto, a parità di condizioni, al datore di lavoro converrà
assumere una persona per prendere una quota più vicina ai 18 mesi di
“reddito”. È una competizione tra poveri che rischia di mettere in
povertà chi non ha bisogno di chiedere il reddito.
Di che tipo di reddito abbiamo bisogno?
In
termini utopistici sono favorevole al reddito di base perché aumenta la
libertà. Ma non risolve tutti i problemi: tra l’altro, abbiamo bisogno
di salari dignitosi, indennità di disoccupazione decorosa, un assegno
fino ai 18 anni dei figli al posto dei bonus attuali anche per
garantirgli un’autonomia e una riforma delle detrazioni fiscali che
spesso penalizzano i cosiddetti «incapienti».