il manifesto 19.1.19
È tornata la questione balcanica
Russia/Nato.
Entusiasmo al calor bianco quello che ha accolto Putin in Serbia.
Un’adunata quasi oceanica di 120mila persone. Ma ci sono sempre due
Serbie, l’una in conflitto con l’altra quasi a dare un senso alle due
teste dell’aquila dello stemma del paese
di Alberto Negri
C’è
un Est europeo di avvoltoi che vuole cancellare la memoria, come
scriveva domenica Tommaso Di Francesco su il manifesto, e un altro che
non dimentica mai nulla. Vladimir Putin si è così preso la rivincita
russa in Serbia.
Quando la Nato e l’Italia bombardarono Slobodan
Milosevic nel marzo 1999 (al governo da noi c’era D’Alema) sui muri di
Belgrado qualcuno ironicamente scrisse: «Russia se hai bisogno ti
aiutiamo». Allora un battaglione russo inviato in Kosovo dalla Bosnia
fece una veloce parata per le vie di Pristina e poi lo vidi scomparire
nella zona dell’aereoporto. Ma quella era ancora la Russia di uno
Yeltsin ad un etilico passo d’addio.
Ben diverso il clima di
entusiasmo al calor bianco che ha accolto Putin con il presidente serbo
Aleksandar Vucic alla cattedrale ortodossa di San Sava, un’adunata quasi
oceanica di 120mila persone, in contrasto con le manifestazioni del
giorno prima dell’opposizione per ricordare Oliver Ivanovic, politico
serbo-kosovaro, di cui ricorreva il primo anniversario dall’omicidio. Ma
ci sono sempre due Serbie, l’una in conflitto con l’altra quasi a dare
un senso alle due teste dell’aquila dello stemma del paese.
Una
visita quella di Putin durata poche ore ma che è servita a rafforzare i
rapporti, già solidi e stretti, tra Russia e Serbia, principale alleato
di Mosca nei Balcani. E soprattutto per lanciare un avvertimento sul
Kosovo e sull’espansione della Nato nei Balcani.
Mosca e Belgrado
hanno masticato amaro per l’ingresso del Montenegro nell’Alleanza
Atlantica e guardano con sospetto i recenti passi della Macedonia del
Nord per entrare sia nell’Unione europea che nella Nato. Anche Belgrado è
candidata e entrare nell’Unione ma come ha ripetuto Vucic non ha
nessuna voglia di aderire all’Alleanza che ha bombardato la Serbia
vent’anni fa.
E la Serbia, come ha già detto Vucic più volte, non
ha neppure l’intenzione di rinunciare al suo alleato russo per aderire
alla Ue, rifiutando di unirsi al fronte occidentale sulle sanzioni alla
Russia per la crisi ucraina. Anzi, Mosca – ha annunciato Putin – è
pronta a investire 1,4 miliardi di dollari nel prolungamento del Turkish
Stream nei paesi europei attraverso la Serbia, una sorta di cordone
ombelicale per la sopravvivenza energetica di Belgrado.
Questi
forti legami, politici ed economici, tra Serbia e Russa sono un aspetto
certo non secondario di cui dovrà tenere conto anche l’Italia che
quest’anno ha la presidenza dell’Iniziativa centro europea, il più
esteso forum di cooperazione e integrazione regionale nell’Europa
Centrale, Orientale e Balcanica con sede a Trieste.
Quella
riservata al presidente russo è stata dunque un’accoglienza
straordinaria e al tempo stesso impensabile in una qualsiasi altra
capitale europea, a dimostrazione della enorme popolarità di cui gode
tra i serbi il leader del Cremlino. Non solo per la storica vicinanza
spirituale, religiosa e linguistica tra i due Paesi slavi ma anche per
la ferma posizione di Mosca a sostegno dell’integrità territoriale della
Serbia contro l’indipendenza del Kosovo. I motivi di tensione sono
continui e permanenti, l’ultimo i dazi doganali insostenibili imposti da
Pristina alle importazioni dalla Serbia e la costituzione stessa
dell’esercito kosovaro – contro la Risoluzione Onu 1244 -, ritenuto come
parte di un progetto di Grande Albania che coinvolgerebbe oltre a
Tirana, la Macedonia e parti della Serbia meridionale.
La guerra
del Kosovo è stata l’ultimo atto dell’apocalisse balcanica, fatta di
pulizie etniche, stragi, stupri di massa, che costituirono in un certo
senso la fase terminale di un orrore che aveva già riempito i cimiteri
nella seconda guerra mondiale. Questi Balcani sanguinanti hanno
cominciato a ricostruirsi soltanto ora, dopo una lunga sequenza di
eventi drammatici. Mai dimenticare però una frase di qualche anno fa
dello storico George Prévélakis che suona ancora oggi, come un
ammonimento: «I Balcani sono un avvertimento mortale per chi crede che
il prestigio di uno Stato, la sua potenza e la prosperità restino tali
nel corso del tempo. I Balcani sono tutto il contrario del facile
ottimismo». Qui la memoria è più viva che mai, forse anche troppo.