il manifesto 19.1.19
Visioni
Enrico IV, gioco al massacro di una apparente follia
A
teatro . Carlo Cecchi riscrive il testo pirandelliano, lo spettacolo
assume così una fluidità nuova. Nel cast Angelica Ippolito, Gigio Morra e
Roberto Trifirò
di Gianfranco Capitta
PORDENONE
Parte con un piccolo trionfo al Verdi di Pordenone (in grande rilancio
della propria programmazione), la seconda stagione con intensa tournée
di Enrico IV di Luigi Pirandello (produzione Marche Teatro, a metà
febbraio a Roma all’Argentina). Un testo che Carlo Cecchi, che ne è
anche protagonista, ha in qualche modo rimesso «in equilibrio». Attorno a
lui una compagnia che come sempre riunisce suoi antichi compagni di
scena (come Angelica Ippolito e un irresistibile Gigio Morra), solidi
attori che di buon grado entrano nel suo gioco scenico (Roberto Trifirò)
e alcuni giovani e giovanissimi di sicuro avvenire che hanno
l’opportunità di misurarsi con un uno dei pochi veri «mostri sacri» del
nostro palcoscenico.
ANCHE per loro, oltre che per sacrosante
ragioni «culturali», Cecchi ha sfrondato il ridondante quasi-monologo
del protagonista del titolo, dando così maggior spessore non solo ai
compagni ma allo stesso testo. Pirandello l’aveva scritto per Ruggero
Ruggeri, ma è stato ereditato poi da diversi emuli del «grande attore»,
anche quando si era già compiuto il «tramonto» di quel genere
recitativo. Ora, grazie a Cecchi, lo spettacolo assume una fluidità
nuova, così come il racconto, che svela trame impreviste in quel gioco
al massacro di una apparente follia. Un gioco in cui si entra
immediatamente, con gli accordi tra i giovani badanti che del vecchio
folle si occupano,uno dei quali deve superare un vero e proprio test di
ammissione che è quasi un provino.
È UNA MESSINSCENA del resto
quella del padrone di casa, che stufo dei giochi di corteggiamento e di
interesse dei suoi parenti e frequentatori, quando è caduto da cavallo
durante una rappresentazione in costume dedicata all’incontro di
Canossa, auspice la duchessa toponima, tra il papa Gregorio VII e
l’imperatore Enrico IV appunto, ha finto la pazzia per schermarsi da
quelle presenze e dal loro assillo. Una pazzia che solo lentamente
traspare come voluta e «recitata».
PROPRIO QUI, in quel confronto
tra la affettata presenza parentale, morbosa quanto corrotta, e la
dolorosa consapevolezza del protagonista, si risveglia l’interesse di
oggi. La recita del finto imperatore offre una perfidia insperata, che
si rivela perfino «divertente», come un gioco di ruolo, o una grande
interpretazione. Cecchi del resto padroneggia da sempre il gioco del
teatro, e qui lo conduce con divertita crudeltà. Egli è il solo, assieme
a noi spettatori, a conoscere la verità, appena dissimulata e quasi
accresciuta dai costumi di medievale naiveté (di Nanà Cecchi), e dalla
scena (di Sergio Tramonti) che come quinte o fondali si apre e si
rovescia. Quella scelta del protagonista prende progressivamente corpo
come radicale cambio di identità rispetto a una realtà che (in
Pirandello, ma anche ai giorni nostri davanti ai bla bla che ci
assediano dai talk show), non si può sfuggire se non parlando un’altra
lingua, e abito e comportamento.
E COSA meglio del teatro può
permettere questa fuga: non dalle responsabilità, ma dal dover prendere
per serie e decisive tutte le chiacchiere altrui. Un’esperienza
liberatoria che, grazie a Cecchi, a Pirandello ci riavvicina,
conferendogli nuovo interesse, e utilità.