Corriere 19.1.19
La figlia di Amos Oz, il grande scrittore israeliano
«Vi racconto chi era mio padre»
di Fania Oz
Mio
padre è morto di venerdì. Se i veri giusti muoiono nel giorno dello
Shabbat, solo ora capisco che gli scrittori devono morire di venerdì.
L
a notizia è trapelata appena prima di questo sabato invernale e per
tutto il lungo fine settimana, in Israele e altrove, decine di migliaia
di persone hanno saputo di mio padre e hanno letto le sue parole. Uno
scrittore deve morire di venerdì.
All’età di quattro anni ho
scoperto la morte. Sono andata da mio padre per confidargli il mio
terribile spavento. Mio padre mi disse: «Non temere, Fania, perché per
quando sarai grande avrò inventato qualcosa che impedirà alla gente di
morire». Disse proprio così, con queste esatte parole. Andate a vedere:
il papà venticinquenne che diceva queste cose alla sua bambina era il
ragazzo di Soumchi , il ragazzo di Una pantera in cantina , il ragazzo
del Monte del cattivo consiglio , e di Una storia di amore e di tenebra .
Quel ragazzo di colpo è diventato padre: il mio.
Alcuni
sostengono, e a ragione, che non bisogna dire a un bambino spaventato
dalla morte che il padre inventerà qualcosa per fermarla. Come se da
sole le parole bastassero a donarci la redenzione, la guarigione
completa e finale, o almeno ci consentissero di guadagnare tempo, di
rimandare il timore della morte di un bambino, di un adulto o di un
anziano, per cullarli in un incantesimo artificiale addolcito dal
miraggio di un futuro ancora possibile. Questa critica abbraccia anche
la visione politica di mio padre. Certo, voglio parlare qui della sua
visione politica perché, sia per lui che per me, la politica era una
questione anche personale. Non tutto ciò che è personale è politico,
ovviamente, ma tutto ciò che è politico è anche personale.
Alcuni
pensano che l’«ottimismo» politico che ha accompagnato Amos Oz in quasi
tutta la sua vita — non negli ultimi anni, ma per quasi tutta la sua
vita — sia stato una fantasia sulla pace mondiale, sulla bontà
complicata ma possibile del genere umano, sulla speranza di guarire la
società. Riparare e guarire con zappe e badili, con libri e penne.
Costoro hanno disprezzato il suo «ottimismo», e anzi, ne erano
spaventati, quasi che la sua cocciuta battaglia per la pace tra arabi e
israeliani, in particolare tra Israele e la Palestina, fosse una folle
illusione, una pericolosa licenza poetica, un’ombra effimera nella
caverna di Platone.
Mio padre ha insistito fino alla fine, fin
verso la fine, che uomini e donne diventano più buoni con il passar del
tempo, più complessi e più buoni, grazie al contatto con il prossimo, e
con il dolore del prossimo, per quanto lontano e straniero, attraverso
la capacità di raccontare storie e di ascoltare storie, che ci permette
di immedesimarci per un breve istante nell’umanità estranea di
personaggi lontani e sconosciuti. Mi diceva spesso: «Possiamo condensare
tutte le leggi morali, i Dieci comandamenti e tutte le virtù umane in
un unico precetto: non infliggere dolore. Tutto qui. Non fare del male. E
se non ci riesci, almeno sforzati di causare il minor male che puoi. Di
infliggere il minor dolore possibile».
Per tutta la sua vita mio
padre si è sforzato di non causare dolore, ma talvolta non ci è
riuscito. So benissimo che in alcune circostanze ha causato dolore agli
altri. Ma so anche che tantissime persone si sono fatte avanti nelle
ultime settimane per raccontarci come mio padre avesse prestato loro
ascolto, o assistenza, con pazienza e generosità. Vedete, è davvero
possibile alzarsi ogni giorno alle quattro del mattino e far di tutto
per causare meno dolore. Causare meno dolore e scrivere. Anche questo
faceva, dalle cinque del mattino, dopo la sua camminata all’alba, con la
penna nera e la penna blu, per distinguere la voce del narratore dalla
voce del cittadino-oratore.
Mio padre creava personaggi inquieti e
perseguitati e per loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi
incantesimi sulle tenebre per far sgorgare la luce dell’amore. E tra
l’amore e le tenebre, e altrettanto complicato quanto l’amore per una
donna, mio padre ha trascorso la sua vita a lottare con l’amore per la
sua terra e il suo paese, Israele, lo Stato che è germogliato dalle
lacrime dei suoi genitori. Con l’energia del testimone davanti al
trionfo del sionismo, con la fede incrollabile della generazione che ha
fondato uno Stato per gli ebrei in Israele, mio padre ha continuato a
esplorare le vie per realizzare la speranza più recondita del sionismo,
forse l’ultima speranza sionista rimasta ancora incompiuta: la pace qui
tra noi e gli arabi. Ci sono uomini e donne, mi ripeteva, che crescono
in bontà e saggezza negli angoli più sperduti del Paese, e saranno loro
prima o poi ad afferrare in mano il timone di Israele. Saranno le
persone più inattese, forse gli ultimi arrivati — non i famosi e gli
assetati di gloria — che si faranno avanti e si metteranno alla guida.
Verranno da terre ignote, dove già spuntano in segreto le grandi
speranze del domani.
Non ottimismo, ma speranza. L’ottimismo è il
colore della previsione; la speranza è la consapevolezza di un valore
profondo, o figlia di un’immaginazione sovrumana. La speranza è
l’opposto del fanatismo e del suo cugino germano, la disperazione, e di
quell’altro parente, il cinismo. Tutti coloro che sbarrano le porte sono
nemici della speranza. Parlo nella speranza che un giorno avremo anche
noi pace e giustizia, quella giustizia sollecita e benevola che governa
una società solidale e matura, non avida né zelante per qualche grande
teorema, bensì capace di condividere in ogni cosa il rispetto e
l’affetto per gli esseri umani così come sono. È la speranza per una
società israeliana capace di nutrire giudaismo e umanesimo, le parole
gemelle incise sulla porta di casa di nostro zio, Joseph Klausner.
Quella stessa ebraicità i cui ingranaggi segreti, pur nell’assenza di
fede in Dio, sono i figli, i libri e il dialogo. E per noi, nella nostra
casa e nella nostra cultura, il dialogo con chiunque è sempre
benvenuto, e il dibattito è accolto con gioia, infervorato e assordante
quanto si voglia, purché non causi dolore a nessuno.
Così radicata
e solida è questa grande speranza, che sebbene oggi taluni la
respingano nel timore che potrebbe indebolirci e consegnarci nelle mani
dei nostri nemici, un’infinità di persone ne sanno cogliere la
grandezza. È una speranza che si annida nel centro stesso del sionismo,
nel centro stesso dell’umanesimo. La speranza fa bene al cuore, lo
allarga, spalanca gli orizzonti e spinge all’azione. Rappresenta l’arena
e l’eredità per i nipoti che vivono in questa terra. E per i nipoti che
vivono in qualunque parte del mondo.
Mio padre è morto, e
chiunque pensi che una speranza come questa sia morta in Israele con la
morte di Amos Oz non conosceva bene mio padre, perché lui sapeva che
avremmo proseguito su questa strada. Aveva escogitato un’invenzione per
non far spegnere la speranza. I suoi figli e nipoti, amici, studenti,
lettori e interlocutori, persino i suoi degni oppositori, noi tutti
faremo sì che non si estingua. Che sia chiaro: mi riferisco alla
speranza di una vera pace qui tra un Israele democratico, uno Stato
degli ebrei e di tutti i suoi cittadini, uno Stato fondato sul diritto e
sulla giustizia sociale, uno Stato in cui la lingua della Torah possa
fiorire, al pari della cultura giudaica ed ebraica, a fianco delle
culture arabe e mondiali. (...)
Abbiamo già cambiato la storia una
volta. I genitori di mio padre, e i genitori della mia amatissima
madre, i pionieri del Kibbutz Hulda e gli ebrei che sono approdati fin
qui per vie di mare e di terra, da ogni angolo della diaspora, con un
unico scopo nella mente, sospinti da un’immane catastrofe, tutti costoro
hanno cambiato la storia. Sfuggiti alle fauci del demonio, hanno
cambiato la storia. E noi, non possiamo anche noi, qui e ora, sperare e
agire? Non credo che mio padre possa sentire quello sto dicendo. Era un
ebreo profondamente laico. Lo sono anch’io. Eppure io sono certa,
fermamente certa, che in questo momento egli stia accennando di sì con
il capo.
Pertanto è possibile inventare qualcosa per far in modo
che la nostra speranza umana e israeliana non muoia. È una speranza
saggia e misurata, molto ebraica in un certo senso, una speranza che
abbraccia tutti gli uomini e il mondo intero. La speranza che sia
concessa a tutti una buona vita sulla terra, e che tutti, o quasi tutti,
siano capaci di narrare storie e di ascoltare storie, ma con grande
attenzione. La speranza che tutti allora possano cominciare, uno dopo
l’altro, a non causare più dolore a nessun altro essere umano, o
perlomeno a causare meno dolore.
Ho amato profondamente mio padre e
la mia anima era vicina alla sua. Pensavo di venire qui oggi e di non
riuscire ad aprir bocca, ma vedo che non mi sono mancate le parole.
Abbiamo le parole. Le parole di mio padre e le parole degli altri, e
tutte le parole buone che aspettano ancora di essere pronunciate. Queste
parole ravvivano l’amore, incarnano i sogni e talvolta cambiano il
mondo. Queste parole non moriranno, e presto qualche speranza si
trasformerà in realtà anche qui da noi.
Grazie, abba (papà, ndt ).
( Traduzione di Rita Baldassarre )