il manifesto 18.1.19
Un sussidio moralistico e poliziesco
Ma
quale reddito. Se la partita del reddito di cittadinanza intendeva
giocarsi, guardando al futuro, con i padroni dei robot e la rendita
finanziaria, il reddito dei 5 stelle guarda al passato, coltivando
un’idea di occupazione e disoccupazione completamente superata e
degradante
di Marco Bascetta
È bene che
disoccupati, sottoccupati, precari, giovani impegnati nelle più diverse
attività non contemplate dal mercato del lavoro, poveri assoluti e
relativi di ogni provenienza se ne rendano fin da subito conto.
In
Italia non sarà introdotto alcun reddito di cittadinanza, ma un
sussidio temporaneo, da spartire con le aziende, tra i più condizionati e
punitivi d’Occidente.
Il penoso dibattito e la schermaglia tra le
forze politiche che da mesi e mesi occupano quotidianamente la scena
pubblica evidenzia soprattutto che i nostri riformatori ritengono di
avere a che fare con un popolo di truffatori e di fannulloni.
Non
si spiegherebbe altrimenti l’enorme sproporzione tra le energie spese
nel prevenire gli abusi e quelle impiegate nel rendere disponibile l’uso
di questo ammortizzatore sociale.
L’impianto pedagogico –
poliziesco del sussidio targato 5 stelle ripartisce infatti la
popolazione «inoccupata» in due categorie.
La prima comprende
degli sprovveduti esclusi senza colpa o mai entrati nel mercato del
lavoro, bisognosi di essere condotti per mano da un piccolo esercito di
burocrati a rendersi appetibili per le aziende (ovverosia docili ed
economici).
Alla seconda appartengono gli scansafatiche,
stravaccati con soddisfazione sul mitico divano, da dare in pasto alla
guardia di finanza e alla galera. L’una e l’altra figura non sono che
proiezioni ideologiche senza relazione alcuna con la realtà, almeno con
quella statisticamente rilevante. Al mercato il diritto di stabilire
condizioni, valore, durata e riconoscimento del lavoro, alla burocrazia
statale quello di definire l’«utilità sociale» dei compiti assegnati e
la moralità degli assistiti.
Il sussidio previsto nel «contratto»
di governo risponde a una logica diametralmente opposta a quella che
sottende il reddito di base come è stato pensato e argomentato, sia pure
in forme e proporzioni diverse, da tutti i suoi sostenitori: in un
mondo in cui l’intermittenza del lavoro umano e la sua diminuzione
quantitativa espongono gli esclusi a una permanente condizione di
ricatto, il reddito di base avrebbe dovuto permettere di difendersene e
di esercitare una qualche libertà di scelta.
Nella versione
pentastellata, invece, la ricattabilità è gestita direttamente dallo
stato e la libertà di scelta completamente cancellata all’interno di un
dispositivo di controllo e disciplinamento della povertà che di
precisazione in precisazione si fa sempre più punitivo.
Se la
partita del reddito di cittadinanza intendeva giocarsi, guardando al
futuro, con i padroni dei robot e la rendita finanziaria, il reddito dei
5 stelle guarda al passato, coltivando un’idea di occupazione e
disoccupazione completamente superata e degradante.
In Germania
dove il governo della disoccupazione di lungo corso è da anni affidato
al sistema di sussidi e controlli denominato Hartz IV, i
socialdemocratici che lo hanno inventato (ai tempi del Cancelliere
Schroeder) e difeso, hanno avuto tempo di pentirsi, dopo averne
pesantemente pagato il costo politico, degli aspetti umilianti e
vessatori che ne hanno fatto un vero e proprio stigma sociale.
E
oggi, per la prima volta, nonostante l’economia tedesca non volga al
sereno, le domande di sussidio diminuiscono. Mentre la corte
costituzionale di Karlsruhe sta esaminando la liceità delle sanzioni
previste per chi non rispettasse gli obblighi imposti ai beneficiari.
Quel sistema, converrà comunque sottolinearlo, è assai meno coercitivo e
moralistico del cosiddetto reddito di cittadinanza escogitato dal
vertice pentastellato in Italia.
Tuttavia molti sostenitori del
reddito di base, pur consapevoli del fatto che il sussidio denominato
Rdc si trova agli antipodi dell’obiettivo che si proponevano, aggiungono
che in ogni caso «è meglio di niente». Ed effettivamente se tanti lo
richiedono vuol dire che il disagio sociale e l’esclusione hanno ormai
raggiunto un livello tale da aggrapparsi a qualunque appiglio. Meglio
suddito che indigente, meglio umiliato che affamato. C’è poco da
eccepire.
Ma a patto di continuare a battersi contro l’impianto
disciplinare di questo provvedimento, di denunciarne la natura
poliziesca e ricattatoria, di sgomberare il campo dalle finzioni, di
difendere con ogni mezzo i diritti calpestati e quella libera produzione
sociale di ricchezza che alcuni vogliono accaparrarsi ma nessuno
intende riconoscere.
Insomma, la battaglia per il reddito universale è ancora tutta da combattere.